martedì 29 aprile 2014

UNA STORIA SENZA SENSO



                     L’uomo MDMA abbraccia l’amico sensibile.
                     Seduti in cerchio quattro giovani si baciano felici.
Mi sento euforico elettrico e.
  Il trip. Lo avverto potente.
Ballo e mimo, le mie mani! Mani?
Un tutt’uno certo con la musica...
         La Festa, Signori.
         Incessante    e   continua   e    speed
         bianca  e   rosa.  Per   stare  sveglio,
         ovvio.
                  E poi?
                          Boh.  Non   ricordo. Cosa? Quello che stavo dicendo.
  Non. Posso. Stare. Fermo.
Sono belli belli belli i rave al Nido. Cinque llluuunnnggghhhiii giorni di MUSICA!
  Una ragazza balla  sensuale  e azzurra.
  Avrei voglia. Di conoscere una ragazza.
Certo, un trip
Quello che…
Era meglio un prato, non è il posto più giusto. Ma che importanza ha adesso?
  Star Trek. Spock in persona me le  ha  donate. Grazie al mio facciotto, hai un'espressione simpatica.
COSA?
            Va   bene,  sediamoci. Non   c’è   problema.  Farà
            bene anche a me.
            Come ti senti? Ti trovi a tuo   agio? Dal viso  non
            si  direbbe… bianco, sei  bianco  come  un… e  i
            tuoi occhi, due palle…
COSA?
            Sì. Certo, è bellissima.
            Però, che occhio. Da solo non l’avrei mai notata.
            Il mondo  è  fatto di  distrazioni. La  musica, per
            esempio. Fluttua. Respira. Gravita.
Fate elettriche.
  Comodo nel basso vedo tutto da una diversa angolazione e visi sbiaditi e voci rauche
  Un'altra botta?
Ma io voglio conoscere gente nuova!
Voglio una donna!
Ho BISOGNO di dialogare!
  Acchitto l’ennesima striscia di base e via! Veloce e detersivo nuova formula ancora più conveniente!
                                                             La testa, amici, è gonfia.
                                       Gonfia? Chiese il bambino alla nonnina
               Sì sì sì ma occhio che il nasino ti sanguina un pochino.
SU!
IN PIEDI!
SCATTARE!
E vai uno due tre e su la testa e giù un braccio di fretta ma attento io non mi sfilaccio
                                        Va  bene, la  smetto. Come vuoi tu, sto
                                         zitto………………….
Posso ballare almeno?
Stendiamo un velo pietoso e guardiamo con occhi sconsolati questo povero tossico. Tossico? Certo, ti piacerebbe danzare così. Basta che muovi un pochino di più il culetto… agitalo Cristo! E guarda, che fai lì imbambolato? Le braccia! Te lo avrò detto mille volte! Raccogli l’aria, impugna gli oggetti del tuo cervello malato. COSTRUISCI!
Cervello malato
Vorrei sedermi. Un attimino. Che il trip si sente.
Dove?
Lì, vicino a quella ragazza.
Tanto lo so cosa dirai alla fine:
Questa è una storia senza senso
Con chi diavolo sto…?
Fumo la mia ultima sigaretta. Come farò tutta la sera?
NO
E’ già mattina
  Oooh, ascolta gli uccellini fischiettare
  E’ impossibile. Dal momento che sto dentro una fabbrica.
                                                              Grigia e con i vetri rotti
                     Devo bere.
       Acqua, dolce acqua
        sapore neutro della
                                vita.
       COSA?
                         Non c’è
                           acqua?
              No. Solo birra.
         Sarà la ventesima
                      che bevo.
                        Va bene.
        Vada  per la  birra.
Cammino con passi incerti e vado a risedermi dove stavo prima. Vicino alla ragazza.
Bellissima e con gli occhi azzurri (credo).
  «Ciao», le dico sorridendo.
  «Ciao», risponde.
  «Come ti chiami?»
  «Sveva».
E mi sono innamorato.
Cupido, balordo e sornione, scocca le sue frecce nei posti più insensati. Un rave, ad esempio.
E tu.
Niente, ne rimani semplicemente affascinato
E sei solo. Solo con lei.
Il resto? Beh, il resto scompare.
  Il suo nome ti manda in estasi.
  La sua bocca rossa e screpolata ti colpisce a fondo.
  I suoi occhi ammaliatori e dalle grandi pupille ti rapiscono.        
Come batte forte il cuore pazzo d’amore
                                            Devo trovare qualcosa di cui parlare.
Che musica ascolti? No no no no troppo banale.
  Ma certo! Qui, in questa fabbrica.
                                                           Suoni elettrici lontani
  Ho già tutto il discorsetto pronto nella capoccia. Gli parlerò del lavoro (sono bravo a lamentarmi), della mia passione per la lettura e della chitarra. Grande mania fin da quando ero piccolo. Io non suono la chitarra.
Basta pronunciare la domanda. Non ci vuole molto.
Lei mi risponderà qualcosa di bellissimo e incredibile e poi ci sposeremo. Lo vorrà un figlio? Spero di sì se no iniziamo subito a litigare e non mi pare proprio un figlio, cioè. Non mi pare proprio il caso. Come lo chiamiamo? A me piacerebbe Leopoldo.
Stop.
  «E che fai nella vita?», le chiedo.
  «Vedo gente», dice persa.

