martedì 22 marzo 2016

LA STORIA DEL SIGNOR PAOLO



  Casa di nonna Concetta e nonno Mario si trova a Magliana. E’ da quando sono arrivati a Roma che vivono in borgata e la borgata, in fondo, gli è sempre piaciuta. Mia nonna, che è una strega, prepara ancora le sue prodigiose pozioni e nel quartiere tutti nutrono un certo rispetto per lei. Da bimbetti, i miei compari ed io, passavamo le giornate a casa sua a farci raccontare le storie di Colobraro, il paese di maghi e fattucchiere e gli amichetti miei, col calare delle tenebre, avevano una gran paura a tornare soli a casa, tra i casermoni di periferia, in mezzo alle pozzanghere e ai tossici. Ogni mattina Concetta va a fare la spesa, il fruttivendolo egiziano le regala sempre qualcosa per tenersela buona e i vecchi in piazzetta la salutano con reverenza. Quando era giovane e mia mamma poco più che una bambina le donne si facevano gli scongiuri però poi, se il marito non tornava, andavano da lei a chiedere rimedi miracolosi. Mia nonna cucinava e preparava. In altri tempi sicuro la Chiesa l’avrebbe messa al rogo ché lei conosce i segreti delle piante e sa come usare il sangue delle mestruate. I riti e le pozioni nella famiglia mia si tramandano di generazione in generazione ma purtroppo mamma Viola è comunista e lei a queste cose non ha mai dato troppo adito.
  Io sono un credulone. Quando a sei anni restavo a cena dai due vecchi avevo paura persino delle ombre.
  Gli altri bambini mi rispettavano, la nonna mia è una maga e se qualcuno osava contraddirmi la usavo come spauracchio.
  Anche oggi, le rare volte che vado a trovarla, mi perdo ad ascoltare le storie sue.
  Concetta e Mario, da quando me li ricordo, sono sempre stati uguali. Lui più dimesso, lei una furia.
  Busso due volte.
La porta si apre con uno screeek veloce e deciso.
  Casa dei nonni è buia, «Per risparmiare energia», dicono ogni volta. Buia e piena di cose impolverate. Foto di morti e di paesaggi ormai andati. L’odore è sempre lo stesso, un misto di vecchiaia e muffa e profumo da due soldi. Anche le candele paiono sempre le stesse, come se non venissero mai accese.
  Le tenebre mi avvolgono.
Mario sorride, mi fa cenno di rimanere in silenzio e di seguirlo in cucina.
  Ci sediamo uno davanti all’altro ed io mi trovo a fare il solito gioco: scoprire le somiglianze, le righe che tracciano il viso, l’increspatura degli occhi. Nonno non parla, sembra fare lo stesso gioco.
  «Grazie mille signora Concetta. Speriamo vada bene», sento dire da un’altra stanza, probabilmente il salotto. Poi un uomo si affaccia alla cucina. Mi guarda imbarazzato, gli occhi colpevoli. È alto e ben vestito: una camicia bianca, una cravatta, una giacca color nocciola. Indossa occhiali spessi, squadrati. È vecchio, avrà un’ottantina d’anni, eppure se li porta bene: gli occhi sembrano sputare vitalità ad ogni battito di ciglia, la bocca si inarca in un sorriso, lasciando intravedere una fila di denti ordinata. Ha pochi capelli, bianchi e grigi, che coprono in maniera goffa una calvizie ormai pronunciata. Sulla pelle ha diverse macchie marroni, classiche della vecchiaia. Ogni tanto trema. «Arrivederla signor Mario», dice, «è il momento che vada». Nonno sorride e annuisce. L’uomo mi osserva ancora un secondo, unico elemento estraneo in una casa dove sembra trovarsi a suo agio. Corpo giovane tra vecchi. Abbassa subito lo sguardo e fa un cenno di saluto. Ricambio. Poi raccoglie l’ombrello nero (non l’ombrello comprato davanti alla metro quando piove a dirotto, no, un ombrello vero, elegante) e va via, salutando un’ultima volta Concetta.
  «Elia», mi dice la vecchia, «come sei dimagrito. Mangi?»
  «Mangio nonna mangio.»
  «Hai preso da tuo padre».
  «Chi era quell’uomo?»
  «Un amico».
  «E che voleva?»
  «Una cura».
  «Per cosa?»
  «Per l’amore.»

LA STORIA DEL SIGNOR PAOLO
  Il signor Paolo, buon uomo, aveva lavorato tutta la vita. Uno di quei mestieri ben remunerati, con tanto di tredicesima, quattordicesima e panettone a Natale. Ogni giorno si svegliava alle sette e ogni giorno andava al lavoro. Un abitudinario: adorava la colazione al bar e le carezze della moglie, i piccoli gesti quotidiani. Al lavoro amava sistemare tutto, anche se le cose erano già in ordine. La sua postazione era la più precisa dell’ intero ufficio. Il signor Paolo non faceva molto e sapeva che il suo lavoro non avrebbe cambiato il mondo. Ma a lui andava bene così, bastava poco per essere felice. E poi adorava i numeri. Quindi, riflettendo, adorava quel che faceva.
