martedì 13 dicembre 2016

GANESHA



  Il povero umano, lo stolto, quello che nella Stanza dei Bottoni (il luogo da cui viene manovrato) chiamano “il diletto” e “l’adorato”, altri non è che il mio amico immaginario.
  Sono nato tanto tempo fa, prima di tutti voi, in un paese lontano, al di fuori del tempo, al di fuori dello spazio. Sono il figlio di Shiva e di Parvati.
  Sì, sono un dio, o meglio, una divinità zooforme, mio malgrado.
Posso biasimare mio padre per quel che ha fatto?
  Il mio amico immaginario Elia Mangiaboschi mi apostrofa sempre deridendomi, «Testa d’elefante», dice. Io non me la prendo troppo, in fin dei conti ci sono abituato, mi chiamano così da secoli. Ma un tempo il mio volto era bello, puro e candido. Il dio Shiva era andato via, papà ha sempre adorato le battute di caccia e non si era sottratto al lungo viaggio alla ricerca di animali esotici ed incredibili, assieme ai suoi amici, divinità sicuramente più modeste ma che lo divertivano e lo rilassavano. Così era partito lasciando sola mia madre. «Tornerò presto», aveva detto baciandola sulla fronte. Parvati l’aveva guardato andare via, maestoso e regale, e poi si era chiusa nel castello. Mia madre, vedete, è sempre stata una dea timorosa ma determinata (voleva a tutti i costi un figlio che però Shiva rifiutava) e così, per paura di essere importunata da forze malefiche, mi aveva creato amalgamando lo strato di sporco della sua pelle, impastando, curando e delineando le mie forme. Proporzioni belle e perfette, immacolate, splendenti. Sì, umani, ero un essere bianco, puro e il mio nome era Ganesha. Parvati, orgogliosa del suo lavoro, mi aveva abbracciato, come solo una madre sa fare e dopo avermi rifocillato, in una sala piena di incensi, si era accostata a me sussurrando: «Proteggimi». Mi ero posizionato all’entrata del bagno, proprio davanti alla porta e non avevo fatto passare nessuno. In tanti ci avevano provato ma io li avevo sempre respinti, fedele agli ordini della madre. Un giorno, lo ricordo come fosse ieri, uno sconosciuto si era presentato nel regno chiedendomi di entrare. «No», fu la mia risposta. «Di qui non passa nessuno». Come potevo sapere? L’amore nei confronti di Parvati era troppo grande! Il forestiero altri non era che mio padre, Shiva, tornato dal lungo soggiorno di caccia.
  Papà, so che non è colpa tua, non mi conoscevi, non avevi mai ammirato il candore della mia pelle.
  Shiva, furioso per essere stato respinto, aveva sferrato un attacco senza precedenti, colpendo con minuziosa precisione. Mi ero scostato e avevo attaccato a mia volta, con fendenti ben precisi e colpi valorosi. Più volte papà era stato sul punto di cedere ma ogni volta si era rialzato. La battaglia viene ancora ricordata come una delle più epiche, memorabili. “Resistente” e “Valoroso”, sono solo alcuni dei termini che usano per descrivermi. Per battermi Shiva dovette chiamare aiuti esterni, mostri e divinità. Non cedevo, non potevo, dovevo proteggere mia madre. Ma erano troppi e quando Shiva, d’improvviso, tirò fuori il suo Trishul, lo splendido tridente, per me fu la fine. La mia testa, Amici & Amiche, venne tagliata ed il mio corpo decapitato rimase lì, a terra, in una pozza di sangue divino. Quando Parvati lo scoprì andò su tutte le furie, versando lacrime salate che inondarono il mondo intero. Piangeva per me! Suo adorato figlio! Shiva, turbato per quel che aveva fatto, non sapeva come comportarsi. «Moglie mia», diceva, «perdonami». Mamma passava le giornate distesa sul letto, battendo i pugni, disperata e inconsolabile. Shiva, vedendo la moglie così ridotta, andò dal potente Brahama. «Come posso fare?». I due si scervellavano. Poi Brahama, nella sua infinita saggezza, propose a mio padre uno stratagemma, che col senno di poi non è che mi abbia proprio convinto: «Ho trovato, rimpiazza la testa di Ganesha con quella del primo animale o essere che trovi, ma mi raccomando, non sbagliare. Deve star dormendo con la testa rivolta a nord». Immediatamente Shiva inviò la sua potente squadra di entità celesti alla ricerca di un essere qualunque. Foreste, selve, boschi, città. Ogni luogo venne setacciato ma di animali non c’era traccia, come se si fossero nascosti, consapevoli del fato che li attendeva. Poi, in una notte piena di stelle, incontrarono una piccola creatura, un tenero elefantino, che dormiva con la testa rivolta verso nord. Lo decapitarono senza pensarci due volte e subito dopo, con un incredibile sortilegio, attaccarono la sua testa al mio corpo, riportandomi in vita. Mio padre, un po’ per senso di colpa un po’ per il valore che avevo dimostrato in battaglia, mi nominò Pati,  capo delle sue truppe. Per questo ancora oggi alcuni mi chiamano Ganapati. Sono stato il più grande comandante della storia, lo so. Inoltre papà decise di concedere favori a chiunque avesse invocato il mio nome prima di qualsiasi pratica. Per codesta ragione vengo anche adorato come Vigneshwara, colui che rimuove gli ostacoli dalla vita materiale e dalla vita spirituale. Ed è forse per questo motivo che ho conosciuto Elia Mangiaboschi, il mio amico immaginario. Ma non temete, ve ne parlerò più avanti.
  Io sono il Signore della Meditazione, in sella al mio topolino magico cavalcato senza problemi, insegnandovi a tenere salde le redini delle emozioni; sono il Signore dell’Universo che danza e sì, creo la materia dal nulla, il mio ballo è incredibile e tutti rimangono estasiati ad ammirarmi; sono il Signore della Scrittura, rappresentato mentre scrivo il Mahabharata, utilizzando come penna una delle mie zanne intinta di inchiostro (che fatica quel periodo, lo ricordo come fosse ieri, giorni interi a scrivere, a pensare, a creare, davanti alla pagina bianca, con il classico blocco dello scrittore); sono adorato dalle donne, perché rappresento l’autodeterminazione di una di voi, la bella Parvati, l’intimità e la libertà. Sono il vostro protettore sì.
