martedì 22 luglio 2014

CHIUSO PER FERIE



  Amici & Amiche, finalmente, e sottolineo finalmente, me ne vado in vacanza. Meccanic. A, l’azienda per cui lavoro, chiude ed io scappo all’estero.
  Buone ferie quindi ai lavoratori e alle lavoratrici, a chi va in villeggiatura e a chi non ci va. Buone ferie ai disoccupati, ai sotto-occupati, ai precari, ai ladri di biciclette, agli imballatori di pacchi, ai colleghi e alle colleghe, a chi si sveglia tutte le mattine per prendere la metro, agli amici, ai ciclisti, ai pazzi, ai fumatori, a chi abita a Magliana, a chi segue ‘sto blog, agli operatori dei call center, ai militanti, ai venditori porta a porta, agli impiegati, a chi rimane, all’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante, ai musicisti, agli scrittori e agli artisti, a chi non dorme e a chi dorme troppo, ai bancarellari, ai peluche giganti, ai giardinieri, ai festaioli, ai lettori, ai camerieri, ai venditori ambulanti, a chi ha un sogno nel cassetto, ai contadini, ai sovversivi e ai sabotatori. Buone ferie a voi, a quasi tutti.
  Io, Viaggiatori & Viaggiatrici, parto per il Nepal.
  «Katmandu è dietro l’angolo!», urla il Criceto.
Devo solo: preparare la valigia, fare i vaccini, trovare i romanzi giusti, cucire lo zaino rotto, studiare la guida, compare il Moment, l’Aspirina, la Tachipirina, l’antibiotico, i rimedi naturali per l’insonnia. Eh. Il jet lag, Compagni della Notte, si fa sentire.
  Io ci soffro di jet lag.
  «Ovviamente», sorride il Criceto.
  Beh. Che dire. Vi manderò una cartolina dalle montagne più alte del mondo, assieme all’amico yeti, felici & contenti.
  Ci si rivede a settembre, sempre una volta a settimana, sempre il martedì.
  Vi salutano papà e anche mamma. Pure nonna Concetta c’ha due paroline per voi ché per farle capire come funziona un blog ci sono stato tre giorni.
  Bene.
  Ci siete?
Mettetevi comodi, aprite gli occhi, rilassate la bocca.
  Preparate le magliette.
  Correte sì.
Okay, adesso calmatevi. Rasserenatevi.
  E dopo, solo dopo, fuggite via. Agosto è lungo.
Buon riposo. 

martedì 8 luglio 2014

MECCANIC. A



  Io, a dispetto delle mie aspettative infantili, faccio l’impiegato. Da piccolo volevo diventare un operaio, forse influenzato dai racconti di mio padre, o almeno un prode sabotatore comunista. Volevo scalare le montagne della rivoluzione ed erigermi a nuovo Lenin, avrei guidato le masse verso il mondo perfetto, superando addirittura la dittatura del proletariato. Quando la maestra mi chiedeva, «Cosa vuoi fare da grande?», io rispondevo tutto fiero, «L’operaio!». Poi ho studiato e sono andato all’università, ho fatto Scienze politiche io e una volta laureato ero pronto ad affrontare la realtà. Sentivo, come spesso capita ai giovani, il mondo ai miei piedi. Nel frattempo sono stato cameriere, studente modello per una nota multinazionale di bibite energetiche, dogsitter, faccendiere, speedy pizza, commesso in una cartoleria, spacciatore, giornalista non pagato, babysitter, ragazzo delle ripetizioni, operatore, libraio, ma mai, mai, operaio. L’operaio non l’ho fatto e non sono diventato neanche il grande rivoluzionario che avrei sognato di essere.
  Sono diventato impiegato grazie a mia mamma Viola. Viola conosce la figlia del Principale e, finita l’università, in piena depressione postadolescenziale, ho accettato il lavoro senza battere ciglio.
  Io odio il mio lavoro.