  Lavorava otto ore al giorno (più una, l’ora del pranzo). Mangiava con i suoi colleghi e parlava di numeri. Non erano amici, al di fuori dell’ufficio si vedevano due volte all’anno per le cene aziendali offerte dal presidente, però, a pranzo, si trovavano bene, tutti esperti di formule. Le giornate finivano velocemente e quando tornava a casa ad attenderlo c’era sua moglie, una donna pia e senza grandi pretese che faceva la casalinga. Ogni sera il signor Paolo trovava la cena pronta e l’appartamento pulito. La moglie adorava spolverare (o almeno così credeva il marito, convinto che, per una donna, il lavoro più consono fosse proprio quello di pulire casa e cucinare). Il signor Paolo e sua moglie avevano due figli, un maschio e una femmina, che facevano un gran baccano. Ah! Che urla e che grida provenivano dalla cameretta dei fanciulli! Ma l’uomo, accondiscendente, non li sgridava mai. Sapeva di essere un buon padre ma sapeva, con altrettanta chiarezza, di essere poco presente. Li vedeva andare al letto, ogni giorno più grandi, e li salutava con il bacio della buonanotte. Adorava però il momento della cena, dove la famiglia si riuniva tutta insieme. Osservava i volti dei suoi cari e sorrideva un poco, non troppo, non lasciando trasparire grandi emozioni. Non era un uomo dedito a mostrare i propri sentimenti, anzi. Ma voleva un gran bene a quei bimbi e sapeva che un giorno avrebbero fatto grandi cose. Era la moglie a pensare a loro: li vestiva, preparava la colazione, li portava a scuola e dopo li andava a prendere. I suoi bimbi, così diligenti.
  Ogni mattina il signor Paolo andava al lavoro e ogni sera tornava stanco, aspettando l’abbraccio della donna che amava.
  E gli anni passavano e i bimbi crescevano come fiori al sole. Ogni tanto, quando li guardava, non li riconosceva, tanto cambiavano in fretta. Di notte si scopriva a spiarli nei lettini ormai stretti.
  Poi un giorno la moglie si era ammalata. Un malattia incurabile, di quelle cattive che non lasciano speranze. Al capezzale della donna il signor Paolo piangeva, versando lacrime salate sul corpo stanco dell’amata. Lei, con grande sforzo, lo accarezzava sul viso bagnato. «Non aver paura», sussurrava, «andrà tutto bene. Io sarò sempre qui».
  Poco dopo la moglie era morta, lasciando il marito e i due figli soli.
Il funerale era stato sobrio e silenzioso. Poche persone. Il signor Paolo osservava ogni uomo ed ogni donna, ogni viso scavato, ogni pensiero oscuro. Osservava e scopriva. La moglie non aveva amici, solo qualche parente lontano e la sorella. Aveva passato la sua vita al chiuso, tra pentole e fornelli. Lui non l’aveva mai portata a cena fuori, al cinema o in vacanza. Erano stati sempre a casa. E adesso non era possibile recuperare. Cosa avrebbe dato per un’ultima notte! In fondo il signor Paolo era sempre stato così; anche appena conosciuti, l’unica volta che erano andati a cena fuori avevano mangiato una pizza, tra l’altro disgustosa. Addirittura per il pranzo del matrimonio l’uomo non si era sprecato più di tanto. Se solo fosse potuto tornare indietro nel tempo avrebbe dimostrato il suo amore, l’avrebbe lasciata libera. Libera. Senza accorgersene aveva incatenato quella donna alla casa, agli obblighi domestici, alle pulizie. Chiusa in una gabbia dorata, senza amici, senza nessuno con cui poter parlare. Così, davanti al corpo della moglie, aveva pianto e le lacrime erano cadute copiose sulle sue mani. Aveva pianto invocando perdono ad un dio sconosciuto.
  La casa era buia e tetra.
Il padre e i bambini erano entrati piano, quasi senza far rumore; aspettando tutti e tre il richiamo della donna, «La cena è pronta!», speravano di sentire urlare. «È a tavola!».
  Di notte, sotto alle coperte, l’uomo si era girato più volte, alla ricerca del corpo dell’amata.
  Non sopportava quel letto così grande, i due cuscini uno accanto all’altro, l’odore ancora potente della moglie. Non sopportava le foto incorniciate, i sorrisi di quel volto ormai scomparso, il ritratto del matrimonio -come era bella vestita di bianco-, la croce venerata. Non tollerava niente. Però la cercava, gli sembrava di sentire i passi nascosti, le posate in cucina sbattute sul lavandino, lo sciacquone del bagno appena tirato. Ma quando apriva gli occhi non c’era nessuno, solo la sua ombra.
  Le giornate passavano e il signor Paolo, novello casalingo, si cimentava in ardite prove culinarie. Anche preparare la moka sembrava un’azione difficilissima, figurarsi un piatto di pasta. Senza la moglie non aveva speranze, alle volte si immaginava morto, sconfitto dai morsi della fame. Non aveva mai badato ai gesti dell’amata. A quanto faceva. Per lui era semplicemente ovvio. In fondo chi era a portare i soldi a casa? Da chi provenivano i fondi per comprare i detersivi e i saponi e le stoviglie? Chi portava i pantaloni? La moglie puliva i piatti, nulla di più. Ma adesso la solitudine lo costringeva ad aprire gli occhi. Non sapeva far niente: passare lo straccio, spazzare, preparare la lavatrice. Era perduto.
  Ogni sera, di ritorno dal lavoro, indossava la parannanza e tentava.