  Per secoli ho vegliato sulle case degli esseri umani. Sono stato buono e dolce, discreto e attento. Mi basta un po’ di curcuma per essere felice. Ho combattuto anche e discusso con altri dei. Mi è cresciuta la pancia ma questo aumenta il mio fascino, come quegli attori famosi che con la vecchiaia acquistano bellezza. No, non sono anziano. Non posso morire, sono immortale. Qualcuno di voi ha scritto di noi dei. Dicono che l’unico modo per uccidere una divinità sia dimenticarla, smettendo di credere. Altri metodi non ce ne sono. Ma abbiamo le nostre armi: i bambini ad esempio. Prendete Thor, il potente dio delle leggende nordiche, riportato in vita prima dai fumetti e dopo nei film. Pensate davvero che ad infondere l’idea di utilizzare una divinità del genere per una storia di fantasia sia stato un uomo? Siamo noi che parliamo alle vostre orecchie, ascoltando il battito dell’Universo, dell’Infinito, di cui tutti facciamo parte. Voi, piccoli umani, create il mondo con i vostri sensi perché non riuscite a concepire la vera realtà, il magma, Dio. Che è tutto e ci circonda. Per questo pensate  il mondo a vostra immagine e somiglianza. Noi, in fondo, sappiamo già cos’è il Mistero. Voi siete Dio, non dovete cercarlo fuori, l’energia che vi tiene in vita è Dio; potete sentirlo, tutto è Dio, ogni cosa, ogni pianta, ogni essere umano, ogni animale, ogni oggetto. Il vostro cellulare è Dio e voi siete il vostro cellulare. Fusi. Ma separati per comprendere. Per questo esistiamo noi. Creature fantastiche e incredibili. Non siamo troppo diversi, noi siamo solo un gradino più in alto di voi.
  È come una scala sì.
Esistiamo perché voi credete in noi e voi esistete perché l’Infinito scorre nel vostro corpo. Potente è il mantra: “Io e Dio, Dio e Io siamo uno”.
  Quindi sì, vi ho protetti, ho combattuto e ho vegliato su di voi. Su ognuno di voi. E voi mi avete venerato, innalzando templi e statue, facendo offerte e donando fiori e oggetti.
  Ma un giorno mi sono stufato.
Ero stanco, tanto stanco. Osservare il Tutto non è semplice. Passavo intere giornate davanti al mondo, guardando i suoi esseri ed intervenendo. Stufo, portavo pestilenze e gli altri dei non potevano biasimarmi, consapevoli della noia. È noioso avere il potere di riuscire in ogni cosa. Noioso e stancate. Immaginate di poter far tutto e di non desiderare più niente. Volete una bicicletta nuova? La potete creare. Un’isola tutta per voi? Ecco fatto. Il cibo più buono del mondo? E’ già pronto, lì sulla tavola bandita. Decisi quindi di smettere, di andarmene. Alcuni dicono che a forgiare il mondo siamo stati noi. Divinità scocciate che non avevano di meglio da fare. Certi umani credono in un solo dio che ha creato il pianeta e l’universo intero. Altri pensano ad un lavoro collettivo, fatto da più entità soprannaturali. La verità è un’altra ovviamente. Ma se per un attimo decidiamo di convalidare la vostra verità allora beh, gli esseri umani sono nostre creature. Frutto della fantasia, creati col fango e col sorriso. E se voi siete l’immaginazione, il risultato di un esperimento, è giusto che io definisca Elia Mangiaboschi il mio amico immaginario. Cosa vi rende così certi di essere reali? Di non vivere nella mente di un altro? Di non essere il racconto pensato da qualcuno più in alto? E se voi non siete reali, cosa siete? O peggio, se solo voi foste veri e tutto il resto finzione? E se Elia Mangiaboschi fosse una mia creatura? Potremmo spingerci più in là, definendo il buon Elia ed il sottoscritto, il prode Ganesh, esseri creati dalla mente di un altro uomo, o di un dio. Che in fondo sono la stessa cosa.
  Ma Elia è il mio amico immaginario, mi piace pensarlo così. Sono convinto di averlo inventato io, dopo un’estenuante ricerca. Già, perché quando mi sono stufato e ho deciso di scendere tra voi, di camminare tra i mortali, non avevo le idee ben chiare. Sapevo di volermi affezionare alla singola entità, ma non trovavo nessuno che mi piacesse. Sono stato il confidente di un produttore di anguille surgelate, di uno spazzino maniacale, di un politico indiano zelante, di un politico americano corrotto, di un politico francese di dubbio gusto, di un assaggiatore di cibo per animali domestici, di un militare senza armi, di un cameriere eschimese in un ristorante bengalese, di un derattizzatore, di un regista di film a luci rosse, di un bugiardo, di un cacciatore di teste, di un produttore di giocattoli contraffatti, di un adoratore di ovetti di Pasqua, di un cannibale, di un falso fidanzato virtuale, di un investigatore genealogico, di uno studente fuorisede e fuoricorso, di un pizzettaro che non sapeva preparare una margherita, di un prete senza un occhio, di un arrampicatore seriale, di un uomo perso in un’isola deserta, di un serial killer, di un fattorino, di un disoccupato schizofrenico, di un assaggia profumi, di un lottatore di sumo e di un lottatore di wrestling, di una donna che desiderava sposarsi ma non ci è mai riuscita, di un trasportatore di iceberg, di un comandante comunista che ha liberato un’isola, di un fumettista che aveva finito l’inchiostro, di un kamikaze, di un fumatore d’oppio, di un animatore senza feste, di un pescatore di draghi sottomarini, di un cacciatore di vampiri, di una rana, di un suicida che non aveva il coraggio di uccidersi, di una ninfomane, di un monaco buddista, di uno scrittore di biglietti per i biscotti portafortuna, di un addetto alla sicurezza delle noci di cocco, di un responsabile del controllo del sesso dei pulcini, di un cleptomane, di un creatore di alibi per altre persone.
  Ho aiutato il cuoco al ristorante, consigliando i giusti ingredienti e prendendomi le sfuriate del padrone; mi sono perso nei meandri delle montagne, assieme al santone di turno; ho vagato fatto di peyote con i giovani delle generazioni andate; mi sono tuffato col paracadute, saldo sulla schiena del mio confidente, urlando a squarciagola; ho aizzato gli uomini contro altri uomini, contribuendo alle guerre, sì, grazie a me ne sono scoppiate tante, ma tante sono finite; ho raccattato cibo dalla spazzatura e scelto quello scaduto da un giorno, per non far star male il mio amico di turno, costretto a vivere sotto ai ponti incatramati; ho rubato nei negozi di gioielli, convinto di fare la giusta azione, ché poi i soldi li andavamo a dare in giro; sono morto mille volte, il mio affezionato colpito da una pallottola, da un cancro, da una malattia, da un vaso caduto dal balcone, dalla vecchiaia, da un fulmine, da un’auto sparata a duecento all’ora sulla strada trafficata. Ho provato ogni singola emozione ma la noia non se n’è mai andata. Sono stato alla ricerca di qualcosa di speciale, di una vita speciale senza rendermi conto che basta poco per essere felici.
