martedì 13 dicembre 2016

GANESHA



  Il povero umano, lo stolto, quello che nella Stanza dei Bottoni (il luogo da cui viene manovrato) chiamano “il diletto” e “l’adorato”, altri non è che il mio amico immaginario.
  Sono nato tanto tempo fa, prima di tutti voi, in un paese lontano, al di fuori del tempo, al di fuori dello spazio. Sono il figlio di Shiva e di Parvati.
  Sì, sono un dio, o meglio, una divinità zooforme, mio malgrado.
Posso biasimare mio padre per quel che ha fatto?
  Il mio amico immaginario Elia Mangiaboschi mi apostrofa sempre deridendomi, «Testa d’elefante», dice. Io non me la prendo troppo, in fin dei conti ci sono abituato, mi chiamano così da secoli. Ma un tempo il mio volto era bello, puro e candido. Il dio Shiva era andato via, papà ha sempre adorato le battute di caccia e non si era sottratto al lungo viaggio alla ricerca di animali esotici ed incredibili, assieme ai suoi amici, divinità sicuramente più modeste ma che lo divertivano e lo rilassavano. Così era partito lasciando sola mia madre. «Tornerò presto», aveva detto baciandola sulla fronte. Parvati l’aveva guardato andare via, maestoso e regale, e poi si era chiusa nel castello. Mia madre, vedete, è sempre stata una dea timorosa ma determinata (voleva a tutti i costi un figlio che però Shiva rifiutava) e così, per paura di essere importunata da forze malefiche, mi aveva creato amalgamando lo strato di sporco della sua pelle, impastando, curando e delineando le mie forme. Proporzioni belle e perfette, immacolate, splendenti. Sì, umani, ero un essere bianco, puro e il mio nome era Ganesha. Parvati, orgogliosa del suo lavoro, mi aveva abbracciato, come solo una madre sa fare e dopo avermi rifocillato, in una sala piena di incensi, si era accostata a me sussurrando: «Proteggimi». Mi ero posizionato all’entrata del bagno, proprio davanti alla porta e non avevo fatto passare nessuno. In tanti ci avevano provato ma io li avevo sempre respinti, fedele agli ordini della madre. Un giorno, lo ricordo come fosse ieri, uno sconosciuto si era presentato nel regno chiedendomi di entrare. «No», fu la mia risposta. «Di qui non passa nessuno». Come potevo sapere? L’amore nei confronti di Parvati era troppo grande! Il forestiero altri non era che mio padre, Shiva, tornato dal lungo soggiorno di caccia.
  Papà, so che non è colpa tua, non mi conoscevi, non avevi mai ammirato il candore della mia pelle.
  Shiva, furioso per essere stato respinto, aveva sferrato un attacco senza precedenti, colpendo con minuziosa precisione. Mi ero scostato e avevo attaccato a mia volta, con fendenti ben precisi e colpi valorosi. Più volte papà era stato sul punto di cedere ma ogni volta si era rialzato. La battaglia viene ancora ricordata come una delle più epiche, memorabili. “Resistente” e “Valoroso”, sono solo alcuni dei termini che usano per descrivermi. Per battermi Shiva dovette chiamare aiuti esterni, mostri e divinità. Non cedevo, non potevo, dovevo proteggere mia madre. Ma erano troppi e quando Shiva, d’improvviso, tirò fuori il suo Trishul, lo splendido tridente, per me fu la fine. La mia testa, Amici & Amiche, venne tagliata ed il mio corpo decapitato rimase lì, a terra, in una pozza di sangue divino. Quando Parvati lo scoprì andò su tutte le furie, versando lacrime salate che inondarono il mondo intero. Piangeva per me! Suo adorato figlio! Shiva, turbato per quel che aveva fatto, non sapeva come comportarsi. «Moglie mia», diceva, «perdonami». Mamma passava le giornate distesa sul letto, battendo i pugni, disperata e inconsolabile. Shiva, vedendo la moglie così ridotta, andò dal potente Brahama. «Come posso fare?». I due si scervellavano. Poi Brahama, nella sua infinita saggezza, propose a mio padre uno stratagemma, che col senno