Io, a dispetto delle mie aspettative
infantili, faccio l’impiegato. Da piccolo volevo diventare un operaio, forse
influenzato dai racconti di mio padre, o almeno un prode sabotatore comunista.
Volevo scalare le montagne della rivoluzione ed erigermi a nuovo Lenin, avrei
guidato le masse verso il mondo perfetto, superando addirittura la dittatura
del proletariato. Quando la maestra mi chiedeva, «Cosa vuoi fare da grande?»,
io rispondevo tutto fiero, «L’operaio!». Poi ho studiato e sono andato
all’università, ho fatto Scienze politiche io e una volta laureato ero pronto
ad affrontare la realtà. Sentivo, come spesso capita ai giovani, il mondo ai
miei piedi. Nel frattempo sono stato cameriere, studente modello per una nota
multinazionale di bibite energetiche, dogsitter, faccendiere, speedy pizza,
commesso in una cartoleria, spacciatore, giornalista non pagato, babysitter,
ragazzo delle ripetizioni, operatore, libraio, ma mai, mai, operaio. L’operaio non l’ho fatto e non sono diventato neanche
il grande rivoluzionario che avrei sognato di essere.
Sono diventato impiegato grazie a mia mamma
Viola. Viola conosce la figlia del Principale e, finita l’università, in piena
depressione postadolescenziale, ho accettato il lavoro senza battere ciglio.
Io odio il mio lavoro.
Meccanic. A, la
ditta che mi ha assunto, si trova all’Eur, il quartiere fascista costruito in
epoca mussoliniana. L’Eur è bianco, lucido e levigato. All’Eur c’è un grande
palazzo, alto quasi fino alle stelle. Il palazzo, sede di Meccanic. A, si scaglia
nel cielo come una roccaforte del male. Il palazzo è diviso in più piani e ogni
piano ha una sua mansione. È un organismo vivente Meccanic. A e ogni cellula
deve fare il suo lavoro. Il mio è quello di timbrare pacchi e stampare
ricevute.
Ma bando alle
ciance. Diamo il via al racconto.
Signore & signori…
Impiegati & Impiegate…
Precari & Precarie…
Ecco a voi…
L’UOMO TIMBRA
PACCHI!
Non sedetevi questa volta, seguitemi anzi,
infilate le scarpe e inforcate gli occhiali. Alzatevi presto, correte a far
colazione, scappate in bagno adesso.
Uno, due, tre, quattro,cinque.
Non esce.
«Tenta!», urla il Criceto. «Tenta!»
No no no, non
vuole saperne.
Io odio quando
non faccio la cacca la mattina. Ma è tardi e il ritardo a Meccanic. A non è
contemplato.
Bene.
Ci siete?
Corro. La bici
sfreccia lungo le vie di Trigoria. Scatta tra le strade, sgattaiola tra le
macchine e saetta saetta in mezzo alle strade trafficate.
Posso tutto.
Vi capita mai,
Amici, di avvertire la puzza? La puzza della vostra ascella malandata, il tanfo
di sudore che si espande prepotente dall’ascella sinistra?
Sì? Bene, siamo
in tanti allora.
Non fermatevi
però, siamo giunti a destinazione.
Il palazzo si erge alto e maestoso, alveare
dalle mille finestre.
Giù, nei
cunicoli più bui, i troll preparano i pacchi.
«Chi siamo noi?»
«I troll!»
«E cosa vogliamo!»
«Sgobbare, sgobbare, sgobbare!»
Efficienza,
Colleghi & Colleghe, efficienza.
L’ascella ne risente.
Poi. Lo stimolo.
«Non far caso allo stimolo!», mi dice il
Criceto.
Il Piano G, il
mio.
Mi siedo.
Mi scappa la
cacca.
«Tu», mi dice la cacca, «morirai. uscirò
quando c’è la riunione e appesterò l’intero ufficio!»
L’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante guarda la
stampante con reverenda beatitudine, osserva le linee perfette, il grigio
levigato, la cura nei dettagli, abbassa la testa, di nuovo pronto a
compilar scartoffie. «Elia», mi dice,
«guarda quant’è bella».
Il mio compito, uguale a quello di tutti i
colleghi del Piano G, è timbrare ricevute, preparare le richieste e firmare i
contrassegni. Tutte le mattine, ogni mattina, trovo una serie di ordini sulla
mia scrivania stampati su cartoncini rossi, gli ordini recitano più o meno
così: “Regola + CatastoX2 + RICDAPAGCNBON
7/7 €99.50 + C/A X2 235467”. Io devo trasformare sul computer i codici, con
data di scadenza del pagamento, il nome del cliente e l’offerta. Dopodiché
stampo il tutto su carta adesiva e, finita l’operazione, attacco l’adesivo su
altri fogli, a seconda del tipo di pagamento effettuato: ricevute, contrassegni
o ccp.