Meccanic. A, la ditta che mi ha assunto, si trova all’Eur, il quartiere fascista costruito in epoca mussoliniana. L’Eur è bianco, lucido e levigato. All’Eur c’è un grande palazzo, alto quasi fino alle stelle. Il palazzo, sede di Meccanic. A, si scaglia nel cielo come una roccaforte del male. Il palazzo è diviso in più piani e ogni piano ha una sua mansione. È un organismo vivente Meccanic. A e ogni cellula deve fare il suo lavoro. Il mio è quello di timbrare pacchi e stampare ricevute.
Ma bando alle ciance. Diamo il via al racconto.
  Signore & signori…
  Impiegati & Impiegate…
  Precari & Precarie…
  Ecco a voi…
L’UOMO TIMBRA PACCHI!
  Non sedetevi questa volta, seguitemi anzi, infilate le scarpe e inforcate gli occhiali. Alzatevi presto, correte a far colazione, scappate in bagno adesso.
  Uno, due, tre, quattro,cinque.
Non esce.
  «Tenta!», urla il Criceto. «Tenta!»
No no no, non vuole saperne.
Io odio quando non faccio la cacca la mattina. Ma è tardi e il ritardo a Meccanic. A non è contemplato.
  Bene.
  Ci siete?
Corro. La bici sfreccia lungo le vie di Trigoria. Scatta tra le strade, sgattaiola tra le macchine e saetta saetta in mezzo alle strade trafficate.
  Posso tutto.
Vi capita mai, Amici, di avvertire la puzza? La puzza della vostra ascella malandata, il tanfo di sudore che si espande prepotente dall’ascella sinistra?
Sì? Bene, siamo in tanti allora.
Non fermatevi però, siamo giunti a destinazione.
  Il palazzo si erge alto e maestoso, alveare dalle mille finestre.
Giù, nei cunicoli più bui, i troll preparano i pacchi.
  «Chi siamo noi?»
  «I troll!»
  «E cosa vogliamo!»
  «Sgobbare, sgobbare, sgobbare!»
Efficienza, Colleghi & Colleghe, efficienza.
  L’ascella ne risente.
Poi. Lo stimolo.
  «Non far caso allo stimolo!», mi dice il Criceto.
Il Piano G, il mio.
  Mi siedo.
Mi scappa la cacca.
  «Tu», mi dice la cacca, «morirai. uscirò quando c’è la riunione e appesterò l’intero ufficio!»
  L’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante guarda la stampante con reverenda beatitudine, osserva le linee perfette, il grigio levigato, la cura nei dettagli, abbassa la testa, di nuovo pronto a compilar  scartoffie. «Elia», mi dice, «guarda quant’è bella».
  Il mio compito, uguale a quello di tutti i colleghi del Piano G, è timbrare ricevute, preparare le richieste e firmare i contrassegni. Tutte le mattine, ogni mattina, trovo una serie di ordini sulla mia scrivania stampati su cartoncini rossi, gli ordini recitano più o meno così: “Regola + CatastoX2 + RICDAPAGCNBON 7/7 €99.50 + C/A X2 235467”. Io devo trasformare sul computer i codici, con data di scadenza del pagamento, il nome del cliente e l’offerta. Dopodiché stampo il tutto su carta adesiva e, finita l’operazione, attacco l’adesivo su altri fogli, a seconda del tipo di pagamento effettuato: ricevute, contrassegni o ccp.
  Tutti i giorni, ogni giorno.
Il Piano G, lasciatemelo dire, è un settore di tutto rispetto, molto vicino al Piano B, dove fanno le riunioni i big dell’azienda. Più sotto, negli scantinati, lavorano gli imballatori; gli imballatori, esseri gobbi e rozzi, sono i famosi troll, i piccoli lavoratori che riempiono e confezionano i pacchi. Gli stessi pacchi che vengono creati, attraverso le apposite etichette, proprio al Piano G. Per questo tra gli abitanti dei due settori c’è un discreto rapporto di formale cordialità.
  Non con me.
  «Lode a Dio!», dice Gina.
-Gina fa parte di una setta di cattolici oltranzisti. Lei e suo marito non usano contraccettivi, quindi hanno già sei figli-
  «Lode a Dio!», ripete il signor Marco.