di poi non è che mi abbia proprio convinto: «Ho trovato, rimpiazza la testa di Ganesha con quella del primo animale o essere che trovi, ma mi raccomando, non sbagliare. Deve star dormendo con la testa rivolta a nord». Immediatamente Shiva inviò la sua potente squadra di entità celesti alla ricerca di un essere qualunque. Foreste, selve, boschi, città. Ogni luogo venne setacciato ma di animali non c’era traccia, come se si fossero nascosti, consapevoli del fato che li attendeva. Poi, in una notte piena di stelle, incontrarono una piccola creatura, un tenero elefantino, che dormiva con la testa rivolta verso nord. Lo decapitarono senza pensarci due volte e subito dopo, con un incredibile sortilegio, attaccarono la sua testa al mio corpo, riportandomi in vita. Mio padre, un po’ per senso di colpa un po’ per il valore che avevo dimostrato in battaglia, mi nominò Pati,  capo delle sue truppe. Per questo ancora oggi alcuni mi chiamano Ganapati. Sono stato il più grande comandante della storia, lo so. Inoltre papà decise di concedere favori a chiunque avesse invocato il mio nome prima di qualsiasi pratica. Per codesta ragione vengo anche adorato come Vigneshwara, colui che rimuove gli ostacoli dalla vita materiale e dalla vita spirituale. Ed è forse per questo motivo che ho conosciuto Elia Mangiaboschi, il mio amico immaginario. Ma non temete, ve ne parlerò più avanti.
  Io sono il Signore della Meditazione, in sella al mio topolino magico cavalcato senza problemi, insegnandovi a tenere salde le redini delle emozioni; sono il Signore dell’Universo che danza e sì, creo la materia dal nulla, il mio ballo è incredibile e tutti rimangono estasiati ad ammirarmi; sono il Signore della Scrittura, rappresentato mentre scrivo il Mahabharata, utilizzando come penna una delle mie zanne intinta di inchiostro (che fatica quel periodo, lo ricordo come fosse ieri, giorni interi a scrivere, a pensare, a creare, davanti alla pagina bianca, con il classico blocco dello scrittore); sono adorato dalle donne, perché rappresento l’autodeterminazione di una di voi, la bella Parvati, l’intimità e la libertà. Sono il vostro protettore sì.
  Per secoli ho vegliato sulle case degli esseri umani. Sono stato buono e dolce, discreto e attento. Mi basta un po’ di curcuma per essere felice. Ho combattuto anche e discusso con altri dei. Mi è cresciuta la pancia ma questo aumenta il mio fascino, come quegli attori famosi che con la vecchiaia acquistano bellezza. No, non sono anziano. Non posso morire, sono immortale. Qualcuno di voi ha scritto di noi dei. Dicono che l’unico modo per uccidere una divinità sia dimenticarla, smettendo di credere. Altri metodi non ce ne sono. Ma abbiamo le nostre armi: i bambini ad esempio. Prendete Thor, il potente dio delle leggende nordiche, riportato in vita prima dai fumetti e dopo nei film. Pensate davvero che ad infondere l’idea di utilizzare una divinità del genere per una storia di fantasia sia stato un uomo? Siamo noi che parliamo alle vostre orecchie, ascoltando il battito dell’Universo, dell’Infinito, di cui tutti facciamo parte. Voi, piccoli umani, create il mondo con i vostri sensi perché non riuscite a concepire la vera realtà, il magma, Dio. Che è tutto e ci circonda. Per questo pensate  il mondo a vostra immagine e somiglianza. Noi, in fondo, sappiamo già cos’è il Mistero. Voi siete Dio, non dovete cercarlo fuori, l’energia che vi tiene in vita è Dio; potete sentirlo, tutto è Dio, ogni cosa, ogni pianta, ogni essere umano, ogni animale, ogni oggetto. Il vostro cellulare è Dio e voi siete il vostro cellulare. Fusi. Ma separati per comprendere. Per questo esistiamo noi. Creature fantastiche e incredibili. Non siamo troppo diversi, noi siamo solo un gradino più in alto di voi.