Con i figli non riusciva a parlare. Chi erano questi sconosciuti ormai sedicenni che si aggiravano per casa? Cosa volevano? Come potevano pensare che lui avrebbe fatto tutto? Anche il momento della cena si era consumato in poco tempo, finendo un giorno, quasi naturalmente. Adesso mangiavano in orari diversi, cibi surgelati e già pronti. Ogni tanto, di notte, sentiva piangere il maschio. Ma non entrava mai nella cameretta, non avrebbe saputo cosa dire. Non sapeva niente dei suoi bambini, sangue del suo sangue. L’unica cosa che rammentava era che, da piccoli, adoravano le fettine panate. Cosa che non sapeva preparare.
  Tutto crollava, di giorno in giorno. La casa sporca, il cibo avariato, i figli persi.
  Il 9 febbraio era stato chiamato dalla scuola della figlia. I professori erano molto preoccupati, la ragazza prendeva in giro tutti, si comportava male, non andava a lezione, bighellonava lungo i corridoi.
  «Da quando?», aveva chiesto.
  «Da quando sua moglie è morta.»
Non sapeva come fare. Non poteva continuare così. La sera, pioveva a dirotto, si era seduto a tavola guardando la figlia. Come si sarebbe comportata sua moglie?
  «Io». Non uscivano le parole
  «Che vuoi?»
Non poteva dire niente. Non sapeva niente.
Era rimasto in silenzio, abbassando lo sguardo di fronte agli occhi accusatori della ragazza.
  Al lavoro rimaneva muto, i numeri che tanto amava avevano perso ogni fascino. La trasformazione, per quanto lenta, si era manifestata soprattutto sulla schiena, sempre più gobba. Trasportava un macigno quella schiena, un fardello oscuro. Avrebbe voluto piangere ma non poteva, anche le lacrime si ribellavano al suo volere.
  A casa si trovava solo a guardare la televisione. Aveva lavorato per tutta la vita, non coltivando passioni. Sì, un uomo senza passioni. Nudo, si contemplava allo specchio osservando il torace calante, i capelli sempre più radi, la schiena curva.
  Non poteva continuare così.
  Odiava il nero. Il grigio. L’oscurità.
  Ma non riusciva ad uscirne.
  Bramava la libertà.
Una patina si era posata sulla mente ormai stanca, un manto di tristezza perenne, una malinconia che si trascinava appresso, come un fagotto incatenato. Questa… questa disperazione era diventata la sua compagna di vita; la faceva sedere accanto, lasciando la sedia un tempo della moglie libera. La disperazione era contagiosa e colpiva i figli, soprattutto la femmina: tornava tardi la sera, gli occhi stanchi, stralunati, lo sguardo perso, il viso pallido e scavato. Il signor Paolo sospettava ma non chiedeva, sapeva ma non rimproverava. Non era in grado, non poteva. Non aveva chiesto neanche quando la ragazza era andata via, appena diciottenne; non aveva chiesto il giorno che l’avevano trovata riversa sul pavimento e non aveva chiesto i mesi dopo, le rare volte che la andava a trovare al centro di recupero.
  Il signor Paolo era un debole, un uomo grigio, una persona perduta.
La depressione ampliava le sue manie e spesso il figlio lo trovava solo, in cucina, alle tre di notte, a parlare con i suoi amici immaginari. Il figlio del signor Paolo non era una persona cattiva, ma non sopportava il padre. Lo accusava della morte della madre. Morire, nient’altro. Il signor Paolo chiedeva solo questo. Immaginava il suo suicidio, il laccio attorno al collo o il lancio nel vuoto. Avrebbe voluto tanto volare, diventare un uccello, un pettirosso.
  Alle volte si domandava quanto giocasse con la sua depressione. Era colpa della moglie, presenza ovvia nella sua vita.
Ma adesso?
Adesso c’era il suicidio.
  La sentiva la vocina viscida sussurrargli all’orecchio le identiche parole ogni sera; la stessa allettante proposta. Avrebbe raggiunto la sua adorata, non sarebbe più stato in pena per la figlia, non avrebbe più dovuto pensare al maschio.
  Sì.
  Una casa così vuota, troppo grande. La cena consumata velocemente davanti al televisore, le posate ben strette, le nocche rosse, il respiro trattenuto.
  Quella notte non aveva dormito, sveglio in preda ad una strana euforia, la vocina stridula a bisbigliargli parole. Quando si era alzato nudo e aveva spalancato la grande finestra il vento gelido l’aveva investito. Si era sporto sul davanzale, un attimo e tutto sarebbe finito. Il cuore aveva accelerato il suo battito, una lacrima di sudore era colata giù dalla fronte.
  Il piede.
  Poi l’altro.
  Il corpo proteso.
  I pensieri.
  Uno sguardo alla luna.
  In avanti.
No.
Poteva rimanere paralizzato.
O in coma.
Meglio impiccarsi.
  Il giorno dopo si era procurato una corda e la sera se l’era legata al collo. In piedi sulla sedia aveva aspettato il momento giusto. Era un fallito. Non era stato capace di proteggere la moglie e la figlia, meritava di morire.
  Il nodo stretto.
Tre
due
uno.
  La porta si era spalancata.
Il signor Paolo era scivolato cadendo a terra.
  Più volte, nei giorni seguenti, aveva pensato ad un miracolo. Nel letto di casa, circondato dai figli, si era domandato di cosa fosse fatta la corda. “Una corda” si diceva, “non dovrebbe rompersi”.
