martedì 20 maggio 2014

INSONNIA



  Questa storia è dedicata a Te.
A Te che non riesci a prendere sonno, che la notte ti giri e rigiri sul letto.
  Questa storia è dedicata ai sonnambuli, ai laboriosi, agli insonni, a chi le ha provate tutte, ma proprio tutte, per riuscire a dormire.
Questa, Tenebrosi del dopo mezzanotte, è la Storia della Buonanotte.
  La stanza è buia.
  C’è silenzio.
Manca poco e mi addormento. Lo sento, il sonno che arriva; lo sento correre veloce, partire dalle gambe, espandersi guardingo sul torace e giungere prepotente al cervello. Mi piace.
  Ecco, gli occhi si chiudono.
Sta arrivando…
Sta arrivando…
  Tok tok
Sta…
arrivando…
  Tok tok
Sta…
  Tok tok
Da sopra. La vecchia. La vecchia con i tacchi delle quattro del mattino.
  Tok tok
Non ascoltarla. Criceto, dormi.
  Ecco, ha smesso.
Lo scarico del cesso gorgheggia.
  Si mette al letto.
Bene. Non è niente. Ultimamente dormi bene, non prendi più le pasticchette naturali, quelle con estratti di semi di griffonia simplicifolia, radice di valeriana e vitamina B6. Eh.
  La griffonia favorisce il normale tono dell’umore e insieme alla valeriana supporta il rilassamento e il benessere mentale. La vitamina B6 contribuisce al normale funzionamento del sistema nervoso e alla normale funzione fisiologica”.
  No no no, non pensare.
  L’armadietto dei medicinali, potrei alzarmi e prenderne una. Ci vorrebbe un attimo.
Il foglietto illustrativo è inutile.
  Dormi.
  Non muoverti dal letto, se lo fai è la fine. Dovresti controllare di nuovo tutto e sai, sai, il tempo che impiegheresti a farlo.
  Trenta minuti esatti, minuto più minuto meno.
Assapora il sonno. Hai sonno, hai dormito poco sabato sera e domenica non hai recuperato niente.
  Domani devo alzarmi presto. Ci sono le ricevute da stampare, serve attenzione, lo sguardo vigile del Principale puntato addosso.
  Dovrò sorridere.
  Occhi aperti.
Avrò spento il computer?
  Zzzzz
No.
  Zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz
La zanzara no.
  Zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz
Si avvicina.
  Sotto le coperte.
  Non. Potrà. Pungermi.
I tappi.
Allungo la mano verso il comodino.
Cade tutto.
  Non importa, i tappi li ho presi, quelli gialli e bianchi.
Orecchio sinistro.
Orecchio destro.
  Avrò spento il gas?
Devo dormire.
Secondi? Ore? Minuti?
Inspira, espira.
Rallenta il cuore.
  Tu tum
  Tu tum
  Tu tum
Batte.
Calore. Uscire, via dalle coperte.
  Zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz
Okay.
Tremo.
Ingabbiato nella cassa toracica il cuore batte senza tregua.
  Non pensare. È l’unica soluzione. Non c’è altro da fare. Annullare i pensieri, il sonno arriverà.
  Avrò controllato le prese?
Cancella tutto. Ci sei? Gioca con il vuoto. Bravo, ora crea l’uomo. Fallo camminare, se riesci ad entrare in dormiveglia mezzo lavoro l’hai fatto.
  Una fase, Signori, perfetta… quando il sogno si mischia alla realtà.
L’uomo cammina, non è un uomo, è un bradipo. Un bradipo ubriaco che corre nella foresta. Ecco, la mente va. Crea.
  Zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz
Maledetta!
  Sarà spento il termosifone?
Stupido, stiamo a fine maggio, sono mesi che è spento.
  Sì ma… e se non fosse così? Se invece fosse acceso? E se sopra il termosifone ci fosse uno straccio? E se il calore bruciasse lo straccio? E se lo straccio bruciato provocasse un incendio? E se io mentre tutto brucia stessi dormendo e non mi accorgessi di niente? E se, ormai sveglio, vedessi le fiamme? E morissi arso vivo solo perché non ho controllato che il termosifone fosse spento?
  Mi alzo. Via i tappi. Due controlli e torno al letto, giuro.
Criceto, zitto.
  Cammino piano.