martedì 22 aprile 2014

CICATRICI



  Quel che mi è successo un paio di giorni fa.
  Quel che mi è successo un paio di giorni fa ha, lo giuro, dell’incredibile. Quindi, Amici & Amiche, ve lo racconto. Ché ultimamente succedono tutte a me.
  Okay, ecco la storia.
Cammino tranquillo per le vie del centro, precisamente Piazza Bologna, che qualcuno dirà che non è centro centro ma vi assicuro che, per uno che abita a Trigoria, è centro centro. ‘Nsomma, cammino, un passo dietro l’altro, un pochino a papera -i piedi dico- e guardo le vetrine e guardo pure le persone. Mi piace guardare le persone, gli uomini dal passo spedito, la ventiquattrore in mano; le donne attempate, un pochino rugose; i bambini pancioni con il gelato vaniglia e caramello che sgocciola sul cemento. Mi piace esaminare, osservare, studiare. Mi piace la puzza di smog, l’odore superstite della primavera, i profumi del forno. Adoro girare insomma, con la sigaretta in bocca e gli occhiali da sole. Così non mi vedono che li guardo. Oh sì, perché io osservo tutti, io osservo tutto. Per questo prendo la metro. Per osservare. Ma quel che sto per raccontarvi non avviene nel vagone puzzolente della metropolitana, no. Avviene in strada. È la più bella giornata di sole dal cambio di stagione, i pappagalli romani volano nell’aria e i piccioni aspettano la mollica di pane, non c’è uno sprazzo di nuvola e il cielo è di un blu che ti lascia allibito. Cammino e i pensieri vagano assieme ai neuroni. Cammino e guardo e nessuno fa caso a me. Nessuno tranne Lui. Lui mi scruta, come io scruto loro. Lui mi segue, di nascosto, appollaiato tra i muri incatramati. Lui mi fissa, lo sguardo perso. È una presenza oscura che si annida lungo le automobili parcheggiate. Si nasconde guardingo senza essere visto. Potrebbe essere invisibile. Potrebbe non avere denti, occhi, viso, braccia e gambe. Potrebbe. Lui mi spia. Forse qualcosa nella mia testa frulla, ma è più al livello, come dire, inconscio.
  È il vento a cambiare la mia percezione, a farmi spengere la sigaretta. È come se di colpo ogni cosa rallentasse, come quando fai un incidente e tutto, tutto, scorre più lento. Dura un attimo certo, ma in quell’attimo io so che qualcosa di strano sta per succedere.
  Attraverso la strada.
Mi volto.
Lui è lì.
  Lo guardo.
  Mi guarda.
Affretto il passo.
Affretta il passo.
Il cuore è il primo ad accelerare.
  “Stupido”, penso.
Però la paura la sento. Irrazionale, ma la sento.
  Ancora di più.
I piedi adesso atterrano veloci.
  Imbocco la via laterale, quella vicino al parco.
È dietro di me.
  Corro.
  E lui corre.
Entro al bar, mi volto. Aspetto. Dieci minuti forse. Mi faccio coraggio ed esco. Lui è ancora lì, davanti ai negozi. Ha un impermeabile scuro e una cravatta rossa. Il viso è magro, asciutto e gli occhi sono neri come la notte; ha dita lunghe e affusolate, scheletriche. Trema un pochino. Mi mostra i denti e corre.
  Una passo indietro.
Mi è addosso, più veloce della luce.
  «Prendimi la mano», dice con voce rotta.
Mi morde sul braccio. Stringe i denti e affonda.
  Urlo. Un grido forte, sovraumano.
Li sento.
Li sento i canini che s’immergono sulla carne viva, nuda. Li sento scendere in profondità e continuare continuare continuare.
  Non si toglie. Morde e stringe gli occhi. Calcio. Il dolore è forte e il sangue comincia a sgorgare dalla pelle.
  «LASCIAMI!», provo a urlare.
Niente.
Lui affonda.
  «STACCATI PEZZO DIMMERDA!»
Lo colpisco una volta con un cazzotto ben assestato. Ma non sono forte. Non io. Non io che non ho mai fatto a botte.
  «Smettila ti prego ti prego ti prego».
  Ancora.
  Più giù.
Attorno le persone guardano allibite, una bambina sorride.
  Ogni cosa. È lenta.
Il dolore mi assale, una fitta che parte dal braccio destro, si protrae su tutto il corpo e sale lungo il cervello, divaricandosi in mille arterie luminose.
  Aiuto.
Lo guardo negli occhi, due enormi cavità nere, impenetrabili.
  Devo togliermelo di dosso. Lo devo staccare, quest’uomo che sembra un cane, no, non un cane, un lupo. Una Bestia feroce che vuole mangiarmi.
  Con la mano sinistra afferro la sua fronte e la tiro indietro, con il braccio destro premo verso di me. Sento la carne strapparsi, i denti scivolare sulla pelle fresca.
  Prova a saltarmi addosso di nuovo, ma viene bloccato da quattro passanti. Scalcia e urla, urla e scalcia.
  Cado indietro, un tonfo orribile. Mi guardo il braccio, la ferita aperta, gonfia, il segno perfetto della dentatura, le chiazze rosse e nere, violacee.
Ogni cosa è lenta, immobile.
Il braccio pulsa.
Gli occhi si riempiono di lacrime.
  La polizia in divisa ferma l’uomo, l’ambulanza a sirene spianate accorre in ritardo.
  Lui mi osserva e sorride. «Guardati le spalle, sempre», balbetta.
Poi viene portato via, legato per bene, i denti aperti, il ringhio perfetto.
  Mi chiedono se ho bisogno di cure.
  Io non parlo.
La paranoia di essermi beccato qualcosa sempre più forte.
Mi rassicurano. Mi portano via.
  Ho un braccio tumefatto.