  Con la figlia in seguito aveva riso dell’accaduto. L’idea del suicidio, come un dio che si fa beffe dell’uomo, li aveva avvicinati. Si erano scoperti complici in un mondo di perdizione. Corde, video, coltelli, roulette russa. Ogni sera la ragazza arrivava a casa con un film diverso, uno di quei lungometraggi che, fino a poco tempo fa, il signor Paolo avrebbe disprezzato. Scene di sgozzamenti e di putrefazione. Cose così impossibili da diventare divertenti. La figlia era tornata a vivere a casa, incuriosita da questo nuovo papà che andava in giro in maglietta nera e sguardo folle. Era scattato qualcosa la notte del tentato suicidio nella testa dell’uomo. Una linea si era spezzata ed un’altra aveva preso il suo posto. Ad un passo dalla morte il signor Paolo si era reso conto di voler vivere.
Consapevolezza.
Forse pazzia.
Voleva vivere.
  Era stata Sorella Morte a farglielo capire un attimo prima di esalare l’ultimo respiro. E quando il respiro non era finito aveva inspirato e la verità era apparsa limpida e chiara. Ma il contatto con la morte l’aveva cambiato. Non poteva continuare a vivere in quel modo. La figlia se n’era subito accorta, lasciandosi coinvolgere dall’entusiasmo dell’uomo. Lo assecondava e lo seguiva come un cane fedele. Il figlio li guardava con curiosità ma senza intervenire.
  Dopo tanti anni il signor Paolo imparava a conoscere la sua bambina. Non una tossica, non una ladra, solo sua figlia. La accarezzava la sera, la testa poggiata sulla spalla, e le rimboccava le coperte baciandola sulla fronte. Lei si voltava un pochino e sorrideva nel sonno.
  Nei mesi successivi il signor Paolo aveva cominciato a leggere tantissimo. Libri sui numeri, sull’archeologia e sull’Impero Romano. Adorava l’Impero Romano.
  Il martedì e il mercoledì seguiva un corso di cucina.
  Il lunedì e il venerdì uno di tango.
  Il sabato e la domenica andava con i gruppi organizzati a fare le gite.
  A cena cucinava sempre piatti prelibati abbinati ad ottimi vini dal colore rosso intenso. I cibi surgelati erano solo un ricordo relegato in un angolo nascosto del cervello. Poteva tutto, il re dei fornelli. I figli ridevano della sua dote nascosta e ogni tanto ridevano anche della mamma, «Ché se ti avesse visto adesso sì che si sarebbe meravigliata!». E lui, macchiato di sugo e con gli occhiali appannati dal vapore, per la prima volta sorrideva pensando alla moglie.
  Ora puliva casa e disprezzava lo sporco, conosceva tutti i prodotti, ogni detersivo, qualunque offerta. Ascoltava musica e passava lo straccio. Adorava la radio e ogni tanto si ritrovava a simulare due passi di tango.
  I figli crescevano e lo guardavano con occhi diversi. Non un padre, questo essere inarrivabile, ma un uomo. Una persona con mille difetti e mille problemi. Un confidente con cui parlare, un amico con cui vedere un film, un buon cuoco.
  Quando se ne erano andati via, lui fidanzato e lei felicemente single, il signor Paolo aveva pianto un pochino, solo in quella casa così grande. Ma la solitudine, lui che la conosceva così bene, non era durata molto. Si era ripromesso di non farla entrare un’altra volta nella sua vita; così, nell’arco di un mese, la casa era diventata, come lui stesso amava definirla, “un porto di mare” per uomini e donne non più giovanissimi. Cene, incontri tra amici, dibattiti e discussioni. Era circondato da persone che gli volevano bene.
  Costante e continuo bisogno di vita.
Poi, un sabato pomeriggio, osservando il lungo acquedotto del parco del Quadraro, l’aveva conosciuta. Camminava concentrata accanto agli antichi ruderi e domandava e chiedeva e interveniva. La guida rispondeva e annuiva un poco scocciata un poco divertita. La signora Mara era una donna piccola e minuta con gli occhi graziosi e i capelli grigi e lunghi.
  Il signor Paolo l’aveva guardata, dapprima turbato, poi colpito. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso ma non aveva il coraggio di parlarle.
  Ogni sabato si incontravano in una parte diversa di Roma, un grande gruppo formato da venti trenta persone, e il signor Paolo aspettava l’intervento della signora Mara. Erano sempre domande argute e intelligenti, mai banali, sintomo di una mente brillante. Con lei, ne era sicuro, avrebbe potuto passare giornate intere a disquisire di musica, tango e antichi romani. Ma non trovava le parole. L’arte della seduzione era una magia oscura. Il massimo che riusciva a dire era un rapido «Salve», intervallato da una smorfia veloce. La signora Mara non lo degnava di uno sguardo e l’uomo si struggeva d’amore.
  Non era possibile.
  Adulto.
  Anziano.
  Vecchio.
  “L’amore”, pensava, “colpisce solo i giovani”.
Eppure sembrava proprio amore. L’uomo contava i giorni della settimana, le ore e i minuti! Aspettava con ansia il sabato e la sera prima non riusciva a dormire. Avrebbe potuto smettere di mangiare se la signora Marta l’avesse amato. Il cibo non gli sarebbe più servito, si sarebbe nutrito del suo profumo.