  «Lode a Dio!», quasi urla Manolo.
Rimango in silenzio. La puzza dell’ascella sinistra sempre più forte. Dentro, nel mio cervello, la conversazione è in atto:
  «Vorrei uscire!», dice cacca.
  «Ancora no!», risponde ascella sinistra. «Ci sono già io ad imbarazzarlo…»
  «Zitti voi due!», sbraita il Criceto, «Non vedete come sta lavorando!»
  «Non far caso a loro, vedrai passerà… lo stimolo dico». Ecco, ci si mette anche mio fratello.
Mio fratello lo immagino ancora bambino, ma con la barba.
  «Perché a me non cresce», dico.
  «Vedrai, crescerà».
La puzza d’ascella grondante si insinua lungo tutto l’ufficio.
  «Apriamo la finestra, che dite?», propone l’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante.
Ecco, l’ha sentita.
  «Voglio uscire!», urla cacca.
Non resisto.
Non ce la faccio.
  Pensa solo al computer, ai pacchi, alle ricevute. Concentrati Cristo!
Pacco uno, pacco due, pacco tre.
  Premo i tasti.
  Ancora.
Alzo lo sguardo, verso il soffitto bianco.
  Tu sei lì, lo so. E mi osservi.
  Il Principale. Chiuso al Piano A. In pochi lo hanno visto. Dicono il suo ufficio sia lastricato d’oro. Dicono sia vecchio, tanto vecchio, e che il respiro sia artificiale, sorretto dalla macchina silenziosa. Dicono viva al buio, salvato solo dalla luce al neon. Dicono che la sua scrivania sia in ebano e che la sedia non scricchioli mai. Dicono che nell’armadio degli scheletri nasconda i cadaveri dei sottoposti poco diligenti. Dicono.
  Mi spii. Hai posizionato le telecamere e mi spii. Tu sai chi sono, sai l’odio che nutro nei tuoi confronti, il disprezzo. Tu sei il capo, il padrone. Ed io sono il sottoproletariato ecco. Vivo nella periferia e ti odio. È una lotta di classe tra piani questa qui.
  «Concentrati», dice il Criceto.
È la rivoluzione.
Il contratto a progetto.
Lo stipendio.
  Odio la camicia che indosso, il capello pettinato, la sigaretta che non posso fumare.
Odio il Principale e odio i miei colleghi. Odio l’Uomo-che-Parla-Con-La-Stampante e odio Gina.
  Vi odio tutti cazzo.
Non sono fatto per stare qui dentro, non…
  «Mangiaboschi», mi dice il signor Marco, «cosa stai facendo?»
Mi lamento come sempre. Cioè, dentro di me dico.
Non gli è andata giù la storia delle terme al signor Marco.
  «Ricevute!», rispondo.
  «Tra poco comincia la riunione».
  «RIUNIONE!», urlano in coro i miei colleghi.
Devo cagare.
  E così ci alziamo, tutti insieme, contemporaneamente, lasciando il nostro lavoro sul tavolo. Aspettiamo l’ascensore e quando entriamo l’ascella sinistra ride. Manolo mi guarda. Nessuno parla.
  Il Piano B.
Usciamo piano, sempre in silenzio. Uffici di vetro scorrono uguali tra le pareti. Uomini in giacca e cravatta scrutano i monitor, ogni tanto premono un tasto. Nessuno si volta.
  In fila indiana sembriamo dei condannati a morte.
Musica da camera.
  Alle pareti sono appese scene di caccia e di pesca. Un affresco colorato di grigio si staglia su tutto, è rappresentato un uomo benvestito, probabilmente il padre del Principale.
  La porta scorrevole si apre.
Il tavolo è rettangolare, di vetro. Davanti ad ogni postazione c’è una bottiglietta d’acqua leggermente frizzante e un bicchiere di plastica trasparente. Sul soffitto è appeso un lampadario di cristallo. Odore di candeggina.
  Ci sediamo.