  È come una scala sì.
Esistiamo perché voi credete in noi e voi esistete perché l’Infinito scorre nel vostro corpo. Potente è il mantra: “Io e Dio, Dio e Io siamo uno”.
  Quindi sì, vi ho protetti, ho combattuto e ho vegliato su di voi. Su ognuno di voi. E voi mi avete venerato, innalzando templi e statue, facendo offerte e donando fiori e oggetti.
  Ma un giorno mi sono stufato.
Ero stanco, tanto stanco. Osservare il Tutto non è semplice. Passavo intere giornate davanti al mondo, guardando i suoi esseri ed intervenendo. Stufo, portavo pestilenze e gli altri dei non potevano biasimarmi, consapevoli della noia. È noioso avere il potere di riuscire in ogni cosa. Noioso e stancate. Immaginate di poter far tutto e di non desiderare più niente. Volete una bicicletta nuova? La potete creare. Un’isola tutta per voi? Ecco fatto. Il cibo più buono del mondo? E’ già pronto, lì sulla tavola bandita. Decisi quindi di smettere, di andarmene. Alcuni dicono che a forgiare il mondo siamo stati noi. Divinità scocciate che non avevano di meglio da fare. Certi umani credono in un solo dio che ha creato il pianeta e l’universo intero. Altri pensano ad un lavoro collettivo, fatto da più entità soprannaturali. La verità è un’altra ovviamente. Ma se per un attimo decidiamo di convalidare la vostra verità allora beh, gli esseri umani sono nostre creature. Frutto della fantasia, creati col fango e col sorriso. E se voi siete l’immaginazione, il risultato di un esperimento, è giusto che io definisca Elia Mangiaboschi il mio amico immaginario. Cosa vi rende così certi di essere reali? Di non vivere nella mente di un altro? Di non essere il racconto pensato da qualcuno più in alto? E se voi non siete reali, cosa siete? O peggio, se solo voi foste veri e tutto il resto finzione? E se Elia Mangiaboschi fosse una mia creatura? Potremmo spingerci più in là, definendo il buon Elia ed il sottoscritto, il prode Ganesh, esseri creati dalla mente di un altro uomo, o di un dio. Che in fondo sono la stessa cosa.
  Ma Elia è il mio amico immaginario, mi piace pensarlo così. Sono convinto di averlo inventato io, dopo un’estenuante ricerca. Già, perché quando mi sono stufato e ho deciso di scendere tra voi, di camminare tra i mortali, non avevo le idee ben chiare. Sapevo di volermi affezionare alla singola entità, ma non trovavo nessuno che mi piacesse. Sono stato il confidente di un produttore di anguille surgelate, di uno spazzino maniacale, di un politico indiano zelante, di un politico americano corrotto, di un politico francese di dubbio gusto, di un assaggiatore di cibo per animali domestici, di un militare senza armi, di un cameriere eschimese in un ristorante bengalese, di un derattizzatore, di un regista di film a luci rosse, di un bugiardo, di un cacciatore di teste, di un produttore di giocattoli contraffatti, di un adoratore di ovetti di Pasqua, di un cannibale, di un falso fidanzato virtuale, di un investigatore genealogico, di uno studente fuorisede e fuoricorso, di un pizzettaro che non sapeva preparare una margherita, di un prete senza un occhio, di un arrampicatore seriale, di un uomo perso in un’isola deserta, di un serial killer, di un fattorino, di un disoccupato schizofrenico, di un assaggia profumi, di un lottatore di sumo e di un lottatore di wrestling, di una donna che desiderava sposarsi ma non ci è mai riuscita, di un trasportatore di iceberg, di un comandante comunista che ha liberato un’isola, di un fumettista che aveva finito l’inchiostro, di un kamikaze, di un fumatore d’oppio, di un animatore senza feste, di un pescatore di draghi sottomarini, di un cacciatore di vampiri, di una rana, di un suicida che non aveva il coraggio di uccidersi, di una ninfomane, di un monaco buddista, di uno scrittore di biglietti per i biscotti portafortuna, di un addetto alla sicurezza delle noci di cocco, di un responsabile del controllo del sesso dei pulcini, di un cleptomane, di un creatore di alibi per altre persone.