  Ripeto, io posso tutto.
Poi un giorno l’ho visto, perso nei vicoli di Katmandu. Teneva un libro in mano e si dava arie con una bella ragazza. Sentivo i suoi pensieri, le sue emozioni. Cercava di seguire la guida, un piccolo libro che voi umani usate in viaggio. Ma non ci capiva niente. Era perso. Però non poteva far brutta di figura con la ragazza da poco conosciuta. Lui, che aveva attraversato il mondo per visitare il Nepal, che aveva visitato i templi in onore della dea Kali, che aveva dormito nelle bettole di periferia e si era cibato di grilli (nonostante sia vegetariano), non poteva perdersi. Gli uomini si sa cercano sempre di apparire belli davanti alle donne. Elia non è da meno. Voleva essere il maschio alfa davanti alla dolce Zoé ma ha un senso dell’orientamento che fa acqua da tutti i pori. Così li avevo seguiti, divertendomi ad ogni sbaglio del giovane. Andava a sinistra invece che a destra, curvava avanti invece che indietro e ogni volta che la ragazza domandava se si erano persi lui rispondeva sicuro «No, macché». Elia odia le cartine geografiche, non sa dove sia il nord e a stento riconosce il sud. Non ha mai imparato la tabellina del sette.
  Era lui. Ne ero certo.
Lo stavo creando in quel momento? In quel preciso istante? Per fuggire alla noia?
  Non importa, non importa.
Zoé, la ragazza che lo accompagnava, era divertita. Ad alcune donne piace l’uomo impacciato, quello che si perde, che non ha senso dell’orientamento e che non saprebbe aggiustare il tubo del cesso neanche con l’idraulico accanto che gli spiega ogni singolo passaggio; le fa sorridere, è divertente. Elia è vero, è imbranato, ma ha una cosa che io adoro (mi raccomando, non diteglielo mai) si accontenta di poco, gli basta un nonnulla per essere felice. I piccoli momenti della giornata, una mattinata di sole, l’alba ammirata appena sveglio, la sigaretta del dopo caffè, l’uscita inaspettata con gli amici, il libro da leggere di notte, sdraiato sul letto, avvolto dal piumone colorato. E questa felicità è contagiosa e colpisce chi gli sta accanto. Energie positive. È un bambino è vero, un eterno adolescente, ma sa ridere. Sa essere felice. La vita è breve, non va sprecata dietro la tristezza. Zoé adorava questo di Elia. Lei non era felice. Ci sono alcune persone propense alla depressione e a questa gente serve qualcuno che le faccia divertire delle piccole cose di tutti i giorni. Peccato che a volte si stufino. È la legge del più forte. No, Elia non è un maschio alfa, non lo sarà mai e questo alcune ragazze non possono accettarlo. Preferiscono farla finita. Ma con Zoé era diverso, lei adorava il diletto e, in un’altra vita, forse sarebbero stati insieme e avrebbero vissuto e fatto bambini e si sarebbero protetti l’uno con l’altra ma soprattutto si sarebbero fatti grasse ghignate. In un’altra vita, in un altro mondo, in un’altra realtà. Entrambi sapevano che sarebbe finita. Uno era il sogno dell’altra e viceversa. Il Nepal intero, Amici & Amiche, è stato un bel sogno e i sogni, come Zoé, finiscono.
  Li avevo pedinati, i due innamorati, in silenzio e non intervenendo. Mi piaceva il ragazzo, sapeva gustarsi il presente senza pensare al futuro. Questo tempo ignoto e senza senso.
  Io sono contro le aspettative, il tempo non esiste, «Del doman non v’è certezza», recitava il poeta. Assaporate il qui e l’ora.
  Elia Mangiaboschi faceva proprio questo: succhiava dalla vita, mai sazio.
  Avevo deciso di seguirlo, attaccandomi alla sua schiena.
A Roma, in Italia, avevo osservato il giovane uomo ogni giorno prima di rivelarmi. Un dio, sapete, non si mostra a tutti.
  Andava al lavoro (fa l’impiegato in un’azienda chiamata Meccanic A), mangiava, giocava ai videogiochi con il coinquilino, inventava storie, guardava film, ogni tanto la sera usciva, di notte non dormiva. Ha manie classiche di un soggetto maniacale e l’insonnia lo colpisce ogni sera. Fuma. Beve. Sbuffa. Parla con gli animali e si caccia spesso in situazioni paradossali. Un ragazzo tra tanti, una vita normale. Ero stato il confidente di grandi condottieri, di incredibili artisti, di potenti imprenditori.
  Ma forse non avevo bisogno di questo. Bramavo la normalità, la vita di tutti i giorni.
  Così, un pomeriggio, di punto in bianco, mi ero presentato, allungando la proboscide per toccarlo sulla schiena.
  In genere, quando mi vedete per la prima volta, come minimo fate un balzo indietro spaventati. Il Mangiaboschi no, lui aveva semplicemente sorriso. «Eccone un altro», aveva detto. Un altro. Dentro la sua testa mille creature fabbricavano pensieri e appicicati alle sue spalle dodicimila poeti sussurravano consigli. Non ero solo, non più. Tutti erano impegnati a suggerire cosa fare e cosa non fare. Se solo poteste vedere quante entità circondano l’adorato…
  Io però conosco ogni lingua del mondo e il sapere di un dio scorre nelle mie vene.
  Ci siamo affezionati l’un l’altro e siamo diventati inseparabili. Abbiamo risolto enigmi e formulato congetture, trovando il modo di saltare il lavoro e i tornelli della metropolitana. Ho fatto da palo durante i furti nei supermercati e imparato ad apprezzare la spesa proletaria; ho visitato strani locali e parlato con un gruppo di scarafaggi impazziti; mi sono infervorato durante i cortei di protesta, il pugno sinistro alzato, urlando a squarciagola slogan di cui non conoscevo il significato.
  È la vita.
Sì. Elia Mangiaboschi è il mio amico immaginario e questa è la sua vita. La sua e la mia.
Ora siamo sempre insieme, pappa e ciccia, direste.
La mattina lo sveglio con dolcezza e la sera gli consiglio cosa cucinare.
  Basta poco per essere felici.
Ma fate attenzione, voi che leggete le storielle del martedì, voi che tornate a casa stanchi dal lavoro, voi che pensate che io stia mentendo… fate attenzione perché un giorno potrei stufarmi e separami dal Mangiaboschi. Allora proseguirei la mia ricerca alla ricerca di un altro amico immaginario. Non è detto che i prossimi non siate voi, creature di un’energia troppo grande per essere compresa.