Salotto.
  Il termosifone è okay, la valvola segna Zero. Controlla bene. Non ci sono stracci. Bravo.
  Dai un’ultima occhiata.
Le prese. Maledizione le prese.
  Elia, hai già guardato.
Mi abbasso.
È staccata sì.
  Torna al letto.
Il computer deve essere spento. Negli anni ottanta lo chiamavamo calcolatore.
PERCHE’?!??!?!
Perché deve essere spento? In tutto il mondo migliaia di persone lasciano il portatile acceso di notte!
  E se ci fosse un cortocircuito?
  E il fuoco tornasse?
La spina è staccata.
  Via dal salotto.
I documenti li hai controllati.
Le chiavi di casa?
  Cazzo sono le due.
  Devo dormire.
Ci sono tutte?
                     Le
                         chiavi
                                   di
                                      casa.
  La porta sarà chiusa?
Controlla, tanto ormai…
  In cucina.
Frigorifero.
Forno a microonde.
Il gas.
Il gas tocca ispezionarlo tre volte. E anche le manopole. Ho un impianto vecchio io. Meglio dare un’occhiata sì, come no.
Uno
Due
Tre.
  In bagno. La tazza. Ci escono i topi.
L’acqua.
Se l’acqua uscisse rischierei di morire annegato.
  La racchetta antizanzare. L’ho comprata dai cinesi. Potrebbe surriscaldarsi, potrei morire. Bene. Bravo, accertati che il tasto Off sia selezionato.
Le chiavi di casa…
Le ho già…
Io odio i controlli.
  Posacenere.
  Sono passate ore da quando ho fumato.
  Sì ma…
eselasigarettanonsifossespentaelecarteprendesserofuocoelatendabruciassepotreianchemorire
  In camera.
  Chiudo la porta.
Le luci.
Ho lasciato tutte le luci accese.
  Sto impazzendo.
Impazzisco ogni notte.
  Corro.
  Mi fiondo nel letto.
Chiudo gli occhi.
Il corpo è pesante. Il piede è pesante. La gamba è pesante. La pancia è pesante. La schiena è pesante. Le spalle sono pesanti. Il collo è pesante. La testa è pesante.
Sprofonda.
  Training autogeno dimmerda.
Sono sveglissimo.
  AIUTO!
Potrei leggere.
  Zzzzzzzzzzzzzz
Guardare la televisione.
  Zzzzzzzzzzzzzzzzzzzz
Masturbarmi.
  Zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz
  Devo dormire.
Domani mi uccideranno, i troll rideranno di me, l’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante mi scruterà assieme alla sua stampante, la figlia del Principale mi strangolerà.
  Sudo.
Le quattro del mattino.
  Tra poco ho un infarto. Mi formicola il braccio sinistro. Mi troveranno morto tra dieci giorni in questo letto. Spero venga gente al mio funerale; vorrei un bel funerale pieno di amici con tutti i parenti e tanta musica e molte pizzette e lo spumante il buon vino l’amaro quello che piace a me. Vorrei i fiori, taaanti fiori. No, non i fiori, preferisco i sassi, come fanno gli ebrei, ché i sassi durano per sempre. I fiori muoiono.
  Sette ore sono molte. Che perdita di tempo. Meglio tre.
Rilassati, quante volte ho passato due quattro giorni senza dormire. Con tutte le feste che mi sono fatto, mica ho paura io eh. Sono un uomo ormai. «Il mio ometto!», direbbe la mamma.
  Chiudo gli occhi.
Sotto alle coperte.
  Il cuore cede.
I tappi.
Eccoli.
Mettiti a nanna.
Dai.
Ti scongiuro.
  Bravo.
  Così.
Basta annullare ogni cosa, lasciarsi trasportare dai pensieri e capire l’importanza di chiamarsi Elia Mangiaboschi.
  Sì, stai andando.
Le zanzare volano alte.
Pungiglioni di ovatta.
  Ecco. Arriva.
La bicicletta volteggia libera nell’aria blu i pappagalli ad inseguirmi solo l’oscuro dentista e l’uomo che pochi piani sopra al mio copre la sua finestra con il panno nero nascondendo segreti inconfessabili e cuscini di mollette rosse gialle verdi.
Ora.
Dormo.
AAAhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh

  Suona la sveglia.