Una donna in tailleur ci porge dei fogli, ha occhialetti fini dalla montatura rossa. Il rossetto le macchia le labbra e gli occhi appaiono penetranti, intensi, glaciali. Si muove tra di noi come un angelo senza anima. Ci dà i fogli, le mani levigate, le unghie perfette.
  Rimango in silenzio. Lo stimolo sempre più forte.
  Dalla parete più bianca emergono immagini. Slide.
  «Buongiorno», dice la figlia del Principale, nonché mio Capo-Piano.
  «Buongiorno», rispondiamo in coro.
  «Vorrei cominciare da subito, se non vi spiace.»
Devo fare la cacca. Io la cacca la faccio tutte le mattine. Se non la faccio muoio.
  «Bene… come saprete, a causa della crisi, la politica del reddito è drasticamente cambiata. Ci riteniamo fortunati certo, le vendite non sono calate più di tanto e il profitto ne ha giovato. Ma come sempre, colleghi, le insidie sono dietro l’angolo.»
  Una fitta allo stomaco.
  «Alcuni di voi svolgono le proprie mansioni con diligenza ed efficacia e l’azienda intera vi ringrazia ma altri… altri sembrano non essere interessati alla nostra grande famiglia», tutti si voltano a guardarmi.
  «Noi siamo una famiglia e la famiglia lavora insieme per il proprio mantenimento. Immaginate un formicaio, se anche una sola formica non svolge il proprio compito tutte le altre ne risentono. Questo non deve accadere. Il nostro cuore è la regina, il Principale, mio padre…», la donna alza gli occhi al cielo.
  L’ascella. Puzza.
  «Il profitto d’impresa è da ritenersi condizione fondamentale dello sviluppo aziendale, per la qual cosa ci richiamiamo alla necessità che l’azienda tenda a massimizzare il proprio reddito, a creare ed accrescere il suo profitto».
Mi sento male.
  «Te la fai sotto!», canta l’ascella.
  «Cacca cacca», dice la cacca.
  «Zitti voi due!», urla mio fratello bambino con la barba.
Un’altra fitta, questa volta più forte.
Sudo.
Dovrei ascoltare, ma non ci riesco.
La pancia fa male.
  «A proposito di questa tendenza va chiarito prima di tutto che, nella configurazione aziendale, come profitto intendiamo la quantità di reddito eccedente, l’interesse cioè sul capitale impiegato.»
La devo fare.
Altrimenti morirò.
  «Sopravvivenza e sviluppo dell’impresa. Noi siamo il Piano G, cari colleghi, da noi dipende tutto. Ogni piano ha la sua importanza. Ma noi smistiamo. Gestiamo il cliente. Vedete, la cravatta che indossate rappresenta appieno la nostra voglia di apparire al mondo. Perché la camicia deve essere sempre stirata?»
  «L’ordine!», dice Manolo.
  «Bravo Manolo, ordine e disciplina. Questo è quello che conta. Un’azienda per funzionare deve tener conto di queste due fondamentali filosofie. Dicono che l’abito non faccia il monaco, non è vero. Noi dobbiamo distinguerci, sempre. Facciamo parte di un grande nucleo. Siamo una struttura. Siamo importantissimi.»
L’ennesima fitta. Mi piego. Morirò sotto atroci dolori.
  «Verticalità, capitale, profitto. Continuità e sviluppo aziendale. Politica dei redditi. Produttività. Espansione. Slide prego.»
Sullo schermo appaiono grafici rossi e gialli e verdi.
Le linee si intrecciano, ogni cosa sfuma. Chiudo gli occhi.
  «Non bisogna tendere solo al raggiungimento e al mantenimento delle condizioni di equilibrio. No! Dobbiamo migliorare il margine di profitto promuovendo lo sviluppo di Meccanic. A. Solo una giusta politica del profitto, ovvero una politica di redditi valida a creare e ad accrescere il guadagno d’impresa è una politica di sviluppo aziendale. Slide numero due, grazie.»
Altre immagini.
La testa scoppia.
  «Il fatturato di quest’ultimo mese non è stato dei migliori e sapete a chi è stata data la colpa?»