  Se ti interessa sapere cosa ci facevo in Nepal, quando Ganesh s'è attaccato alla schiena mia leggiti questo:

  Il prossimo raccontino esce  martedì 17 gennaio... che la Forza sia con voi.

martedì 15 novembre 2016

LO STRANO CASO DEL BARATTOLO MISTERIOSO





  Immobile.
  Fermo.
  La gamba ha un fremito.
Simone rimane lì, gli occhi puntati sul frigorifero.
  Poi un suono.
Mi alzo.
La milza scoppia.
  «Non lo fare», mi implora il coinquilino.
È troppo tardi.
  Apro il vecchio frigorifero giallo.
Il curry è lì.
  «Sta… sta arrivando».

Quattro giorni prima
  Ho comprato ‘sto barattolo di curry cremoso, non in polvere, una crema proprio, ché dice basta metterlo sulle verdure per farci un buon sughetto.
  «Quando l’hai visto non t’è sembrato vero», mi fa Ganesh, il mio amico immaginario.
  «E’ vero, sto in fissa col curry. Ricordi in Nepal?»
GRANDE PUFFO: E come scordarlo.
MASTRO LINDO: Diarrea per una settimana.
SIGMUND FREUD: E vomito.
UNA MOSCA: Ci siamo quasi affogati. Se c’ero io ai comandi me lo sarei anche mangiato, il vomito dico… ha un certo sapore, bello speziato.
GIANNI MORANDI: Cremoso…
  È che a me piace proprio fare la spesa a Piazza Vittorio, non ci posso far niente, c’hanno tutte ‘ste robe mica male. Per dire, sto in fissa con gli alimentari cinesi che vendono quei cibi pronti assurdi. E anche con i negozi bengalesi, come no. Tipo questo, dove c’ho comprato il barattolo di curry. Un alimentari piccoletto, mezzo in ombra, nascosto tra le vie, con tutte le pareti nere. Un posto che a vederlo da fuori sembra piccolino ma dentro è una roba immensa, piena di statuette di Ganesh (che infatti si è sentito lusingato) e di testi sul tantra nero. Gli scaffali zeppi di tutte le prelibatezze del mondo: gomme da masticare giganti, peperoni, spaghetti di soia, sughi pronti e strane polveri argentate. Giuro, stavo proprio a mio agio.
YOGI BHAJAN: Qui nella Stanza dei Bottoni, da dove manovriamo Elia Mangiaboschi, abbiamo un pulsante rosso molto grande. È al centro del tavolo e va usato solo in caso di emergenza. Ogni tanto certo qualcuno di noi si diverte a premerlo per scherzo, come Superstellino ad esempio, e tutto il sistema nervoso di Elia scatta sull’attenti. Il pulsante dell’allerta, da pigiare in situazioni sospette.
CARL GUSTAV JUNG: In questo caso premere il pulsante rosso sarebbe d’obbligo. L’adorato infatti si è fermato proprio davanti ad uno strano barattolo.
  Mi ero fermato davanti ad uno strano barattolo.
YOGI BHAJAN: Per l’adorato il curry rappresenta una fonte di vita. Ricco di proteine, quando Elia lo mangia, gli fa tipo droga. Per questo ne abusa. Vederne uno cremoso beh…
MICHAIL BAKUNIN: La verità Compagni & Compagne, è che avremmo dovuto premere il pulsante rosso ma ognuno di noi, inutile negarlo, era impegnato in altre attività, quali:
- Grattarsi il culo
- Scaccolarsi
- Giocare a tresette
- Bere il caffè corretto delle dieci del mattino
- Riflettere sui massimi sistemi
- Riflettere su Matteo Salvini e sul senso della vita in generale
- Riflettere (in maniera molto accurata) su come sabotare la stampante dell’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante
- Conquistare il mondo.
PIERO ANGELA: Capirete bene quindi che nessuno poteva premere il pulsante rosso.
  Eccolo, lo guardavo con reverenda ammirazione, il bellissimo barattolo di curry speziato. Le dita, senza pensarci due volte, erano corse a prenderlo.
  «Cosa fa?»
Mi ero voltato di scatto, un uomo basso e dalla pelle scura mi guardava torvo. Una lunga barba bianca gli contornava il viso e due occhietti fini fini mi scrutavano impazienti. Aveva allungato il mignolo verso di me, mostrando l’unghia cresciuta a dismisura che ricordava il vecchio uncino dei pirati.
GIACOMO LEOPARDI (che ha sempre la faccia di Elio Germano): A questo punto avremmo dovuto premere il famoso pulsante rosso, se solo non ci fossimo distratti a giocare a battaglia navale.
  «Vorrei… il curry.»
  «Non preferisce un pacco di liquerizie colorate?»
  «No. Il curry.»
  «…»
  «Il curry il curry il curry!»
GRANDE PUFFO: Elia si è bloccato, è entrato in loop infantile, chi sta ai comandi?
PIERO ANGELA: Superstellino, forse dovremmo spingere…
GRANDE PUFFO: Ma no! Il curry ci piace. Noi adoriamo il curry!
  «Dovresti ascoltare il venditore qua. Che ne pensi?», mi dice Ganesh.
  «Signor venditore io voglio il curry. È un mio diritto. Di cittadino. La sa la storia no? Uno vale uno e tutte quelle boiate lì. Io sto in fissa col curry, sono disposto a pagare».
KARL MARX: La spesa proletaria, Compagni, noi la facciamo solo nei supermercati che finanziano le guerre, i paesi ricchi e il petrolio.
MICHAIL BAKUNIN: Anche da NaturaSì.
KARL MARX: Anche da NaturaSì, è vero.
  «Quel barattolo è speciale», aveva detto lo strano venditore. «Sicuro di volerlo?»
  «Sì sì. Al cento per cento!»
L’uomo mi aveva guardato e poi, annuendo, si era sporto verso di me. «Elia Mangiaboschi. Fai molta attenzione».
PIERO ANGELA: E a questo punto spingere il pulsante rosso delle emergenze sarebbe stata cosa ottima, o anche domandarsi come diavolo faceva il signor venditore a conoscere il nome dell’adorato, ma noialtri, tutti quanti, eravamo ipnotizzati dal maledetto barattolo.

  Si pensa, Lettori & Lettrici, che l’origine del termine “curry” possa risalire alla parola “karil”, che più o meno significa, per noi blasfemi, “salse piccanti”. In molti poi credono che il curry nasca in India ma in pochi sanno della misteriosa tavoletta incisa con caratteri cuneiformi trovata in Mesopotamia, dove il curry viene descritto come alimento offerto agli dei. Sacrifici umani, decapitazioni, salse piccanti.

  Torno a casa felice, il barattolo di curry in mano. Spalanco la porta e mi fiondo sul coinquilino. «Simone!», gli faccio abbracciandolo, «Guarda un po’… crema di curry, mica cazzi!»
  Simone alza un poco lo sguardo, sbracato sul divano. «Cucini te quindi».
  «Sì sì».
KARL MARX: Secondo me, se posso, ci sfrutta.
GRANDE PUFFO: Ora però non ci dilunghiamo sulla preparazione della cena, per tutti i puffi. Facciamo un balzo nel tempo. Mandiamo avanti veloce.
Cucinopreparandounbuonsoffrittodipeperoncinoecipollaafferroleverdure
eletagliuzzominuziosamentelecuociopoiprendoilcurryespalmoiltuttochiamo
Simonechenonhaapparecchiatoeinsiememangiamobevendoancheunvino
buonissimorossopagatouneuroeduecentesimidurantelacenaparliamodico
seimportantiqualiStrangerThingschécisiamofattil’abbonamentoaNetfixe
StrangerThingscimancavaetuttieduecistiamoinfissaallafine dituttoruttiamocontemporaneamenteedopodiciamoanchetuttol’alfabetoruttando
eridiamofeliciperché‘nsommadirel’alfabetoconunruttosolonessunociriescemegliodinoi.
  Sazi, ci guardiamo. La nausea che sale vorticosa.
  «Elia faceva veramente schifo ‘sto curry.»
  «Non posso negarlo amico mio, non posso negarlo. Meglio in polvere. ‘Ste cose ti distruggono.»
  «Ma non è che è scaduto vero?»
  «No no, scade nel 2018.»
  «Che facciamo, lo buttiamo?»
  «Sei pazzo! L’ho pagato 2 euro e novantanove centesimi! Lo mettiamo in frigo e prima o poi lo mangeremo… prima o poi. O lo doniamo, lo possiamo dare ai poveri. Il Natale si avvicina…»
  «Ascoltami, perché non te lo ripeterò due volte. ‘Sto coso che hai comprato fa cacare, in tutti i sensi. Non posso tollerarlo. In frigorifero abbiamo la cioccolata di due pasque fa, le caramelle del topino dei denti, una vecchissima melanzana reliquia sacra dell’estate scorsa, un piatto dell’ultima festa che abbiamo organizzato a casa che sta producendo strani effetti chimici, il gelato sciolto, il latte scaduto da tre settimane, due pupazzetti congelati per puro gusto sadico. Non tollererò un’altra schifezza. Scegli. O me o il curry.»
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKY: Certo detta così è difficile. Vorrei dire solo a mia discolpa che i pupazzetti congelati sono proprio un esperimento termonucleare, sulla sopravvivenza della plastica in ambienti sotto lo zero. Lo facevamo anche da bambini, ricordate?
LA VECCHIAIA: Colleghi, nella vita di ogni persona, ad un certo punto, si prendono delle scelte. È un bivio. Bisogna imparare a staccarsi dalle cose materiali.
GRANDE PUFFO: Ha ragione la signora bella qua. Buttiamo ‘sto curry e non pensiamoci più.
  Afferro il barattolo guardando il coinquilino. «È questo che vuoi?», gemo. «Vuoi vedermi soffrire così?»
Simone annuisce. «Fatti forza. Sii uomo».
Disperato getto via il curry.

  Di notte faccio strani sogni: sogno una distesa di curry rosso sangue, immensa. Alzo lo sguardo, il curry mi avvolge, soffocandomi.

