martedì 9 settembre 2014

LA PAGINA BIANCA



  La pagina bianca è terribile. Rimani fermo ore ad osservare lo schermo vuoto. Spingi un tasto, poi un altro, formi una parola, due, tre. Leggi. Cancelli.
  Casa, scrivi.
  Elia.
  Scuole elementari.
  Nonna.
  Mamma.
  Papà.
  Lavoro.
  Crisi.
  Sfiga.
  Bicicletta.
Cancelli.
  «Vai tranquillo», mi incoraggia il Criceto, «vedrai che qualcosa esce».
  «Qualcosa esce», mi dico. «Sicuro.»
Mi accendo una sigaretta.
Un’altra.
  Mi alzo.
  Lavo i piatti.
  Pulisco casa.
Qualcosa. Esce.
  Di nuovo, davanti al computer.
Squilla il telefono.
Non rispondo.
  Guardo la stanza, i poster attaccati alle pareti, il tappeto a terra, la bottiglia d’acqua gettata con noncuranza quasi vicino al secchio rosso, la scrivania piena di quaderni e matite e gomme, la bicicletta, la lampada azzurra, i libri, i fumetti, la maschera africana aggiustata con la colla, la piccola pozza d’acqua che si sta formando sul pavimento (?), il mandala preso in Nepal. Penso a Zoé, la ragazza che ho conosciuto in Asia, la donna che amo alla follia.
  Zoé, scrivo.
  Il nostro addio, Amici & Amiche, è stato uno di quegli addii strappalacrime, da filmetto americano, ma senza l’happy end finale. È stato un saluto triste, in un aeroporto buio, privo di luci, asettico. È stato un voltarsi un’ultima volta, un sussurrare parole dolci che entrambi sapevamo non vere, un guardarci negli occhi, un bacio, la consapevolezza dell’addio. È stato un ricordo di mille sorrisi e mille ristoranti e mille letti. È stato un pianto veloce, di spalle, quando lei non poteva più vedermi.
  Avrei voluto non girarmi, lasciare quest’immagine di me, bello & fiero, che mi allontano per tornare a casa, ma non ce l’ho fatta.
  Mi sono voltato e lei già non c’era più, risucchiata tra le vie della metropoli, il suo profumo ancora sulle mie labbra.
  Ci siamo amati Zoé ed io. Abbiamo vagato per strade sconosciute, scoperto locali e intrattenuto simpatiche conversazioni con loschi figuri.
  Abbiamo riso.
A me Zoé mi fa ridere tantissimo.
Mi fa ridere per un nonnulla. Mi fa sbellicare dalle risate. Se rido con lei non mi fermo più.
  Ecco sì, mi sono innamorato della risata. Non dei momenti di silenzio, delle cose serie, del suo corpo o dei discorsi (intelligentissimi sissignore) che facevamo, della crisi militare in Iraq, dello squalo ad Ostia (anche se lei non sapeva manco dove si trovasse Ostia), dei nostri lavori e delle scorrazzate in bicicletta… cioè, anche di questo eh… però soprattutto mi sono innamorato della risata.
  Ridere, Compagni & Compagne, è divertente. Mio papà me lo diceva sempre, «Trova i tre lati positivi, fatti una risata!»
  Ero piccolo certo, però la lezione l’ho capita. “Se rido”, pensavo, “non posso essere triste”.
  Con Zoé ho riso come un matto. Ridevamo dei turisti cinesi, della ciccia degli americani, delle fotografie a personaggi improbabili, della pioggia, delle stupidaggini più assolute. Avevamo tutto un nostro codice di risata, che noi chiamavamo “Il Codice della Risata”. Lo capivamo solo noi, quelle piccole parole appena pronunciate, uno sguardo speciale, un’intesa perfetta. Ridevamo per le stronzate ecco e a me ridere con lei piaceva tanto.
  Sapevamo entrambi che ci saremmo separati, che non ci saremmo più visti…
…ma non ci importava, stavamo bene insieme ed era giusto così. Però Amici io i giorni in verità li contavo. Più mi innamoravo e più contavo i giorni.
  «Perché sei paranoico», mi diceva il Criceto, «non sai gustarti le cose, viverti il momento».
  «L’attimo Mangiaboschi, cogli l’attimo».
Ma come potevo cogliere l’attimo se alla nostra separazione mancava così poco?
  Dieci giorni, cinque, quattro.
Cristo se mi manca.
  «Abbiamo ancora tre giorni», mi diceva lei.
Per me però erano solo tre giorni. Avrei voluto vivere quei tre giorni per sempre, rallentare il tempo e bloccare ogni cosa, fermare tutto insomma.