sabato 19 aprile 2014

IL DENTISTA



  C’è una stanza. Nella stanza c’è un comodino con due riviste, una sedia rossa, delle pareti verde ospedale, un tappeto e tre luci troppo forti.
  Aspetto.
Il dolore è forte, acuto, cattivo. Parte dal dente e si protrae su tutta la bocca. Scende giù, lungo la gola, e risale pulsando.
  È una carie. Una maledetta carie nera.
La sento  -ti sento!- muoversi di notte, quando bevo il sorso d’acqua gelata, la sento -ti sento!- gioire mentre addento il panino, la sento -ti sento!- pulsare infame ogni volta che lecco un gelato.
È lei, è la carie.
Ti odio.
La Signorina della reception mi guarda un attimo. È magra e ha una tutina verde, aderente, che le evidenzia un po’ le forme. Un po’, non troppo.
Apro la rivista di Moda & Casa. Va di moda il minimalismo minimale. Sfoglio. Aspetto.
  «Prego, Signor Mangiaboschi. Mi segua».
Mi alzo facendo scricchiolare la sedia rossa. Non sorrido a nessuno, non c’è nessuno.
  Musica da camera.
Supero stanze.
Tre porte.
Passi lenti.
Sbircio.
C’è un uomo sdraiato, la bocca spalancata da due molle, gli occhi rossi, disperati. Mugugna. Il dentista lo guarda un attimo, poi si china, la lama affilata sulla gengiva malandata.
  Odore di disinfettante.
Tremo.
Odio venire qui ma c’ho ‘na malattia del cazzo e ogni tanto mi tocca starci. Cioè, venirci.
  «Arrivati».
Mi sdraio. Il lettino è bianco, puro, candido. Provo a rilassarmi.
  Inspira-Espira
  Inspira-Espira.
Bravo.
Una
Due
Tre
Quattro
Cinque
Una due tre quattro cinque dita. Contrai la mano. Stringi.
  La luce si accende e mi punta. Non vedo niente. Il cuore martella contro il petto, si fa largo sbattendo tra la carne.
  Eccolo, il dentista, l’allegro chirurgo della bocca. Il cinico strappa denti. Inforca gli occhiali di plastica, mette la mascherina nera e mi scruta, in silenzio.
  «Lei», comincia, «non si lava i denti».
L’assistente annuisce.
  «Li lavo», provo a protestare.
  «Signor Mangiaboschi vede, la bocca è tutto. la bocca è e-ssen-zia-le. Me lo lasci dire, la sua fa schifo. Apra.»
Guardo gli attrezzi del mestiere posizionati davanti ai miei occhi. Il sadismo dei dentisti, farti vedere gli attrezzi che usano. Apro la bocca.
  «Divaricatore. Signor mangia boschi, mi deprime. Dovrebbe presentarsi ogni tre mesi. Dovrei vederla, lei dovrebbe… correre. E invece. Ecco qua, il risultato della sua, come dire, negligenza. Una carie. I suoi denti fanno schifo. Siringa.»