  Il sole filtra timido.
Le sette.
Altri cinque minuti, ti prego.
  Apro gli occhi.
  Sono vivo.
E la vedo.
La vedo! La causa della mia insonnia! Il mostro che per tutta la notte mi ha torturato! È lì, adagiata sul comodino, gonfia di sangue. Il mio sangue. Dorme la bastarda.
  Io ti uccido.
Alzo il libro. Voglio la chiazza di rosso stampata sulla copertina, un monito per le altre. Un monito per tutte voi.
  Abbasso di scatto il romanzo, le pagine sfregano nell’aria. Un colpo deciso, secco, da Dominatore. Darwin ce l’ha insegnato. Sorrido maligno.
  Ora e sempre.
  Buonanotte.

martedì 13 maggio 2014

MAGLIANA



  Quello di questa settimana, Lettori & Lettrici, non è proprio un racconto, è più un flusso di pensieri che il vostro affezionato dedica al quartiere dove è cresciuto. Avevo voglia di questo, ‘sto martedì. Scusate. Sono, ahimè, un po’ smielato (ogni tanto), quindi non me ne vogliate...
  Bene.
  Bando alle ciance.
Trovate un angolo un minimo comodo, fatevi largo tra la folla in metropolitana, rubate il posto a sedere alla vecchietta laggiù; correte in bagno prima che lo faccia il vostro compagno; sdraiatevi nel prato di margherite, nascondetevi al tavolino del bar, il caffè ben caldo alla vostra sinistra, sedetevi e leggete.
  Il flusso comincia più o meno così:
Se segui la pista ciclabile -una delle poche a Roma- e corri accanto al Tevere non potrai non fermarti a Magliana. Se pedali, il vento tra i capelli e il sole in faccia, supererai una bella chiesetta romanica, Santa Passera, che nessuno sa che c’è; se oltrepassi la fermata dell’autobus, più veloce della luce, ti piacerà sicuramente scorgere le vite e le esistenze, i mille e più mondi spesso dimenticati. Se poi le tue gambe non si stancheranno vedrai allora i palazzi alti e le cento finestre stampate sulle facciate, come graffiti malriusciti. Scorgerai anche il grigio, il nero e i topi; vedrai le panchine rotte e il cemento che ha avvolto ogni cosa, come una Bestia solitaria che tutto distrugge. Avvertirai la puzza, la puzza di smog e tubi di scappamento e pipì. Ad un occhio poco attento tutto questo parrà orribile, brutto, caotico e sporco. Vedrà le cartacce volare nell’aria, le cacche di cane sparse sul marciapiede, i tossici in precario equilibrio e gli occhi loschi dei ladri di merendine. Ma se per caso la tua bicicletta rallenterà la sua corsa e il tuo sguardo si poserà più delicato allora scorgerai Roma, quella vera, la città che sta scomparendo. Vedrai gli sputi di verde curati dai Giardinieri Sovversivi (ortensie, girasoli, belladonna e papaveri), la vita nella piazza, i bambini che giocano, i signori con i passeggini al seguito. Potrai scendere sì, invece di guardare il quartiere dall’alto, scendere proprio a sinistra, poco sotto il fiume e dargli le spalle, al fiume, e poi ammirare. Afferrerai la bicicletta e la trascinerai giù, lungo le scale malandate. Parrà un film certo, ma non dovrai scoraggiarti. Piuttosto, ti converrà spiare un poco, per scorgere alcuni immigrati che fanno la brace o altri che riparano attrezzi. Ti sarai lasciato da poco il Tevere alle spalle, il suono dei pappagalli ancora presente, gli zingari con i loro carrelli sul ciglio della strada e le roulotte nascoste dalla vegetazione. Sarai giù, a terra, e ti abbandonerai alla corrente e al flusso di umanità varia. Riconoscerai senza dubbio alcuno la vecchietta che tutte le sere, ogni sera, balla per le vie di Trastevere, la vecchietta che ti sei sempre domandato dov’è che vive, quella un tempo accompagnata dal bengalese con i capelli neri, morto poverino in circostanze misteriose. E finalmente la tua domanda riceverà risposta, perché la casa della vecchina si trova qui, a Magliana. Procederai, senza fermarti, perduto in una borgata che credevi nulla e che invece è tutto. Una vita quasi, un’entità. Non ti fermerai, non potrai. A Piazza De André