  Ho aiutato il cuoco al ristorante, consigliando i giusti ingredienti e prendendomi le sfuriate del padrone; mi sono perso nei meandri delle montagne, assieme al santone di turno; ho vagato fatto di peyote con i giovani delle generazioni andate; mi sono tuffato col paracadute, saldo sulla schiena del mio confidente, urlando a squarciagola; ho aizzato gli uomini contro altri uomini, contribuendo alle guerre, sì, grazie a me ne sono scoppiate tante, ma tante sono finite; ho raccattato cibo dalla spazzatura e scelto quello scaduto da un giorno, per non far star male il mio amico di turno, costretto a vivere sotto ai ponti incatramati; ho rubato nei negozi di gioielli, convinto di fare la giusta azione, ché poi i soldi li andavamo a dare in giro; sono morto mille volte, il mio affezionato colpito da una pallottola, da un cancro, da una malattia, da un vaso caduto dal balcone, dalla vecchiaia, da un fulmine, da un’auto sparata a duecento all’ora sulla strada trafficata. Ho provato ogni singola emozione ma la noia non se n’è mai andata. Sono stato alla ricerca di qualcosa di speciale, di una vita speciale senza rendermi conto che basta poco per essere felici.
  Ripeto, io posso tutto.
Poi un giorno l’ho visto, perso nei vicoli di Katmandu. Teneva un libro in mano e si dava arie con una bella ragazza. Sentivo i suoi pensieri, le sue emozioni. Cercava di seguire la guida, un piccolo libro che voi umani usate in viaggio. Ma non ci capiva niente. Era perso. Però non poteva far brutta di figura con la ragazza da poco conosciuta. Lui, che aveva attraversato il mondo per visitare il Nepal, che aveva visitato i templi in onore della dea Kali, che aveva dormito nelle bettole di periferia e si era cibato di grilli (nonostante sia vegetariano), non poteva perdersi. Gli uomini si sa cercano sempre di apparire belli davanti alle donne. Elia non è da meno. Voleva essere il maschio alfa davanti alla dolce Zoé ma ha un senso dell’orientamento che fa acqua da tutti i pori. Così li avevo seguiti, divertendomi ad ogni sbaglio del giovane. Andava a sinistra invece che a destra, curvava avanti invece che indietro e ogni volta che la ragazza domandava se si erano persi lui rispondeva sicuro «No, macché». Elia odia le cartine geografiche, non sa dove sia il nord e a stento riconosce il sud. Non ha mai imparato la tabellina del sette.
  Era lui. Ne ero certo.
Lo stavo creando in quel momento? In quel preciso istante? Per fuggire alla noia?
  Non importa, non importa.
Zoé, la ragazza che lo accompagnava, era divertita. Ad alcune donne piace l’uomo impacciato, quello che si perde, che non ha senso dell’orientamento e che non saprebbe aggiustare il tubo del cesso neanche con l’idraulico accanto che gli spiega ogni singolo passaggio; le fa sorridere, è divertente. Elia è vero, è imbranato, ma ha una cosa che io adoro (mi raccomando, non diteglielo mai) si accontenta di poco, gli basta un nonnulla per essere felice. I piccoli momenti della giornata, una mattinata di sole, l’alba ammirata appena sveglio, la sigaretta del dopo caffè, l’uscita inaspettata con gli amici, il libro da leggere di notte, sdraiato sul letto, avvolto dal piumone colorato. E questa felicità è contagiosa e colpisce chi gli sta accanto. Energie positive. È un bambino è vero, un eterno adolescente, ma sa ridere. Sa essere felice. La vita è breve, non va sprecata dietro la tristezza. Zoé adorava questo di Elia. Lei non era felice. Ci sono alcune persone propense alla depressione e a questa gente serve qualcuno che le faccia divertire delle piccole cose di tutti i giorni. Peccato che a volte si stufino. È la legge del più forte. No, Elia non è un maschio alfa, non lo sarà mai e questo alcune ragazze non possono accettarlo. Preferiscono farla finita. Ma con Zoé era diverso, lei adorava il diletto e, in un’altra vita, forse sarebbero stati insieme e avrebbero vissuto e fatto bambini e si sarebbero protetti l’uno con l’altra ma soprattutto si sarebbero fatti grasse ghignate. In un’altra vita, in un altro mondo, in un’altra realtà. Entrambi sapevano che sarebbe finita. Uno era il sogno dell’altra e viceversa. Il Nepal intero, Amici & Amiche, è stato un bel sogno e i sogni, come Zoé, finiscono.