Tutti i giorni, ogni giorno.
Il Piano G,
lasciatemelo dire, è un settore di tutto rispetto, molto vicino al Piano B,
dove fanno le riunioni i big dell’azienda. Più sotto, negli scantinati,
lavorano gli imballatori; gli imballatori, esseri gobbi e rozzi, sono i famosi
troll, i piccoli lavoratori che riempiono e confezionano i pacchi. Gli stessi
pacchi che vengono creati, attraverso le apposite etichette, proprio al Piano
G. Per questo tra gli abitanti dei due settori c’è un discreto rapporto di formale
cordialità.
Non con me.
«Lode a Dio!», dice Gina.
-Gina fa parte
di una setta di cattolici oltranzisti. Lei e suo marito non usano
contraccettivi, quindi hanno già sei figli-
«Lode a Dio!», ripete il signor Marco.
«Lode a Dio!», quasi urla Manolo.
Rimango in
silenzio. La puzza dell’ascella sinistra sempre più forte. Dentro, nel mio
cervello, la conversazione è in atto:
«Vorrei uscire!», dice cacca.
«Ancora no!», risponde ascella sinistra. «Ci
sono già io ad imbarazzarlo…»
«Zitti voi due!», sbraita il Criceto, «Non
vedete come sta lavorando!»
«Non far caso a loro, vedrai passerà… lo
stimolo dico». Ecco, ci si mette anche mio fratello.
Mio fratello lo
immagino ancora bambino, ma con la barba.
«Perché a me non cresce», dico.
«Vedrai, crescerà».
La puzza
d’ascella grondante si insinua lungo tutto l’ufficio.
«Apriamo la finestra, che dite?», propone
l’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante.
Ecco, l’ha
sentita.
«Voglio uscire!», urla cacca.
Non resisto.
Non ce la
faccio.
Pensa solo al computer, ai pacchi, alle
ricevute. Concentrati Cristo!
Pacco uno, pacco
due, pacco tre.
Premo i tasti.
Ancora.
Alzo lo sguardo,
verso il soffitto bianco.
Tu sei lì, lo so. E mi osservi.
Il Principale. Chiuso al Piano A. In pochi lo
hanno visto. Dicono il suo ufficio sia lastricato d’oro. Dicono sia vecchio,
tanto vecchio, e che il respiro sia artificiale, sorretto dalla macchina
silenziosa. Dicono viva al buio, salvato solo dalla luce al neon. Dicono che la
sua scrivania sia in ebano e che la sedia non scricchioli mai. Dicono che nell’armadio
degli scheletri nasconda i cadaveri dei sottoposti poco diligenti. Dicono.
Mi spii. Hai posizionato le telecamere e mi
spii. Tu sai chi sono, sai l’odio che nutro nei tuoi confronti, il disprezzo.
Tu sei il capo, il padrone. Ed io sono il sottoproletariato ecco. Vivo nella
periferia e ti odio. È una lotta di classe tra piani questa qui.
«Concentrati», dice il Criceto.
È la
rivoluzione.
Il contratto a
progetto.
Lo stipendio.
Odio la camicia che indosso, il capello
pettinato, la sigaretta che non posso fumare.
Odio il
Principale e odio i miei colleghi. Odio l’Uomo-che-Parla-Con-La-Stampante e
odio Gina.
Vi odio tutti cazzo.
Non sono fatto
per stare qui dentro, non…
«Mangiaboschi», mi dice il signor Marco,
«cosa stai facendo?»
Mi lamento come
sempre. Cioè, dentro di me dico.
Non gli è andata
giù la storia delle terme al signor Marco.
«Ricevute!», rispondo.
«Tra poco comincia la riunione».
«RIUNIONE!», urlano in coro i miei colleghi.
Devo cagare.
E così ci alziamo, tutti insieme,
contemporaneamente, lasciando il nostro lavoro sul tavolo. Aspettiamo
l’ascensore e quando entriamo l’ascella sinistra ride. Manolo mi guarda.
Nessuno parla.
Il Piano B.
Usciamo piano,
sempre in silenzio. Uffici di vetro scorrono uguali tra le pareti. Uomini in
giacca e cravatta scrutano i monitor, ogni tanto premono un tasto. Nessuno si
volta.