noterai le comitive di anziani che giocano a carte come ai vecchi tempi, le bische clandestine in pieno sole; vedrai i bimbetti anche che lanciano due calci al pallone e che te lo tirano addosso, il pallone. Ti piacerà scambiare due passaggi, sarai bravo in porta, ma loro, sicuramente, saranno più bravi di te; vedrai pure i ragazzetti che passano il pomeriggio al muretto e che la Magliana n’è ‘n quartiere no, è ‘npaese. Un paese sì. Un piccolo villaggio. Un pezzo di Roma d’altri tempi, una borgata. Scruterai il marciume sui marciapiedi, i muri incrostati, incatramati, l’aria assente e le automobili ovunque. Ma non potrai fare a meno di notare la Vita, quella con la “V” maiuscola, quella che si attacca salda e non ti lascia andar via. Ti innamorerai allora di Filomena che urla ad ogni angolo della strada, del macellaio e pure del tabaccaio. Comprerai le sigarette solo lì. E tutti ti conosceranno e ti diranno «Bentornato», perché nella borgata tu ci sei cresciuto, c’è casa dei nonni proprio là e tu il quartiere l’hai sempre rispettato. Capirai allora che le finte periferie non le tolleri e che la realtà è spesso più bella della via griffata, del falso e dei vari quartieri di giovani alternativi sparsi per la metropoli. Così diventerai anche tu un Cacciatore di Borgate, vorrai conoscere le persone vere, quelle che si alzano alle cinque del mattino per andare a lavorare, quelle che l’università no, mica l’hanno fatta, quelle persone che non sanno parlare, che la grammatica è scarsa e che «Suo figlio è sveglio ma non si applica»; vorrai loro come amici, i rimastini del sabato sera, i nonni malandati, i coatti della domenica, gli esperti di giardinaggio, le vecchie che hanno fatto le lotte per la casa, i pazzi e i disabili. Ti sentirai uno di loro, sarai uno di loro, cresciuto nei casermoni di periferia, nelle piazzette a giocare, nascosto dallo scivolo rotto, avanti e indietro sull’altalena. Ti piaceranno allora l’odore del kebab, le spezie dei bengalesi e le cucine orientali. Scoprirai mondi in questi quartieri, interi paesi racchiusi in una via. Ci saranno filippini, cinesi, rumeni, marocchini, egiziani e tu sarai con loro, sempre con loro, tutti insieme nei ghetti della periferia romana. E poi, solo poi, quando slegherai la tua bicicletta e andrai via, lungo il patinato dove tutto è permesso, solo allora capirai cosa ti sei lasciato alle spalle. E non potrai fare a meno di pensare a tuo padre, che nel giardinetto di uno dei casermoni popolari fa l’orto, assieme agli altri pensionati o quasi pensionati. Fa l’orto e ancora ci crede che le cose, prima o poi, si aggiusteranno.  

martedì 6 maggio 2014

SUDORE





  Allora, questo fine settimana sono partito con alcuni tizi con cui lavoro. La gente di “Meccanic. A”, la famosa casa editrice di ingegneri che si trova all’Eur, a Roma, in un bel palazzo futurista a più piani (per inciso, io lavoro al Piano G). Il viaggio, amici lettori, come avrete sicuramente intuito, non è stato di puro piacere. Una vacanza di lavoro, una di quelle robe per far gruppo, creare équipe, affinità ecco. Cioè, con i miei colleghi insomma. Io però, ad essere onesto, e con voi ne sono certo posso esserlo, non è che ci vada molto d’accordo con i miei compagni di banco. Non siamo affini. Non mi stanno antipatici eh, no no, solo che non mi stanno neanche simpatici. Sono un po’ noiosi; ecco, l’ho detto. Comunque, non voglio tediarvi con le storie sui miei soci (prima o poi lo farò), vi basti sapere che partiamo tutti insieme -quasi tutti, il Principale no-. Vitto e alloggio pagato, aereo pagato -fucsia- e pure le terme pagate. Andiamo a Budapest. Due giorni. Budapest è una città bellissima se te la vivi con chi ti piace, ma tant’è. Di Budapest però non voglio parlare. Piuttosto mi interessa raccontarvi quel che mi è successo alle terme. Precisamente a Szechenyi. Quindi, cominciamo.