  Un infarto. La milza scoppia. Il braccio sinistro comincia a formicolare. Cazzo qui dentro ci muoio.
  Al dente malato vengono applicati due cerchietti di ferro. L’assistente passa gli attrezzi.
  «Guardi, le faccio vedere. Osservi».
Il mio dente compare nel maxischermo.
  «Morto. O quasi».
Lacrimo.
IL DENTE E’ MORTO! LUNGA VITA AL DENTE!
  «Possiamo salvarlo, forse. Ma lei Mangiaboschi non usa il filo interdentale! Ah, voi giovani, pensate che tutto vi sia dovuto, credete nell’immortalità. Ma vede, l’essere umano è come il dente, prima o poi cade. Trapano.»
E lo fa. Nel silenzio della sala l’unica cosa che si avverte è il suono del trapano sul mio dente, il fischio prepotente, la dentatura intera che vibra, le gengive che lacrimano sangue.
  «Beva», ordina l’assistente.
Odore di bruciato.
  Bevo.
Di nuovo. Il dentista mi osserva in silenzio. Trapana. Trapana trapana trapana.
  Io non sento più niente, non avverto più niente. vado via, in un mondo tutto mio. Mi rifugio nel suono, conforto nella monotonia. Io sono Nulla. Seguo i colori del cielo, spio dalla finestra, dai vetri sporchi, il pappagallo che vola nell’aria.
  Sapore di sangue.
  Chiudo gli occhi.
Sento ridere.
Ridono tutti.
Rido anche io.
Vorrei
parlare.
Ma non posso muovermi.
Bloccato dalla testa ai piedi.
  «Tocchi», mi incita il dentista, «tocchi con la lingua».
Eseguo senza riflettere, la punta della lingua a tastare il buco nero, profondo, senza fine. Se spingessi ancora un poco potrei sfiorare la gengiva, la carne viva. Sarei libero di vagare per le vie della bocca, alla ricerca della perfezione. E invece… invece il dentista ha fretta di richiudere il buco.
  Nidi di scarafaggi. Case di smalto. Microbi d’ovatta.
A me l’anestesia mi fa.
Schifo.
A chi la vuoi dare a bere. Adori l’anestesia.
  Hmmm.
  «Che colore preferisce?»
Posso scegliere tra mille tonalità di bianco. Bianco ovatta, bianco sporco, bianco neve.
  Cerco di immaginare il mio dente con il nuovo colore. Scelgo.
Vengo aggiustato, piano piano, e il sangue imbratta il pavimento, impuzzolentisce i camici, divide i corpi.
  Cristo che male.
  Volevo l’anestesia.
Mi alzo.
Zoppico.
Non dovrei zoppicare.
Stringo la mano al dottore. Guanti in lattice. Saluto tutti. Pago. Mi volto un attimo, a guardare il bambino con gli occhi sbarrati e le mani strette attorno a quelle del padre. Sorrido. E dalla bocca sgorgano litri di bava.