Tutti ci facciamo piccoli piccoli.
  «A noi! Al Piano G. Il Piano G, negli anni, è sempre stato il fiore all’occhiello dell’azienda. Cosa succede?»
L’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante giocherella con il foglio, imbarazzato.
  «Se il Piano G lavora male io lavoro male. E sapete chi sono io? Sono la figlia del Principale!», sorride, facendo un segno vago verso l’alto. «Il mio piano deve essere il migliore!»
Oddio non resisto.
Parte dalla pancia e si protrae in tutto il corpo.
Afferra la milza, il cuore, i polmoni.
Devo farla.
Mi devo alzare.
  Scosto la sedia di poco.
Scricchiola.
  «Cosa c’è Mangiaboschi? Non ti interessa quel che sto dicendo?»
Stringo il foglio. Guardo la slide. «No, io… cioè, sì».
  «Proprio tu Mangiaboschi! Contiamo ogni singolo adesivo che viene attaccato, ogni fattura trasformata, teniamo a mente tutti i conti correnti emessi, sappiamo la carta che viene consumata, quella che viene buttata e quella che viene sprecata.»
Vengo trafitto in più punti contemporaneamente.
Immagino il cesso.
Il bianco levigato.
Lo sciacquone.
Assaporo la carta igienica.
  «Noi vi controlliamo, vi guardiamo, vi studiamo. Esaminiamo le vostre camice, i vostri pantaloni, le vostre cravatte. Osserviamo la rasatura. Sappiamo tutto di voi, ogni cosa. E tu, Mangiaboschi, non sei proficuo. I tuoi colleghi del grande Piano G lavorano senza sosta, non si fermano mai, fanno parte appieno del poderoso alveare, di Meccanic. A. Amano l’azienda per cui lavorano. Darebbero la vita per lei!»
  I miei colleghi sorridono nascosti.
Agito le gambe.
Abbasso la testa.
  «A morte il capitale!», urla il Criceto.
  «Cacca libera!», dice cacca.
Creperò qui, impiegato tra tanti.
  «Non sai che fortuna hai avuto. Alla tua età i giovani si disperano per trovare un lavoro e se lo trovano, beh, sappiamo tutti cos’è la precarietà, no? Conosciamo i contratti che vengono stipulati. Tu hai i buoni pasto Mangiaboschi, i buoni pasto. Tienilo a mente. Sempre.»
Non resisto. Mi alzo.
  «Dove vai?!?»
  «Io… devo andare in bagno».
Bianco come un cadavere.
  «Resta al tuo posto! Non abbiamo finito! Sai qual è il motivo per cui ti teniamo qui dentro, vero?»
  Lo so sì, è mia madre. È per merito di Viola, che non riesco a capire cosa ci trovi in te.
  «Le contraddizioni in seno al popolo», mi dice ascella.
  «Devi imparare a lavorare Mangiaboschi. Ti distrai troppo. Non hai spirito di gruppo. Non socializzi con gli altri. Compili circa la metà dei moduli rispetto ai tuoi colleghi».
  «Ohhh», ululano i colleghi.
Un cadavere in giacca e cravatta.
  «Devo andare in bagno», ripeto sconfitto.
  «Ora la faccio ora la faccio!», urla la cacca.
  «No, ti prego no» gemono il Criceto e mio fratello con la barba.
  «Falla falla!», lo incita l’ascella.
E mentre tutto, ogni cosa, rallenta e il mio Io più profondo combatte contro i suoi demoni immaginari la scoreggia che emetto è forte, pestilenziale, rumorosa. È una di quelle scoregge liberatorie, sovversive quasi; una di quelle scoregge che fanno ridere alcune ragazze e che avvolgono l’intero spazio in una puzza inimmaginabile.
  È una scoreggia anarchica, sovversiva, autonoma, caotica, libertaria, sregolata.
Nella scoreggia i miei colleghi affondano.
  «Scusate», dico imbarazzato.
Poi corro al bagno. E nel correre al bagno, Amici & Amiche, un sorriso di trionfo mi spunta tra le labbra.