LE TERME DI SZECHENYI
  Solo.
  Mi sento solo.
Ho voglia di una sigaretta.
  “Stanno tutti entrando”, mi dice la vocina che mi frulla in testa, il criceto del cazzo che non si sta mai zitto.
C’è l’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante, c’è Gina che ha le unghie più lunghe del mondo, c’è Manolo e c’è il Signor Marco.
  Eppoi ci sono io.
  Io!
  Che sto dietro, un tantinello defilato, il pensiero della sigaretta appena rollata fisso nel cervello.
  “Non puoi fumare”, sussurra il criceto.
Un passo dietro l’altro.
Il Signor Marco paga i biglietti.
  Rimango in silenzio nel grande spogliatoio. Gli altri parlano; io avrei voglia di parlare, di scambiare due chiacchiere, di dialogare un minimo, ma proprio non ci riesco. Io ‘sta storia non vedo l’ora che finisca. Voglio tornare a casa.
  Mi spoglio. Il Signor Marco mi guarda. Lo so che mi ha puntato, al lavoro ci prova in tutti i modi a scambiare due parole ma io no, trovo sempre una scusa -una qualunque- per sviare. Però il Signor Marco è un mio superiore e oggi, mio Dio, non posso evitarlo.
  Si accomoda e sorride.
  «Andiamo», dice l’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante.
L’edificio è grande, immenso, e le terme sono tantissime. Decine di vaschette piene d’acqua calda. Trenta, quaranta e cinquanta gradi. Ci sono anche le saune. Io odio le saune e odio il caldo e anche le terme (cioè, con loro, con i miei colleghi insomma).
  “Stai buono. Non essere sempre negativo, vedrai che ti divertirai”, rotola il criceto.
Entro.
L’acqua è calda, bollente.
  Mi sento sciogliere.
Il Signor Marco mi sorride e si siede accanto a me. «Ahhh», sbuffa.
  Vapore.
Rimango in silenzio. Basta non dargli confidenza, si stuferà presto.
  I minuti passano.
Assoluto silenzio, zen quasi; tangibile, forte, estremo, che si taglia con l’accetta. Gli altri ridono, se io non rido il Signor Marco si annoierà. Annoiati. Annoiati annoiati annoiati. E poi alzati. Ché inizio a sentire caldo.
  Dovrei uscire, forse.
Muovo un piede.
Altro che caldo. Brucio. Mi sembra di bruciare.
  Il Signor Marco mi fissa. «Mangiaboschi», dice, «che ne pensi?»
  «Fantastico», biascico.
Macché fantastico, io qui dentro ci muoio.
  La pressione cala.
Il Signor Marco mi guarda, mi guarda e sogghigna.
  Non si annoia. No no.
È un mio superiore.
  «Fa bene alla pelle», gode.
Tutto tranne che annoiato mi sembra.
Verranno a prendermi i miei genitori e mi troveranno dentro una bara.
  «Tu ed io parliamo poco», ammicca, «in città non c’è mai tempo. Sempre di fretta, sempre di corsa, senza mai fermarci. In città c’è il caos. Non come adesso. Adesso si sta bene».
  «Budapest», tremo, «è una città».
  «Mi riferisco alle terme…»
Sguardo di sfida.
Devo pagare l’affitto, da mangiare, le bollette.
Sorridi, annuisci e resisti.
  «Abbiamo avuto un buon fatturato quest’anno».
Oh no.
  «Nonostante la crisi le vendite non sono calate, l’ha notato anche il Principale».
Mi sciolgo dentro.
  «Sarà merito degli investitori.»
Gli investitori no. Ti prego no.
  Il caldo. Lo avverto.
Sudo.
Sudo dentro l’acqua.
  «L’investitore paga un certo prezzo di acquisto, diciamo pari a cento, alla fine dell’anno valuta la propria posizione utilizzando il prezzo di mercato dell’attività, la nostra attività e… è soddisfatto! Capisci Mangiaboschi? So-ddi-sfa-tto!»
  Uh?
  Non ci capisco niente.
  Devo alzarmi.
Il Signor Marco mi blocca una gamba. «Dove vai?», chiede. «Devi resistere, altrimenti non fa bene. Alla pelle dico».