  La desiderava.
Desiderava far l’amore con lei, possederla.
  Le ore che precedevano la gita del sabato passavano di corsa, alla ricerca dell’abito perfetto, dell’accostamento migliore.
  I figli non capivano e lui non raccontava: si vergognava della sua passione, un sentimento considerato fuori tempo massimo. Si affrettava subito a pensare alla moglie. «Non smetterò mai di amarti», sussurrava alla foto, come a volersi giustificare.  Amava tutte e due. “Dio me ne scampi”, pensava.
Non era mai stato così felice. Viveva per l’incontro del sabato, per la gita a Roma, per gli occhi della signora Mara.
  Alla fine i due avevano cominciato a parlarsi, dapprima brevi saluti, poi, via via, discorsi più lunghi e articolati. Dal banale «Ciao» erano passati a dissertare di antichi trattati romani, di capitelli e affreschi. Che cultura la sinora Mara, che classe! Entrambi aspettavano il sabato con emozione, per poi ritrovarsi vicini ad ascoltare la guida di turno. Come tornati adolescenti si sorridevano di nascosto, lanciandosi bigliettini divertenti e ridendo alle stesse battute; ogni scusa era buona per passare un momento di più insieme, qualunque pretesto, anche il più banale.
  Ma la vecchiaia gioca brutti scherzi e il signor Paolo non aveva il coraggio di dichiararsi. Entrambi vedovi, ottantenni, con figli adulti, come potevano coronare il loro sogno d’amore? L’uomo passava le nottate a struggersi di desiderio, la signora Mara non avrebbe mai accettato un corteggiamento. Era una donna tutta d’un pezzo, il ricordo del marito perduto l’avrebbe accompagnata fino alla morte.
  Ma la morte, per due anziani, è cosa quotidiana, una compagna con cui convivere. Ed è la morte che detta le azioni, la morte e i rimpianti. Il signor Paolo lo sapeva. Doveva far qualcosa, non mancava tanto. A cena ne aveva parlato con la figlia. Solo lei poteva capirlo. Le aveva raccontato tutto, ogni cosa, sperando nella sua comprensione, desiderando che notasse l’imbarazzo dipinto sul volto. Non poteva tenere tutto per sé.
  «La amo», ripeteva liberato.
La donna però non aveva capito. «Papà, sei troppo grande. Sei un vecchio, l’amore non fa per te.»
Per la prima volta da tanti anni la figlia si era ritratta indietro, delusa e sconcertata. Affranta. Come poteva quell’uomo così anziano innamorarsi? E la mamma, che fine avrebbe fatto? Il suo cuore ora era di un’altra?
  «Tua madre sarà sempre nel mio cuore. È una cosa… diversa…»
No.
Voleva sostituirla.
  Qualche giorno dopo ci aveva riprovato, questa volta con gli amici del tango. Li aveva invitati a cena e si era rivelato. La reazione era stata la stessa della figlia. Come poteva un uomo di una certa età innamorarsi ancora? Era… contronatura. Immorale. E di una vedova per di più! Non poteva fare il ragazzino perché lui non era un ragazzino. Da anni. Si era giocato i momenti migliori della sua vita e non sarebbero più tornati, prenderli con la forza era sbagliato, doveva accettare la sua età. La vecchiaia e i capelli bianchi. Un pensionato. Un nonno. Un uomo attempato, debole e fiacco. Bisognava che se ne rendersene conto, ne andava della sua salute. «Lo diciamo per il tuo bene».
  Forse avevano ragione.
  Ma ogni sabato, ogni volta che vedeva la signora Mara, il suo cuore sussultava di gioia; una serie di guizzi lenti e veloci.
  Doveva tentare un’ultima volta, avrebbe lasciato decidere al figlio.
A pranzo si erano guardati a lungo, in silenzio, i nipotini a giocare sul grande tappeto rosso.
  «Ti devo parlare».
  «Cosa vuoi dirmi papà?»
Non trovava le parole.
  «Tu… io… mamma…», balbettava.
Dietro il figlio, d’improvviso, era comparsa una figura oscura, che l’aveva accompagnato per gran parte della sua vita. Sorella Morte annuiva affilando la falce.
  «Mi sono innamorato…»
Il figlio l’aveva guardato, uno sguardo divertito. «Raccontami.»
  Il signor Paolo si era sfogato, narrando le gesta della sua amata, i palpiti del cuore e la gioia di tornare ragazzo. Una parola dietro l’altra senza mai fermarsi. Ed era stato bello parlare per la prima volta col figlio.
  «Invitala ad uscire».
  «Come?»
  «Invitala ad uscire papà. Sei grande ormai, saprai come si fa. O no?»
No. L’aveva dimenticato. Ormai deciso ad incontrare la signora Mara cercava mille soluzioni per rimediare un appuntamento; una scusa qualunque, fosse anche un caffè! Ma come fare? Come riuscire nell’impresa?
  «Prima o poi si stuferà di aspettare», gli aveva detto una mattina il figlio al telefono.
  Il signor Paolo però si bloccava ogni volta. Provava davanti allo specchio, in bagno. Preparava i discorsi. Niente, non poteva riuscirci.
  Non esisteva una soluzione.
A meno che…
…un pizzico di magia sarebbe bastato.