Tre giorni prima
  «Questa notte», mi fa Simone sorseggiando il caffè, «ho fatto un sogno assurdo. Ero avvolto da curry denso come sangue. Mi entrava proprio in gola».
  «Maddai, anche io ho sognato il curry… secondo me c’ha fatto proprio male…»
  «E poi… ma tu non hai sentito niente?»
  «Cosa?»
  «Rumori… c’era qualcuno che faceva un baccano incredibile.»
  «Mah…», dico aprendo il frigo.
E nel frigo…
sul ripiano…
in bella mostra…
il barattolo di curry mi scruta beffardo.
PIERO ANGELA: Oh oh.
  «Simone, non avevamo detto di buttarlo?»
Il coinquilino si avvicina. «E infatti. Non ce l’ho messo io. Ti pare che faccio una cosa del genere… sei tu che raccatti le cose dall’immondizia, mica io!»
  «Allora…»
  «Sarà stato il pinguino che dimora al cesso. Cazzo ieri non l’abbiamo fatto mangiare…»
  «Signor pinguino!», urlo, «Signor pinguino vieni un po’ qua!»
Il pinguino arriva trotterellando. «Dì un po’, sei stato tu a mettere il barattolo di curry in frigo? L’avevamo buttato, abbiamo imposto delle regole ben precise qui dentro. Lo sai. Ed una di queste», annuisco guardando la chiazza di sugo rancido a terra. «È tenere pulito. E in ordine. Ma soprattutto non raccogliere le cose dal secchio della spazzatura. Allora? Sei stato tu?»
Il pinguino fa no no con la testa.
  Dovete sapere che il pinguino nostro, animale da compagnia molto poco affettuoso e che da un po’ di tempo ci ha letteralmente squattato il bagno, non mente. Mai.
  «Vabbè dai Elia, tranquillo. Sarai stato tu che c’avrai mo il periodo sonnambulo no? Tanto a te ‘ste cose ti capitano tutte così poi ci scrivi i raccontini. Non preoccuparti. Buttalo e finisce lì».
  Lo getto.
  ‘Sta storia mi puzza.

  Passo la giornata al lavoro, timbrando scartoffie e ricevute. Non parlo con nessuno. Un solo pensiero, il barattolo di curry. Il mio spirito investigatore si mette subito all’erta, formulando congetture senza dubbio intelligenti.
GRANDE PUFFO: Basta Superstellino! Smettila di spingere il pusante rosso… lo vedi che Elia sta tutto sull’attenti! Pure i peli delle braccia si sono drizzati. Fermati!
TONY PONZI: Il Mangiaboschi…
SIGMUND FREUD: C’è Tony Ponzi c’è Tony Ponzi!
FEDERICO MOCCIA: Il grande investigatore privato!
 TONY PONZI: Il Mangiaboschi, come voi saprete, ha sempre nutrito grande stima per noi indagatori. Da Dylan Dog in poi l’amore per il mistero è cresciuto a dismisura. Da bambino, come tutti rammenterete, voleva fare l’investigatore edicolante anarchico comunista sovversivo e per questo collezionava di tutto. Ricordate le riviste che pubblicizzavano gli occhiali a raggi X o il contapassi magnetico? Il Mangiaboschi quelle cose ce le aveva tutte. Per questo oggi le antenne investigative crescono e il ragazzo non può fare a meno di pensare al misterioso barattolo di curry.
  «Sì», dico ad alta voce, «devo indagare.»
È che lavorare qui mi sembra proprio un’inutile perdita di tempo quando a casa ho un mistero da risolvere. Forse dovrei alzarmi. Già, alzarmi ed andarmene. Senza dare spiegazioni. Licenziarmi una volta per tutte e tornare a fare il disoccupato, a passare le giornate a cercare un lavoro su internet. Sarebbe fico.
LA VECCHIAIA: Ma non lo farai.
  Ma non lo farò.
LA VECCHIAIA: Lavorerai.
  Lavorerò.
LA VECCHIAIA: Per Meccanic. A
  Per Meccanic. A
LA VECCHIAIA: L’azienda.
  L’azienda.
LA VECCHIAIA: E il capitalismo.
  E il capitalismo.
Quando finalmente suona la campanella noi gobbi impiegati/carcerati ci alziamo, scrutati dall’occhio elettronico del Principale. Mantengo una postura eretta per non farmi notare ma dentro faccio congetture. Congetturo ad esempio che davvero potrei essere sonnambulo e questo mi darebbe la possibilità di scrivere almeno un paio di racconti senza dover spremere troppo le meningi o far lavorare i pochi neuroni sopravvissuti.
IL NEURONE: Pochi. Pfui. Solo io sono rimasto, unico supersite di una grande razza di pensatori.
  Ma non credo. Sono sicuro di aver dormito. E sognato.

  Spalanco il mio vecchio frigorifero giallo per recuperare la cotoletta di soia del discount.
  Lo sguardo si ferma.
Cazzo.
  «Simone!», urlo. «Vieni un po’ qua!»
  «Elia sono molto impegnato! Sto cercando di far circolare un po’ di prana, l’energia vitale di noi yogici perfetti! Cerca di capire, non posso starti sempre appresso. Cresci Cristiddio!»
  «È urgente».
Il coinquilino, totalmente vestito di bianco e col turbante in testa, spunta in cucina.
  «A me però così tutto strano mi fai una certa impressione».
YOGI BHAJAN: Blasfemo. Il bianco eleva la consapevolezza. L’adorato non potrà mai intraprendere la via dello yoga.
CHRISTOPHER VOGLER: Se posso, il problema della Stanza dei Bottoni è che uscite continuamente fuori tema. Digressioni che si prolungano all’infinito. Questa cosa dell’abito bianco ad esempio, inutile scriverla e addirittura far parlare il maestro Yogi Bhajan. È una perdita di tempo e il lettore si deconcentra. La storia non ha senso. Effettivamente avete sprecato sei pagine per descrivere una situazione sì anomala ma che poteva tranquillamente essere semplificata così: “Un giorno Elia Mangiaboschi si svegliò e trovò, assieme al suo coinquilino vestito di bianco [così siete contenti], il barattolo di curry in frigorifero gettato il giorno prima”. Che ne dite?
GRANDE PUFFO: Io dico che sei un rompicazzo incredibile e che n’è che arrivi tu fresco fresco e con la laurea in sceneggiatura americana e ci puoi dire cosa puffare e cosa non puffare nella capoccia nostra. A noi ci piacciono le digressioni. E le facciamo. Non sei contento? Trovati un’altra Stanza dei Bottoni da cui manovrare un fesso qualunque. Intesi? Torniamo a noi. Dicevamo. Raccontaci un po’ Yogi perché il bianco è importante. Ci interessa, pendiamo dalle tue labbra. Pure la Kundalini accartocciata sul divano è curiosa. Serpento’! C’ho ragione no? Alla fine lo yoga serve a te, così gli sali dritto dritto nel cranio e prima di riscendere lo fai svalvolare un poco al nostro Elia. Mica no. Avoja. Nel frattempo però Superstellino passa lo spritz, è l’ora dell’aperitivo.
TONY PONZI: Scusate. Intervengo. Credo sia importante far riflettere il Mangiaboschi. Osservate la faccia di Simone come sta cambiando. Si è accorto, mentre voi parlavate, del barattolo di curry nel frigorifero. Guardate gli occhi. Analizzateli. Sono per caso occhi di un colpevole?
SERGENTE HARTMAN: No signore!
TONY PONZI: Benissimo. Ascoltiamo allora cos’ha da dirci.
  «Ne sai niente?»
  «Elia ti giuro non sono stato io.»
  «E… e chi allora?»
  «Lo ignoro amico mio… lo ignoro».