  Mi vuole morto, vuole piazzare qualcun altro al mio posto, un suo amico certo, uno di quelli in giacca & cravatta. Uno qualunque.
  Il vapore sale. Entrano ed escono gli uomini e le donne. Entrano ed escono, entrano ed escono. Noi due restiamo qui, non ci muoviamo, rimaniamo fermi, a scioglierci.
  Forse potrei… riuscire a… sbloccare un dito. Uno solo ti prego!
Niente. Non riesco più a muovermi.
  Zolfo, iodio, cloro, ferro, calcio.
Cristo aiuto.
  Non respiro. Veramente.
Alzo lo sguardo, leggo l’insegna intagliata sul marmo. “Quarantotto gradi”. Quarantotto gradi. Un forno cazzo.
  «Asma, bronchite, sinusite, patologie della pelle, malattie del sistema osteoarticolare, artrosi, disfunzione delle vie urinarie, calcoli, dispepsia», dice il Signor Marco notando il mio sguardo, «le terme curano tutto. Non è vero?»
  «Certo», rispondo.
Occhi a mezz’asta.
  Poi lo leggo. “Si consiglia di rimanere in acqua per un massimo di venti minuti”.
Noi siamo qui da molto di più.
  “Il tempo”, mi domanda il criceto, “cos’è il tempo? Il tempo serve ad incanalare le azioni, i momenti. È l’uomo, l’uomo! Ad aver inventato il tempo. Secondi, ore, minuti, giornate, anni”.
  Siamo stati noi, siamo noi i responsabili del tempo.
Okay, fermati. Stai farneticando.
   E intanto il Signor Marco parla. «Alla fine dell’anno l’investitore dovrà valutare la propria posizione utilizzando il prezzo del mercato…»
Timbro pacchi, faccio ricevute… il mercato non so neanche cos’è!
  «…Tenendo conto, ovviamente, dei dividendi o delle cedole percepiti…»
Eccerto, come no. Io sto svenendo e questo mi parla dei dividendi.
  Devo uscire. Mi si chiudono gli occhi.
Un’ora.
  «Il valore finale dell’investimento dovrà quindi essere confrontato con l’investimento iniziale. In questo modo l’investitore, come d’altra parte è successo a noi, rimarrà sicuramente soddisfatto. È la borsa. Il mercato. La grana
Vago lungo le vie profonde delle acque termali.
I Romani vagavano lungo le vie profonde delle acque termali.
  «Il Principale d’altra parte non vede di buon occhio i giapponesi. Per non parlare dei cinesi…»
Tirarmi su.
  Guardo il Signor Marco. Lo supplico con gli occhi. Perderò il lavoro ma non posso marcire così in un paese straniero.
  «Conoscevo un tale, buon uomo certo, Mr. Rocciadura, lavorava in banca, credo ci lavori ancora... tutto il giorno a pensare al profitto. Un gran maestro. Una moglie bellissima, belle automobili…»
  Devo. Alzarmi.
  «…Tutto mi ha insegnato. Ad esempio la soddisfazione, senza dubbio alcuno incredibile, di un buon profitto. Come saprai dipende dalle alternative. Un’alternativa è senz’altro rappresentata dall’investimento in un titolo senza rischio, come quello di ‘Meccanic. A’, o sbaglio?»
  Un no lento con la testa.
  «Un titolo senza rischio offre una certezza, e sai di cosa? Del tasso di interesse. Supponiamo, per esempio, che il tasso di interesse sia del cinque percento, ci sei? Il rendimento del quindici è senz’altro più alto del cinque, anche un bambino lo capirebbe. E tu non sei un bambino, vero?»
  Io vorrei solo sgattaiolare via, altro che bambino.
  «Occorre tenere presente che l’investimento del titolo finanziario comporta una certa dose di rischio. A noi piace il rischio.»
  Via. A me non piace il rischio.
Piede sinistro.
ALZATI!
Okay. Ci sono. Bravissimo.
In piedi. Non tremare.
  Barcollo.
  «Dove vai?»
  «Una rinfrescata. Lì», indico.
Esco dall’acqua, il corpo c’è ancora. La pelle è squamosa, ruvida, grezza.
Ma sono vivo.
  Mi volto e vedo con orrore che anche il Signor Marco si è alzato. Affretto il passo. Il Signor Marco mi sorride. Mi segue. Non me lo scrollerò mai di dosso.