Certo, non credeva a queste cose, reputava maghi e cartomanti una massa di ciarlatani. Ma conosceva una donna, la strega del quartiere, rispettata da tutti, che avrebbe potuto…
  Pazzie.
Sì ma tentare…
  Una vecchia megera sposata con un uomo silenzioso.
  Una donna pia.
  Che veniva dal paese delle incantatrici.
Tanto valeva provare.
  Così si era spinto più in là, credendo nella magia. Si era fatto coraggio ed era andato dalla vecchia Concetta, la maga del quartiere, a chiedere l’amuleto d’amore.

  «E poi?», chiedo a nonna.
  «E poi è venuto qua ed io ho preparato un piccolo intruglio.»
La guardo, ogni tanto mica la capisco ‘sta vecchia. «Cioè, e adesso la signora Mara se lo beve e si innamora del tizio là, di Paolo? Eddai no’, io a ‘ste cose lo sai che non ci credo. Cioè, non ci credo molto.»
  «Sciocchino. La mistura non è per lei.»
  «Ah. E per chi allora?»
  «Per il signor Paolo. Per trovare coraggio e potersi così dichiarare. Aveva bisogno di un poco di fiducia in se stesso. La magia serve a questo.»
  «Tipo l’omeopatia no? Che so’ tutti zuccherini.»
  «Elia, io pratico stregoneria, o almeno così dicono. Quel che faccio è reale. Uso le erbe.»
  «E adesso?»
  «E adesso il signor Paolo andrà a casa, berrà la pozione e sabato si rivelerà al suo amore. Ne sono sicura.»
  La guardo in silenzio, Concetta sorride e mi guarda a sua volta, preparando il tè.
  Rifletto sul signor Paolo, ché forse anche io dovrei fare una cosa del genere. Con la donna ch amo dico.
  Però il coraggio mica ce l’ho.
Ora lo rivedo, quell’uomo così anziano, perso. A cercare l’amore, come tornato bambino, incredulo di fronte alla magia. Lo rivedo e mi viene da sorridere, ammirando il suo coraggio.
  Fuori, un pettirosso vola nell’aria. 


Se vuoi leggere le storie di nonna Concetta e della famiglia mia le trovi su "Un centimetro in più" la raccolta di racconti del sottoscritto:

[La prossima storiella esce martedì 5 aprile]

lunedì 7 marzo 2016

LA GITA IN MONTAGNA



  Ecco cazzo lo sapevo ho dormito ‘na merda.
  Tipo che c’ho l’ansia no?
Hai presente? Quando devi fare qualcosa di importante il giorno dopo, e ti svegli ogni tre secondi, con la paura che la sveglia non suonerà, che starai in down tutto il tempo, che non ricorderai niente? Generalmente, una cosa del genere, a te che stai leggendo, avviene solo la notte prima di un avvenimento importante, che ne so: il tuo matrimonio, il funerale del cane, l’ultimo esame prima della laurea, il primo giorno di lavoro.
SIGMUND FREUD: A Elia no. A Elia, nostro diletto, succede per ogni cosa, addirittura quando il giorno dopo ha una cena con gli amici. Di conseguenza, per l’adorato, ogni attimo è importante.
GRANDE PUFFO: E ci fa dormire un cazzo a noialtri. Ché soffre d’insonnia lo stronzetto e ci tocca svegliarci tutti. E di chi è la colpa? Di Superstellino, ve lo dico io! Si puffa addosso per ogni minima stronzata!
  Capirete quindi che, se il giorno dopo ho un appuntamento con Anita, sicuro non dormo.
  «E se poi l’appuntamento è alle nove del mattino, in montagna, per allegro trekking tra giovani marmotte è ancora peggio», dice Ganesh.
  Mi alzo, stirando bene la schiena. Arranco in cucina ad occhi chiusi, preparo il caffè.
LA VECCHIAIA: Va troppo lento, troppo lento! Deve sbrigarsi se vuole arrivare in orario! Sembra uno zombie!
  Le braccia si tirano in alto, gli occhi si abbassano. Zoppico. Ogni pensiero sfuma.
CARL GUSTAV JUNG: Fase REM! Presto, correte ai comandi!
KARL MARX: Chi è che sta manovrando l’adorato? Chi c’è al joypad?
MASTRO LINDO: Giacomo Leopardi! Sempre stato sfigato con le donne… qui ci serve uno tosto, dobbiamo far colpo una volta per tutte sulla giovane Anita.
UNA MOSCA: Chi chiamare però… serve un uomo vero, che metta ad Elia il giusto brio ma che, contemporaneamente, crei ansia. Per fare le cose di fretta dico.
IL CRICETO: Ho io la persona che fa al caso nostro!
  Improvvisamente ‘na botta di adrenalina mi colpisce, costringendo la spina dorsale a sollevarsi. Gli occhi si spalancano, iniettati di sangue. Allungo i bicipiti. Guardo l’orologio. Cazzo.
  Cazzo
  Cazzo
  Cazzo
MITCH DI BAYWATCH: Tranquilli, con me alla guida andrà tutto bene.
FEDERICO MOCCIA: Ohhh, ma è proprio lui! Posso avere l’autografo? Posso?
  Ho in mente la canzoncina di Baywatch mentre bevoilcaffèfumolasigarettamifiondoinbagno.
Tatatan-tatatan
Tatatatata
Tatatan-tatatata-ta-tan
  «Che è?», mi chiede Ganesh.