  Rimaniamo svegli fino alle quattro del mattino. Gli occhi spalancati. Per non addormentarci decidiamo di fumare non hashish ma marijuana, per tenerci vigili, nonostante ogni tanto ci prendano attacchi di ridarella. Nervosa però.
  La notte impietosa avvolge la stanza. Fermi, parlando del più e del meno ma soprattutto di ricette a base di curry non giochiamo neanche alla Play. Simone sbadiglia e in un attimo si addormenta. “Forse”, penso, “siamo solo dei flescioni. Non è che non ci sono mai capitate cose strane a noi due. Sarà ‘sta postadolescenza che non vuole finire. La scomparsa dei valori. Il precariato. Già mi immagino a sessant’anni a vivere sotto ai ponti e a litigare con Simone su chi c’ha il cartone più fico, ingurgitando Tavernello. Il Tavernello Cristo. Il Tavernello! E il barattolo di curry. Ce lo porteremo sempre con noi. Il barattolo di curry è vivo. Ogni cosa è viva…”
  E mentre faccio ‘sti pensieri profondi e il sonno prende il sopravvento alle quattro e uno precise la luce va via e il buio avvolge ogni cosa, spesso come il burro.
  Un suono.
  Poi un altro.
Rimango immobile, pietrificato dalla paura.
  Troppe canne cazzo. Devo smettere.
Passi.
  No no. Qui c’è qualcuno. «Simone», sussurro. «Sveglia…»
  «Hmmm».
Il nero mi circonda. Immobile sul divano non oso respirare. La lacrima di sudore nasce veloce dalla fronte. Il cuore scoppia.
  Sempre più vicino.
  È dietro di me.
  Sento il suo respiro.
Una lingua sconosciuta.
  Do uno strattone al coinquilino.
Mi volto di scatto ma non vedo niente. Un vetro si infrange.
  Simone spalanca gli occhi.
  Torna la luce.
Corro in cucina. Il barattolo di curry è nel frigorifero.

Due giorni prima
  Non abbiamo chiuso occhio per tutta la notte.
  «Io lo butto», mi fa Simone.
  «Fuori?»
  «Sì, fuori. nell’indifferenziata. ‘Sto cazzo di curry maledetto. Come ci vado al lavoro che sto tutto rincoglionito?»
  «Forse… facciamo una canna prima? Ci sveglia. Credo.»
  «Elia, diventa adulto una volta per tutte. Ti pare che prima di andare a lavorare fumiamo? Prima il caffè cazzo. Non mi far diventar scurrile.»
  «Okay. Io faccio il caffè. Tu la canna. Io poi vado al bagno. Sempre che il pinguino me lo consenta.»

  Simone ha gettato il barattolo fuori, nell’immondizia. Mi aggiro per la città come uno zombie. Cammino piano, storto, la marijuana che non mi lascia tregua.
IL CRICETO: Ecco sta andando in paranoia.
BATMAN: Già già. Guardate un po’ le pareti come cambiano colore.
GIACOMO LEOPARDI (che ha sempre la faccia di Elio Germano): E’ vero. E chi ha attaccato quei poster al muro? Con tutti barattoli di curry e fantasmi e cimiteri?
IL CRICETO: Pensavamo fossi stato tu. Sai no? La depressione…
FEDERICO MOCCIA: Qui manca amore. L’amore è quei messaggi che non vogliono dire niente ma che dicono tutto.
GRANDE PUFFO: Ecco, i Baci Perugina ci mancavano. Facciamo riprendere Elia, mi ci metto io al joypad.
  Una botta di adrenalina mi colpisce improvvisa. Pensa positivo, pensa positivo. Simone ha buttato il barattolo, storia finita. Chiusa. Non c’è più niente da temere. Quindi su, entro al lavoro e lavoro. Da bravo impiegato. Ecco. Ci sono. Saluto due colleghi, accendo il computer e mi connetto a Facebook. Che mi concentra, le foto dei gattini soprattutto. Timbro tre ricevute e il gioco è fatto. Non corro in bagno a farmi un pisolino e non sogno di essere imprigionato dentro un barattolo gigante. No. E se lo faccio non me ne rendo conto. Perfetto.
  A casa entro spavaldo, nonostante il sonno mi stia distruggendo. Ho voglia di bere una birra gelata, così apro il frigorifero felice. E lo vedo. Il barattolo di curry è lì.
  Mi fiondo in bagno. «Pinguino!», dico, «Hai visto niente?»
Il pinguino abbassa la testa desolato. Amico pinguino, se solo capissi la tua lingua… il nostro rapporto sarebbe più facile. Potremmo anche diventare confidenti…
  Un suono dalla cucina.
  Il frigorifero giallo è aperto.

  «Dobbiamo far qualcosa», dico a Simone.
  «Per una volta mi trovi perfettamente d’accordo. Non possiamo andare avanti così. Io non sono stato. Tu neanche… giusto?»
  «Giusto.»
  «Il pinguino qua pare innocente…»
Il pinguino fa sì con la testa.
  «Siamo finiti. La soluzione più logica è…»
  «Non lo dire.»
  «Siamo uomini di scienza noi. Razionali. Usiamo la logica. Crediamo nella forza di gravità».
  «E sappiamo che la terra non è piatta, nonostante alle volte ‘sta cosa non mi sembri così logica…»
  «Infatti. Neanche a me. D’altra parte non siamo neanche sicuri che l’uomo sia andato sulla luna.»
  «Hmmm. E vogliamo parlare delle scie chimiche?»
Il pinguino annuisce perplesso.
  «E della maledizione del 27?»
  «Come se Jim Morrison fosse morto davvero…»
  «O Kurt Cobain…»
  «O Janis Joplin…»
  «Uomini di scienza, giusto.»
  «E quindi?»
  «L’unica soluzione logica a tutto ‘sto casino è una. Abbiamo la casa infestata dai fantasmi. Sicuro.»

  Bussiamo alla nostra vicina. «Lola ti prego», diciamo in coro, «aiutaci!»
  «Che succede ragazzi?»
Ci guardiamo intorno, guardinghi entriamo nell’appartamento, senza chiedere il permesso. Simone scruta dalla finestra che nessuno ci spii, poi abbassa le tapparelle. Io faccio segno a Lola di rimanere in silenzio. Guardo in alto e in basso, alla ricerca di microspie. Dopo un’accurata perlustrazione della casa ci sediamo sul divano.
  «Che c’è?»
  «Potremmo essere controllati. Sai gli americani no? Mulder & Scully? L’FBI, l’Area 51, gli X-Files…»
  «È tutta roba vera Lola! È tutto vero! Per anni ci hanno fatto credere che esistesse un solo mondo, il nostro… tutto ciò che viene catalogato come soprannaturale è relegato nella sfera del fantastico, dei fumetti e dei film… Non è così! Sono tra noi!»
  «Questo materialismo che ha colpito l’occidente… dove ci porterà?»
  «Ma chi? Chi è tra noi? Gli… gli alieni…?»
  «Non essere ridicola Lola. Cresci. I fantasmi!»