In fila indiana sembriamo dei condannati a
morte.
Musica da
camera.
Alle pareti sono appese scene di caccia e di
pesca. Un affresco colorato di grigio si staglia su tutto, è rappresentato un
uomo benvestito, probabilmente il padre del Principale.
La porta scorrevole si apre.
Il tavolo è
rettangolare, di vetro. Davanti ad ogni postazione c’è una bottiglietta d’acqua
leggermente frizzante e un bicchiere di plastica trasparente. Sul soffitto è
appeso un lampadario di cristallo. Odore di candeggina.
Ci sediamo.
Una donna in
tailleur ci porge dei fogli, ha occhialetti fini dalla montatura rossa. Il
rossetto le macchia le labbra e gli occhi appaiono penetranti, intensi,
glaciali. Si muove tra di noi come un angelo senza anima. Ci dà i fogli, le
mani levigate, le unghie perfette.
Rimango in silenzio. Lo stimolo sempre più
forte.
Dalla parete più bianca emergono immagini.
Slide.
«Buongiorno», dice la figlia del Principale,
nonché mio Capo-Piano.
«Buongiorno», rispondiamo in coro.
«Vorrei cominciare da subito, se non vi
spiace.»
Devo fare la
cacca. Io la cacca la faccio tutte le mattine. Se non la faccio muoio.
«Bene… come saprete, a causa della crisi, la
politica del reddito è drasticamente cambiata. Ci riteniamo fortunati certo, le
vendite non sono calate più di tanto e il profitto ne ha giovato. Ma come
sempre, colleghi, le insidie sono dietro l’angolo.»
Una fitta allo stomaco.
«Alcuni di voi svolgono le proprie mansioni
con diligenza ed efficacia e l’azienda intera vi ringrazia ma altri… altri sembrano
non essere interessati alla nostra grande famiglia», tutti si voltano a
guardarmi.
«Noi siamo una famiglia e la famiglia lavora
insieme per il proprio mantenimento. Immaginate un formicaio, se anche una sola
formica non svolge il proprio compito tutte le altre ne risentono. Questo non
deve accadere. Il nostro cuore è la regina, il Principale, mio padre…», la
donna alza gli occhi al cielo.
L’ascella. Puzza.
«Il profitto d’impresa è da ritenersi
condizione fondamentale dello sviluppo aziendale, per la qual cosa ci
richiamiamo alla necessità che l’azienda tenda a massimizzare il proprio
reddito, a creare ed accrescere il suo profitto».
Mi sento male.
«Te la fai sotto!», canta l’ascella.
«Cacca cacca», dice la cacca.
«Zitti voi due!», urla mio fratello bambino
con la barba.
Un’altra fitta,
questa volta più forte.
Sudo.
Dovrei
ascoltare, ma non ci riesco.
La pancia fa
male.
«A proposito di questa tendenza va chiarito
prima di tutto che, nella configurazione aziendale, come profitto intendiamo la
quantità di reddito eccedente, l’interesse cioè sul capitale impiegato.»
La devo fare.
Altrimenti
morirò.
«Sopravvivenza e sviluppo dell’impresa. Noi
siamo il Piano G, cari colleghi, da noi dipende tutto. Ogni piano ha la sua
importanza. Ma noi smistiamo.
Gestiamo il cliente. Vedete, la cravatta che indossate rappresenta appieno la
nostra voglia di apparire al mondo. Perché la camicia deve essere sempre
stirata?»
«L’ordine!», dice Manolo.
«Bravo Manolo, ordine e disciplina. Questo è
quello che conta. Un’azienda per funzionare deve tener conto di queste due
fondamentali filosofie. Dicono che
l’abito non faccia il monaco, non è vero. Noi dobbiamo distinguerci, sempre.
Facciamo parte di un grande nucleo. Siamo una struttura. Siamo
importantissimi.»
L’ennesima
fitta. Mi piego. Morirò sotto atroci dolori.
«Verticalità, capitale, profitto. Continuità
e sviluppo aziendale. Politica dei redditi. Produttività. Espansione. Slide
prego.»
Sullo schermo
appaiono grafici rossi e gialli e verdi.
Le linee si
intrecciano, ogni cosa sfuma. Chiudo gli occhi.