  «Come che è. La sigla no? Hai presente?»
  Mi guardo allo specchio, ammicco. Bei muscoli. Bel fisico. Mica magro, slanciato. Dovevo fare il bagnino. Per un attimo solo penso a Pamela Anderson con il costumino rosso tutto attillato.
  Sorrido.
  Devo cacare.
Mi volto verso la tazza e lo vedo. No. Il pinguino no.
  Il grande pinguino che ha occupato il bagno di casa nostra mi guarda ebete. E non si muove.
  «Ehi, devo fare la cacca, posso?»
Niente.
Mi osserva e muove un poco il becco.
Ondeggia.
  Corro da Simone (il coinquilino).
  «Aho», lo strattono.
  «Elia, è presto, è domenica. Che vuoi?»
  «Ci sta ancora ‘sto cazzo di pinguino al cesso. Io devo farla».
  «E caccialo no?»
  «Ma come faccio? Sei stato tu a dirgli di rimanere. Farò tardi! Ho un appuntamento con Anita!»
  Simone sbruffa e si volta dall’altra parte. «Cresci», sbadiglia, «non starò sempre con te. Sii uomo.»
  Torno in bagno. «Pinguino», dico, «devo cacare.»
Il pinguino si fa più in là, ma non si sposta, ‘sto stronzo squatter dimmerda.
Okay.
  Mi chino sulla tazza e la faccio osservando bene l’animale mentre scoreggio.
MITCH DI BAYWATCH: Adesso devo farlo vestire, giusto? Io me ne intendo più di costumi da bagno ad essere sinceri. Però con la montagna me la cavo. Ci sono i laghi. Ecco, che ne dite?
GIANNI VERSAGE: L’accostamento nero blu non mi fa impazzire, e neanche i calzini viola a righe verdi con un piccolo ma significativo foro sotto la pianta. D’altra parte amici non è stato forse il Mangiaboschi a rifiutare lo shopping postnatalizio? Quello dei saldi? Non è forse lui, illustri colleghi, il più scaltro tra gli straccioni? Come posso io riuscire nell’impresa, quando per vestirlo al posto mio viene chiamato Ernesto Che Guevara, che sarà stato anche un rivoluzionario ma, mio Dio, in fatto di moda non è che ci capisca molto. Affidiamoci dunque alle cure del bagnino burino. Continuiamo così. Rimpiangerete il giorno in cui mi avete bistrattato.
MICHAIL BAKUNIN: Aho, e basta un po’! Elia pure se volesse manco se li potrebbe permettere gli stracci tuoi! Al massimo i pantaloni dai cinesi si compra, a Piazza Vittorio.
KARL MARX: Come quando va dal parrucchiere no? Sette euro al taglio. ‘Na bomba ‘sto proletariato.
GIANNI VERSAGE: E si vede.
BATMAN: Li scusi signor Versage, lei ha ragione. Sono dei pezzenti. Sono circondato da pezzenti ahimè.
IL CRICETO: Pardon, non erano meglio i pantaloni con i tasconi?
  Mi guardo allo specchio: jeans, felpa e giaccone. Come al solito insomma. Il pinguino annuisce. Inforco gli occhiali da sole e il cappellino di lana comprato in Thailandia. Ecco, così sì, sembro proprio un montanaro metropolitano. Glielo faccio vedere io come si scala la collinetta, a ‘sti burini.

  Diciassette minuti di ritardo, tra persone normali, non sono niente. A Roma (è tipo ‘na legge) il ritardo è d’obbligo. Se non arrivi tardi non sei nessuno. Ce l’abbiamo nel sangue noi romani, ‘sta storia del ritardo. La impariamo da piccoli, sulle nostre spalle, quando stiamo sotto la pioggia davanti alla fermata ad aspettare per ore prima l’autobus e poi l’amico ritardatario. Da noi il ritardo è proprio una filosofia. Quindi ‘nsomma, diciassette minuti non sono niente. Niente.
  Parcheggio la macchina (prestata dai miei) dietro una jeep. In lontananza scorgo un gruppetto di persone, più o meno una quarantina, in cerchio.
  «Eccomi!», urlo mezzo trafelato, col fiatone, per far vedere che ho corso.
  Gli sguardi si alzano all’unisono.
Ottanta occhi mi scrutano come se volessero mangiarmi.
  «Tu sei?», mi fa uno, il più vecchio, la guida mi sa.
  «E… Elia».
  «La tabella di marcia. Guarda su».
Seguo il suo dito, osservando un cielo limpido e azzurro, macchiato da una piccola nuvoletta tonda, quasi tenera.
  «La vedi quella?»
  «…»
  «Non bisogna mai sottovalutarle, mai».
CAPITANO ACHAB: Ha ragione il vecchio. Le nuvole nascondono celati misteri, misteri di morte!
GRANDE PUFFO: Ecco. E già la prima figura di merda l’abbiamo puffata.
BATMAN: Possiamo ancora recuperare, guardate: è il momento della cartina geografica.