  Bussano.
Apriamo piano, la porta emette uno screeek sommesso, inquietante.
  Abbiamo preparato tutto: tavolo tondo, candele, un panino prosciutto e formaggio (il prosciutto è di Simone, lo dico agli amici vegetariani oltranzisti).
  La vecchia ci guarda corrugando la fronte. È bassa, lunghi capelli bianchi le cadono sulle spalle. Due baffetti spuntano permalosi poco sopra le labbra. Ci guarda e una strana luce bianca le si disegna sugli occhi.
  «È questa la casa?», ci fa.
  «Sì…»
  «Portatemi da lui.»
Sorreggiamo la signora per le braccia, Lola ci segue da dietro.
  «Quando Lola mi ha chiamato», bisbiglia la vecchia, «non potevo credere alle mie orecchie. Il Misterioso Caso Del Barattolo Che Ritorna è… come dite voi giovani? Un grande classico. Alle volte c’è del sale, altre dello zucchero, altre ancora del peperoncino. A voi è toccato il curry. Avete svegliato antiche divinità hindu».
  «Ma il tipo che me l’ha venduto è bengalese… non indiano. In Bangladesh sono tutti musulmani… però riflettendo c’aveva le statuette di Ganesh».
  «Silenzio stolto!»
  «Scusi signora vecchia, mi scusi.»
La donna si ferma davanti al mio vecchio frigorifero giallo, lo apre con dita ossute. Il barattolo di curry è lì. «Prendetelo».
  «Noi? Lo faccia lei mi scusi, è lei la medium».
  «Non posso. Avverto una potente energia sprigionarsi dal suo interno. Se lo facessi l’intero palazzo esploderebbe.»
MAESTRO YODA: Ascoltare lei dobbiamo. La salvezza del mondo da noi dipende.
  «Mi scusi signora vecchia. Lo prende Simone.»
Il coinquilino afferra il barattolo tremando e lo porta sul tavolo tondo, perfettamente al centro.
  Ci sediamo in circolo e allunghiamo le mani, creando un cerchio con le dita perfetto. Poi chiudiamo gli occhi.
  «Aho», dico, «non succede niente.»
  «Shhh», mi fa Lola.
Passano i secondi.
GRANDE PUFFO: Che noia cazzo. E sì che abbiamo sempre desiderato fare una seduta spiritica, ché volevamo parlare con Gengis Khan noialtri. È tutta la vita che aspettiamo ‘sto momento. Però a saperlo che era una roba così lenta… dove sono i tavolini che si alzano? La vecchia che prende fuoco e le pareti che tremano? Dobbiamo per caso credere che tutto ciò che ci ha insegnato Dylan Dog al riguardo sia un falso?
  Il tavolo si muove.
  «Oh!», dico.
 «Scusate, colpa mia, ho la gamba che mi trema…», si giustifica Simone.
La vecchia ha un fremito. «Lo sento!», urla. «Lo sento!». Poi inarca la testa indietro 
e quando la riporta verso di noi i suoi occhi sono mutati. «Umani», dice con 
voce cavernosa, «avete risvegliato il sacro spirito di Kali -काली- siete perduti!»
  «L’aveva detto che era una roba hindu. Tutta colpa tua Elia», mi rimprovera Simone.
  «Zitto, ma non lo vedi che c’abbiamo ‘na divinità in casa?»
  «Ehi, ma che è Kali quella?», mi fa Ganesh.
  «Era un pò che non ti si vedeva. Dici che è lei?»
  «Ne dubito. Troppo anziana, fisicamente dico. E poi guarda questa signora come si agita. 
Kali divora i corpi, non si agita. Se si fosse impossessata davvero della tizia a 
quest’ora la donna sarebbe morta. Diffida Elia, diffida.»
  La vecchia ha un conato improvviso, poi si lancia sul muro e comincia a ballare come 
un’ossessa.
  «Questa è pazza», bofonchia Simone. «Che ne dici se ce la risolviamo da noi?»
Annuisco, osservando la donna che si strappa le vesti.
 
Un giorno prima
  Okay. Che ci siano i fantasmi non c’è dubbio. Ormai ci siamo fissati su ‘sta cosa e 
niente e nessuno ce la toglierà dalla testa.
  Dobbiamo difendere il fortino, quindi abbiamo deciso di riempire la casa 
di: croci, aglio (per sicurezza, dovesse essere un vampiro), sale, oggetti appuntiti 
vicino alle finestre, un dente di iena appeso al collo, incensi.
  Rimaniamo in silenzio, in attesa, il barattolo di curry gettato per l’ennesima volta.
  Scorre…
  Un’ora.
  Due.
  Tre.
Simone si guarda intorno, sbadiglia.
Faccio lo stesso, la tuta integrale da Ghostbusters a coprirmi il corpo magro.
  D’improvviso la luce va via.
Ronzii ovunque.
  Inciampando corriamo in cucina. Dobbiamo vedere, sapere. Scatto a destra seguendo il 
corridoio.
  Mi volto. «S… Simone…?», sussurro.
Non c’è.
  «Simone!»
La milza scoppia. 
  Una lingua oscura, misteriosa.
Mi spingono.
  Inciampo. Sono a terra.
Strusciando cerco di raggiungere la cucina ma il corridoio sembra allungarsi.
  Piango.
Eccomi.
  Ci… ci sono.
Dentro.
  Un’ombra immensa, gigantesca, mi è addosso.
Non ha viso. Non ha occhi.
  Poi scompare, così come è apparsa.
Torna la luce. 
Apro il frigo. Il barattolo di curry è lì.
 
  Simone lo trovo steso sul divano, mezzo svenuto. Quando si riprende decidiamo 
che no, non si può andare avanti così.
  «Chiamare le guardie è inutile».
  «Qui c’abbiamo a che fare con gli spiriti maligni, mica no.»
PIERO ANGELA: L’adorato dovrebbe ragionare.
IMMANUEL KANT: Riflettere per caso sul senso dell’esistenza?
KARL MARX: Sulla lotta come unico scopo di vita?
GRANDE PUFFO: Sulla vittoria di Donald Trump?
PIERO ANGELA: No amici miei. Sull’origine del barattolo.
  «Ho trovato!», dico, «Andremo a Piazza Vittorio, a parlare col tizio che m’ha venduto 
il curry maledetto!»
 
Oggi
  Entriamo piano, vestiti di nero, i caschi integrali allacciati alla cintura dei 
pantaloni, gli occhiali da sole stile Matrix, lo sguardo da duri, la cicca in bocca.
  «Ehi», starnutisce Simone. «Socio. Dico a te».
L’uomo alla cassa si gira. «Salve».
  «C’abbiamo Kali in casa. E la colpa è tua».
  «Mia?»
  «Sì. Solo tua».
GRANDE PUFFO: Stringete la visuale, abbassategli la bocca, spingete gli occhi 
in giù, rendete la voce cavernosa, come se c’avesse un microfono! 
Muovete quella cazzo di faccia di Elia cazzo! Chi è che sta ai comandi?
YOGI BHAJAN: Superstellino, come al solito.
GRANDE PUFFO: A noi ci serve uno duro, forte, che incuta timore!
SERGENTE HARTMAN: Ce l’ho ce l’ho!
CHARLES BRONSON: Ci penso io figlioli.
  «Amico, non te lo ripeterò due volte», faccio al tizio, lo sguardo 
cattivo, «mi hai venduto il barattolo di curry maledetto. Dove l’hai preso? 
Parla! In un santuario sconosciuto del Nepal? L’hai rubato ad una 
qualche divinità? Tipo una di quelle cose che non si possono prendere e 
tu l’hai presa lo stesso senza leggere le istruzioni? Non sapevi come 
disfartene eh? E l’hai venduta a me! Più veloce di Lara Croft maledetto. 
Come quell’isoletta thailandese che se ti porti via un sasso sei fottuto per 
sempre, co’ tutta la sfiga che ti segue ovunque tu vada. Hai liberato un 
mostro! Parla maledetto parla! Dove hai preso il barattolo!?!»
  «Io… ho uno stock intero di quelle cose… guardate…», il venditore ci 
porta nello sgabuzzino. Decine di barattoli di curry sono posati a terra. 
  «No», geme Simone.
  «Me li fornisce una ditta indiana. Ma nessuno ha mai avuto problemi. Forse 
un’indigestione?»
 