  «Parvati ti prego», supplicavo la dea induista, «ferma il tempo».
Ma Parvati non mi ascoltava mai.
  «Dovevi chiedere a me!», mi rimprovera Ganesh, «Sai che ti avrei aiutato…»
  Sono stati i tre giorni più belli della mia vita, ma anche i più tristi. Io lo so che sembra smielata come cosa e vi prego perdonatemi, ma io in quegli occhi mi ci perdevo proprio.
  «Tipo le storielle di Cioè», dice Parvati, adesso che la sua presenza è inutile.
  «Peggio di Cioè».
Forse Zoé non capiva, forse ero io a non capire lei. Avrei voluto che tornasse, che venisse con me in Europa.
  «È importante per me, è una sfida, non posso tornare».
“Ma il nostro amore”, pensavo, “non è anch’esso una sfida?” Questo non lo dicevo mai. Mi sentivo egoista, stupido, infantile. Solo che poi rimanevo in silenzio, muto.
  «Cos’hai?», mi chiedeva allora Zoé.
  «Niente».
  «Però poi le cose mica te le sai tenere. Cretino», mi strilla Ganesh allungando la proboscide.
E infatti parlavo, duravo massimo cinque minuti zitto, e spiattellavo tutto il mio malessere, la mia gelosia nei confronti dell’Asia, la mia rabbia e Zoé rimaneva in silenzio e gli occhi le si inumidivano un po’.
  «Sei ingiusto», sussurrava.
  Ed io capivo tutto, ogni cosa, e comprendevo anche quanto ero stato cattivo e spietato ma dovevo dovevo parlare.
  Io dovevo parlare Zoé, le cose non me le so tenere, mi fanno star troppo male, anche quando vorrei rimanere in silenzio, quando so che sto per dire una cattiveria orribile non ce la faccio.
  Devo liberarmi.
E allora sì, se non partiva lei, sarei rimasto io in Asia, saremmo stati via per un anno in giro per il mondo.
  «Il lavoro è una merda!», urlava il Criceto.
  “LAVORO DIMMERDA!”, pensavo fiero.
  «Licenziati! Sei un precario, puoi farlo!»
    “SONO UN PRECARIO! HO I MIEI DIRITTI!”
  «Rinuncerai ai buoni pasto! Nulla più!»
  “AI BUONI PASTO!”
  «Meccanic. A, l’azienda per cui lavori, non ha bisogno di te!»
Ma la paura ha preso il sopravvento. Non ce l’ho fatta e sono tornato.
  Ogni alba con Zoé è stata unica, ogni sole bellissimo, ogni momento speciale. Con Zoé ho ballato completamente nudo nella stanza di una bettola di Patan; assieme a lei sono scappato da una mandria di mucche impazzite, salvati da una vecchia di novant’anni; con lei ho visto le montagne dell’Annapurna e il sole ci ha baciato anche quel giorno (assieme alle sanguisughe); ci siamo persi seguendo Il Libro, ma soprattutto in ogni momento, in ogni istante, la sua bocca si è aperta in un grande sorriso e ogni cosa è diventata bellissima.
  Mi hai fatto star bene anche quando eri stanca, quando non volevi più camminare o quando ti fermavi a giocare con il cellulare a Candy Crush (a Candy Crush cazzo).
  Mi piacciono i difetti di Zoé, quei piccoli difetti che la rendono unica. Mi piacciono le zampe di gallina attorno agli occhi che si stringono, mi piacciono i suoi piedi con lo strano bozzo al lato, mi piace il naso di poco spostato a destra.
  E mi piacciono le cose belle. La voce, l’allegria, il sesso.
Quando sono partito per l’Italia, solo nell’aeroplano a guardare un film in turco, non ho pensato a niente e ogni cosa è scomparsa.
  Non ho più sentito Zoé, non le ho scritto, non le ho telefonato. Ogni tanto mi domando dove sia, mi perdo a immaginarla in una strada sperduta del Laos o in una spiaggia della Thailandia; qualche volta mi ricordo dell’ultima volta che abbiamo fatto l’amore e di come siamo venuti insieme, nello stesso momento, le lenzuola sfatte e i corpi sudati.
  Poi mi fermo.
  Rimango immobile.
  “E adesso?”, mi chiedo pensieroso. “Cosa è rimasto ora?”
Ora c’è solo una pagina.
È davanti a me.
È bianca.
  E mi fissa.

2 commenti:

  1. c'è spazio su quel bianco per un sacco di vita, di gioco di ironia, di sorrisi e altri viaggi...questa ragazza, così intensa, a me pare energia per te e nuova buona scrittura :-)

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