  Guardo l’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante che gira in cerchio dentro una vasca. Non gira solo lui, girano tutti come formiche in fila indiana. Stupidi.
  Il mio superiore è sempre più vicino, a pochi metri da me, la pancia prominente sbatte nell’aria pesante, il pelo arruffato si fa riccio sotto i capezzoli duri, la ciccia trasborda dal costume attillato, la cuffia copre i pochi capelli incatramati, squarciati. Stringe gli occhi, occhi fini e da iena, occhi da mercato, inarca il sopracciglio e allunga la bocca. Mi vuole.
  Devo buttarmi.
  Lì giù.
  Nella vasca dell’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante.
Scendo.
L’acqua è più fredda.
Ahhh.
Ora va meglio…
  Un vortice improvviso mi colpisce costringendomi a lanciarmi contro la donna che ho davanti, lei si volta ammiccante. La corrente mi trascina.
  Tutti ridono.
  Tutti sgomitano.
  Tutti girano.
Faccio parte dell’ingranaggio. Non posso fermarmi, l’onda mi trascina in circolo. Sempre più veloce. La signora davanti a me continua a gioire. Il culo premuto forte sulla mia faccia.
  Annaspo e mi tiro su. Con la coda dell’occhio lo vedo. Il mio inseguitore.
  «Mangiaboschi!», urla, «aspettami!»
Volteggio avanti, scaraventando la signora a destra. Mi destreggio urtando corpi, costumi e ascelle.
  Più veloce.
L’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante ride a squarciagola, fomentato dal vortice, dal circolo. Un bambino mi finisce addosso, colpendomi senza pietà sulla bocca.
  Perdo i sensi.
  Voglio una sigaretta.
Sangue.
  Ancora…
  L’occhio si chiude, accelero.
  «Mangiaboschi!»
Eccola, la scala. Prendila al volo.
  La mano afferra il metallo. Mi reggo, più forte della corrente. Stringo, non ti lascerò mai.
Le mani si gonfiano ma riesco a salire, lasciando mezzo costume in acqua.
  Sputo.
Il Signor Marco non si dà per vinto.
Corro, ormai incurante della figuraccia, del licenziamento, della vita sotto ai ponti.
  È fuori anche lui.
Supero piscine e vasche idromassaggio. Oltrepasso uomini in andropausa, donne rugose, bambini panciuti, comitive di giovani alternativi, freak settantenni, punkabbestia rifatti, casalinghe frustrate, oppiomani allo sbaraglio e coppie sulla via del tramonto.
  Poi sono fuori, all’aperto, e una pioggia cattiva mi inzuppa all’istante. Mi tuffo nella grande piscina, sperando nel caldo. Ed invece l’acqua è gelata e i turisti ridono di me. Il bagnino fischia urlando qualcosa in inglese. Credo si tratti della cuffia.
  Di nuovo fuori. Le statue mi studiano impazienti, il cielo è nero, plumbeo, violaceo, i tuoni urlano forte il loro dissenso e la pioggia sgorga in grandi chicchi d’acqua che sembrano confluire tutti sul mio corpo acciaccato.
  Tossisco. Mi prenderò una bronchite.
C’è anche il mio inseguitore. È fermo e mi cerca.
  Mi abbasso, nascosto tra i ghirigori liberty.
Una piccola struttura di metallo si erge maestosa in lontananza. Scatto verso la salvezza.
La porta si spalanca.
Vapore.
Varco la soglia.
Settantadue gradi di sauna.
  Mi siedo. Aspetterò qui assieme all’uomo biondo dalla carnagione rossa, alla donna trafitta dalle rughe e al bel giovane senza speranza.
  I pori della pelle si estendono all’istante.
LUNGA VITA AI PORI!
  Passi.
  Il Signor Marco è fuori e mi cerca.
Prima una goccia, poi mille, dal gomito sgorga un intero ruscello di sudore.
È la sauna amico.
  Chiudo gli occhi.
Sat, raccogli l’aria.
Nam, espira.
Concentrazione sul terzo occhio, al centro della fronte. Il resto non ha importanza.
  La porta si apre, i piedi bruciano.
Fiamme.
  «Mangiaboschi», dice il diavolo con un ghigno di trionfo stampato sul viso, «finalmente ti ho trovato. Sei mio».