«Non bisogna tendere solo al raggiungimento e
al mantenimento delle condizioni di equilibrio. No! Dobbiamo migliorare il
margine di profitto promuovendo lo sviluppo di Meccanic. A. Solo una giusta
politica del profitto, ovvero una politica di redditi valida a creare e ad
accrescere il guadagno d’impresa è una politica di sviluppo aziendale. Slide
numero due, grazie.»
Altre immagini.
La testa
scoppia.
«Il fatturato di quest’ultimo mese non è
stato dei migliori e sapete a chi è stata data la colpa?»
Tutti ci
facciamo piccoli piccoli.
«A noi! Al Piano G. Il Piano G, negli anni, è
sempre stato il fiore all’occhiello dell’azienda. Cosa succede?»
L’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante
giocherella con il foglio, imbarazzato.
«Se il Piano G lavora male io lavoro male. E sapete chi sono io?
Sono la figlia del Principale!», sorride, facendo un segno vago verso l’alto.
«Il mio piano deve essere il migliore!»
Oddio non
resisto.
Parte dalla
pancia e si protrae in tutto il corpo.
Afferra la
milza, il cuore, i polmoni.
Devo farla.
Mi devo alzare.
Scosto la sedia di poco.
Scricchiola.
«Cosa c’è Mangiaboschi? Non ti interessa quel
che sto dicendo?»
Stringo il
foglio. Guardo la slide. «No, io… cioè, sì».
«Proprio tu Mangiaboschi! Contiamo ogni
singolo adesivo che viene attaccato, ogni fattura trasformata, teniamo a mente
tutti i conti correnti emessi, sappiamo la carta che viene consumata, quella
che viene buttata e quella che viene sprecata.»
Vengo trafitto
in più punti contemporaneamente.
Immagino il
cesso.
Il bianco
levigato.
Lo sciacquone.
Assaporo la
carta igienica.
«Noi vi controlliamo, vi guardiamo, vi
studiamo. Esaminiamo le vostre camice, i vostri pantaloni, le vostre cravatte.
Osserviamo la rasatura. Sappiamo tutto di voi, ogni cosa. E tu, Mangiaboschi,
non sei proficuo. I tuoi colleghi del grande Piano G lavorano senza sosta, non
si fermano mai, fanno parte appieno del poderoso alveare, di Meccanic. A. Amano
l’azienda per cui lavorano. Darebbero la vita per lei!»
I miei colleghi sorridono nascosti.
Agito le gambe.
Abbasso la
testa.
«A morte il capitale!», urla il Criceto.
«Cacca libera!», dice cacca.
Creperò qui,
impiegato tra tanti.
«Non sai che fortuna hai avuto. Alla tua età
i giovani si disperano per trovare un lavoro e se lo trovano, beh, sappiamo tutti
cos’è la precarietà, no? Conosciamo i contratti che vengono stipulati. Tu hai i
buoni pasto Mangiaboschi, i buoni pasto. Tienilo a mente. Sempre.»
Non resisto. Mi
alzo.
«Dove vai?!?»
«Io… devo andare in bagno».
Bianco come un
cadavere.
«Resta al tuo posto! Non abbiamo finito! Sai
qual è il motivo per cui ti teniamo qui dentro, vero?»
Lo so sì, è mia madre. È per merito di Viola,
che non riesco a capire cosa ci trovi in te.
«Le contraddizioni in seno al popolo», mi
dice ascella.
«Devi imparare a lavorare Mangiaboschi. Ti
distrai troppo. Non hai spirito di gruppo. Non socializzi con gli altri.
Compili circa la metà dei moduli rispetto ai tuoi colleghi».
«Ohhh»,
ululano i colleghi.
Un cadavere in
giacca e cravatta.
«Devo andare in bagno», ripeto sconfitto.
«Ora la faccio ora la faccio!», urla la
cacca.
«No, ti prego no» gemono il Criceto e mio
fratello con la barba.
«Falla falla!», lo incita l’ascella.
E mentre tutto,
ogni cosa, rallenta e il mio Io più profondo combatte contro i suoi demoni
immaginari la scoreggia che emetto è forte, pestilenziale, rumorosa. È una di
quelle scoregge liberatorie, sovversive quasi; una di quelle scoregge che fanno
ridere alcune ragazze e che avvolgono l’intero spazio in una puzza
inimmaginabile.
È una scoreggia anarchica, sovversiva,
autonoma, caotica, libertaria, sregolata.
Nella scoreggia
i miei colleghi affondano.
«Scusate», dico imbarazzato.
Poi corro al
bagno. E nel correre al bagno, Amici & Amiche, un sorriso di trionfo mi
spunta tra le labbra.