  Li avevo pedinati, i due innamorati, in silenzio e non intervenendo. Mi piaceva il ragazzo, sapeva gustarsi il presente senza pensare al futuro. Questo tempo ignoto e senza senso.
  Io sono contro le aspettative, il tempo non esiste, «Del doman non v’è certezza», recitava il poeta. Assaporate il qui e l’ora.
  Elia Mangiaboschi faceva proprio questo: succhiava dalla vita, mai sazio.
  Avevo deciso di seguirlo, attaccandomi alla sua schiena.
A Roma, in Italia, avevo osservato il giovane uomo ogni giorno prima di rivelarmi. Un dio, sapete, non si mostra a tutti.
  Andava al lavoro (fa l’impiegato in un’azienda chiamata Meccanic A), mangiava, giocava ai videogiochi con il coinquilino, inventava storie, guardava film, ogni tanto la sera usciva, di notte non dormiva. Ha manie classiche di un soggetto maniacale e l’insonnia lo colpisce ogni sera. Fuma. Beve. Sbuffa. Parla con gli animali e si caccia spesso in situazioni paradossali. Un ragazzo tra tanti, una vita normale. Ero stato il confidente di grandi condottieri, di incredibili artisti, di potenti imprenditori.
  Ma forse non avevo bisogno di questo. Bramavo la normalità, la vita di tutti i giorni.
  Così, un pomeriggio, di punto in bianco, mi ero presentato, allungando la proboscide per toccarlo sulla schiena.
  In genere, quando mi vedete per la prima volta, come minimo fate un balzo indietro spaventati. Il Mangiaboschi no, lui aveva semplicemente sorriso. «Eccone un altro», aveva detto. Un altro. Dentro la sua testa mille creature fabbricavano pensieri e appicicati alle sue spalle dodicimila poeti sussurravano consigli. Non ero solo, non più. Tutti erano impegnati a suggerire cosa fare e cosa non fare. Se solo poteste vedere quante entità circondano l’adorato…
  Io però conosco ogni lingua del mondo e il sapere di un dio scorre nelle mie vene.
  Ci siamo affezionati l’un l’altro e siamo diventati inseparabili. Abbiamo risolto enigmi e formulato congetture, trovando il modo di saltare il lavoro e i tornelli della metropolitana. Ho fatto da palo durante i furti nei supermercati e imparato ad apprezzare la spesa proletaria; ho visitato strani locali e parlato con un gruppo di scarafaggi impazziti; mi sono infervorato durante i cortei di protesta, il pugno sinistro alzato, urlando a squarciagola slogan di cui non conoscevo il significato.
  È la vita.
Sì. Elia Mangiaboschi è il mio amico immaginario e questa è la sua vita. La sua e la mia.
Ora siamo sempre insieme, pappa e ciccia, direste.
La mattina lo sveglio con dolcezza e la sera gli consiglio cosa cucinare.
  Basta poco per essere felici.
Ma fate attenzione, voi che leggete le storielle del martedì, voi che tornate a casa stanchi dal lavoro, voi che pensate che io stia mentendo… fate attenzione perché un giorno potrei stufarmi e separami dal Mangiaboschi. Allora proseguirei la mia ricerca alla ricerca di un altro amico immaginario. Non è detto che i prossimi non siate voi, creature di un’energia troppo grande per essere compresa.

  Se ti interessa sapere cosa ci facevo in Nepal, quando Ganesh s'è attaccato alla schiena mia leggiti questo:

  Il prossimo raccontino esce  martedì 17 gennaio... che la Forza sia con voi.

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