Notte
  Immobile.
  Fermo.
  La gamba ha un fremito.
Simone rimane lì, gli occhi puntati sul frigorifero.
  Poi un suono.
Mi alzo.
La milza scoppia.
  «Non lo fare», mi implora il coinquilino.
È troppo tardi.
  Apro il vecchio frigorifero giallo.
Il curry è lì.
  «Sta… sta arrivando».
La finestra si spalanca, una folata di vento ci ghiaccia di colpo.
  Il freddo cala improvviso.
Il dente di iena vibra.
  La luce va via.
Soli guardiamo il buio.
  Questa volta è la fine.
Dalla mia camera, suoni oscuri.
  L’anta dell’armadio sbatte, la sento indistintamente.
Ronzii.
  Poi.
  Un silenzio improvviso.
  Che taglia le vene.
Simone mi tocca la spalla. «Che… che cazzo Elia. Ti voglio bene. E’ stato bello averti come coinquilino.»
  Non  ho salutato mia mamma.
  Non ho salutato mio papà.
Di nuovo, la luce. A intermittenza questa volta.
  Lunghe ombre si disegnano sui muri. Esseri spettrali, alati, immensi. Braccia che sembrano… zampe.
  Un vestito vola nell’aria.
I cassetti sbattono.
  Non c’è più speranza.
  Morirò così.
Lacrime salate mi rigano il viso.
  Il corpo intero trema.
Con la coda dell’occhio la vedo, l’ombra immensa scagliarsi su Simone.
  «Attento!», avrei voluto urlare. Ma è troppo tardi.
Il mio amico è a terra, privo di sensi.
  Pietrificato sento il ronzio dietro di me.
Una mano mi tocca.
  Non mi volterò. Non farò come nei film americani. Accetterò la morte così.
  L’ombra adesso mi è davanti. Apro gli occhi.
E le vedo. Centinaia di tarme a formare un corpo umano. E al centro di tutto, 
all’altezza del terzo occhio, Tarlo fa il suo ingresso. «», mi fa.
  «Cazzo».
  «你好嗎».
  «M’hai fatto prendere un colpo. Sei tu Cristo. Dietro a tutta ‘sta storia ci sei 
tu? E sì che di vestiti e legno da sgranocchiare ve ne ho dati. Da quella volta 
dei saldi di cose da mangiare ne avete avute…»
GRANDE PUFFO: E noi che ci puffavamo i fantasmi, gli spiriti maligni, la dea Kali e la 
fine del mondo.
BATMAN: Mentre qui sono solo i tarli intelligenti che vogliono conquistare il pianeta…
SIGMUND FREUD: E le terme…
BATMAN: E le terme.
MATRO LINDO: L’avevo detto io di pulire, a tenere tutti ‘sti animali in casa.
  «愚蠢的».
  «No davvero guarda m’è preso un colpo. Non ci capisco un cazzo quando 
parli in cinese. Lo sai. Ganesh, vieni un po’ qua a tradurre».
  «Ciao Tarlo, che ci fate qui?», chiede Ganesh.
Tradotto dal cinese: «‘E’ tanto tempo, Elia Mangiaboschi, che viviamo nel 
tuo armadio. Nutrendoci di ogni cosa. Un tacito accordo tra noi e te è 
stato stipulato. Oggi però bramiamo di più. Il più fiero dei nostri esploratori 
ha scoperto il curry nel secchio dell’immondizia della vostra umile 
(e pessima) dimora. Ricordi la guerra tra vermi e umani che tempo 
fa rischiò di scoppiare all’interno del palazzo?’»
  «Come dimenticarla».
  «‘Decidemmo di non intervenire, nonostante i nostri guerrieri fossero 
pronti a combattere a fianco dei valorosi vermi. Ma noi, come ben 
saprai, non abbiamo dio e non perdoniamo. Noi, Elia Mangiaboschi, 
osserviamo ogni tua azione, qualunque movimento. Siamo i veri padroni 
della casa e bramiamo la conquista del mondo. Gli altri animali, come il 
pinguino che tenete nel vostro bagno, sono troppo mansueti, nonostante 
siano stati mandati qui dentro per una ragione specifica. Noi non abbiamo 
capi. Sappi quindi che il barattolo di curry è nostro’.»
  «Ve… ve lo lasciamo volentieri. A noi c’ha fatto pure schifo, a dirla tutta. 
Diglielo un po’ Ganesh, fagli presente ‘sto particolare a mister-so-tutto-io qui.»
  «‘Adoriamo la pomata di curry, così dolce se spalmata sui vestiti. Così saporita 
quando incontra il gusto del legno. Quel che ci procura beh, è impossibile da 
descrivere. Visioni di mondi celestiali! Una forza incredibile e un’intelligenza 
sopraffina! Con le buone, ogni volta che avete provato a buttare il barattolo, l’abbiamo 
riposto in frigorifero. Ma inutilmente! L’avete gettato via ancora e ancora e ancora! 
Questo non possiamo tollerarlo!’»
CARL GUSTAV JUNG: Ma ‘na disinfestazioncina no eh?
SIGMUND FREUD: Zitto scemo, se questi ci sentono ci ammazzano. Sai che sono 
dotati di poteri psichici formidabili…
  «E quindi scusa Tarlo, che dovremmo fare?»
  «‘La crema di curry si mantiene bene in frigorifero. Altrimenti va a male e se va a male 
fa schifo e se fa schifo noi non la mangiamo e se noi non la mangiamo voi morite. Quindi, 
quel che vogliamo da te e dal tuo infimo amico, è che lasciate sempre il barattolo in frigo. 
Sempre. E quando finisce, Elia Mangiaboschi, devi comprarcene un altro. Avanti così, 
fino alla fine dei tempi. Seguendo i nostri consigli non ti succederà niente, altrimenti…’»
  «Okay. Ho capito. Potevate dirlo subito però…»
  «‘Potevamo certo, ma ci piace spaventarvi’».
  «E con Simone, mo che gli dico?»
  «‘Non devi preoccuparti per lui. I nostri medici stanno già lavorando. Ecco, osserva. 
Uno di noi si sta per sacrificare. Il bene della collettività supera ogni cosa. Osserva 
come l’audace entra nella bocca del tuo coinquilino. Vedi? Ingoiandolo Simone 
dimenticherà ogni cosa’».
  «Che schifo cazzo.»
  «‘Ma tu no, Elia Mangiaboschi, ricorda il nostro patto. Se vuoi vivere’». Detto questo 
Tarlo e le fameliche tarme volano via, verso il mio armadio (che cambierò al più presto).
  «Insomma Ganesh, che ne pensi?»
  «Credo sia saggio far quel che ci ha ordinato il piccoletto.»
Prendo il barattolo di curry e lo osservo, la luce del primo sole ad illuminare gli 
ingredienti. Poi lo ripongo nel frigorifero, stando bene attento a non rovinarlo.
  Guardo Simone attentamente, lo distendo sul divano e me ne vado a dormire.
 
Nell’armadio
  «‘Ah!’», gioisce Tarlo, «‘Lo stupido uomo c’è cascato!’»
  «‘Mio signore’».
  «‘Dimmi’».
  «‘L’arma batteriologica è quasi pronta. Manca poco ormai’».
  «‘Tarli e tarme uniti conquisteranno il palazzo! Dove sono falliti i vermi noi vinceremo!’»
Milioni di visi sorridono maligni, i denti acuminati e gli occhi scintillanti. Un ronzio veloce 
a sigillare il patto di fratellanza.
  Tarlo si affaccia dall’armadio ad osservare il corpo inerme di Elia, poi sorride. «‘Oggi il 
palazzo, domani il mondo!’», urla chiudendosi nel buio del legno. 

Se ti interessa la strepitosa guerra tra uomini e vermi clicca qui:
http://eliamangiaboschi.blogspot.it/2015/12/il-pandoro-allucinogeno.html

Il prossimo raccontino esce martedì 13 dicembre...