IL MOMENTO DELLA CARTINA GEOGRAFICA
PIERO ANGELA: Il Momento della Cartina Geografica è, per ogni uomo, l’attimo essenziale in cui viene affermata la supremazia rispetto agli altri componenti di sesso maschile del branco. Saper leggere una cartina è vitale per la sopravvivenza; il vero maschio alfa, con fare scaltro e astuto, si cimenta con le cartine, per far colpo sulle femmine del gruppo. Ahimè, il nostro Elia non ha senso dell’orientamento ma ora, comandato da Mitch Buchannon, prode maschio della fortunata serie televisiva di bagnini, non può fare a meno di erigersi a sommo conoscitore delle cartine geografiche, siano esse di terra, di mare o di spazio.
  Mi avvicino al gruppo, ignorando gli sguardi ostili degli altri. Tiro su la schiena e sorrido ad Anita. «Ciao», mi fa. Le rispondo con un gesto veloce, una lieve increspatura degli occhi che non lascia trasparire nessuna emozione. Da uomo. Da uomo vissuto.
  «Scusa», sorrido, «do un’occhiata alla cartina. Voglio capire bene il tragitto». Poi guardo il cielo, come a voler consultare il sole.
  Mi avvicino alla guida che sta indicando un punto agli altri. Osservo la cartina.
  Hmmm. Quello dovrebbe essere il nord. Dovrebbe.
  «Allora Elia, che ne dici. Bel giro no?», mi fa il tizio, il vecchio, la guida là.
  «Ottimo», annuisco osservando i segni oscuri dipinti sulla carta. Milioni di linee che si concentrano una sull’altra, di tutti i generi e colori. Masse di onde e nomi e tracce.
MASTRO LINDO: Non ci sta capendo niente! Se Anita lo nota è la fine!
IL CRICETO: Piano, senza farci scoprire. Diventiamo piccoli piccoli e facciamo brevi passi indietro.
MITCH DI BAYWATCH: Tranquilli ragazzi. Ho combattuto contro squali, mostri tropicali e sirene ammalianti, non sarà certo una montagnetta a farmi paura. A guidare i nostri passi sarà il sole.
  «Elia».
  «Anita… ehi, ciao. Scusa, stavo guardando la cartina».
  «Visto che percorso?»
  «Piccolo».
  «Beh, venti chilometri di cui dieci in salita non sono proprio pochi. Hai visto la cartina no?»
Cristo. Venti chilometri. E chi ce la fa. Io ci muoio su ‘sta montagna. «Sì sì. Però dai, non sono tanti. C’è di peggio.»
  «Dormito bene?»
Uno schifo. «Come un sasso. Sei sola?»
  «No, con un paio di amici. Vieni che te li presento… ecco, lei è Maria, lui è Alessandro e lei è Anna. Ah, lui è… già vi conoscete se non sbaglio.»
  Stringo la mano all’uomo davanti a me. I nostri sguardi si incrociano per un attimo di troppo. La potenza del super saiyan mi scorre nelle vene. Certo che ci conosciamo. Mi ricordo di te. Artemio. Lurido bastardo.
  [Nella notte dei tempi, in un passato oscuro e lontano, risalente più o meno all’anno scorso, Artemio ed Elia si sfidarono in un duello senza esclusione di colpi per conquistare il cuore di Anita].
  «Come no? Siamo andati a cogliere asparagi insieme», dice Artemio.
Cogliere. Pfui. Abbiamo gareggiato. Mica abbiamo colto. Coglione. È stata una battaglia dura. E tu giocavi anche in casa. Io manco lo sapevo com’era fatto un asparago. Maledetto.
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKY: Avete visto com’è vestito? Che bei pantaloni da trekking che ha? E osservate le scarpe! E la giacca!
FEDERICO MOCCIA: Non abbiamo speranze! Ha i bastoni ultratecnologici!
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKY: E il contapassi che si collega al cellulare che si collega al satellite che si collega alla luna che si collega ai raggi gamma che si collegano alla velocità della luce che si collega alle onde gravitazionali! Siamo perduti!
JOHN LOCKE (quello di Lost): Moriremo tutti!
  «Ti sei vestito bene», mi fa, «guarda che là su farà freddo».
Seguo il suo dito e la vedo.
LA GRANDE MONTAGNA INNEVATA
  «È piena di neve», dice Anna.
LA VOCE DI DIO: E’ sveglia la ragazza.
ERRICO MALATESTA: Perspicace.
  «Si vede. Già».
Credo che le scarpe da ginnastica non andranno troppo bene.
GRANDE PUFFO: Io lo sapevo che dovevamo andare da Decathlon. Oh, mai nessuno che mi dà ascolto in questo buco di cervello. E mo? Come la puffiamo la montagna dello yeti del cazzo? Eh? Ché manco c’abbiamo il sanbernardo con la fiaschetta al collo! Il liquore per tutti i puffi! A noi non ci rianima nessuno se sveniamo! Scommetto ‘sti scalatori qua, ‘sti montanari c’hanno minimo minimo ‘na boccia di grappa negli zaini.
KARL MARX: E che zaini.
MITCH DI BAYWATCH: Lasciate fare a me. ‘Scoltate un po’ che risposta diamo allo stronzetto.
  «Io non c’ho freddo. A me un paio di jeans mi bastano per riscaldarmi. E quello», rispondo indicando il sole.
  Che cazzo di frase.
  Che. Cazzo. Di. Frase.
Artemio mi osserva confuso.
  Prossima volta giuro vado da Decathlon.

  «In marcia!», urla la guida.
Io già mi sento in Revenant, il film che ha fatto vincere l’oscar a DiCaprio.
LEONARDO DICAPRIO: Noi abbiamo girato a meno quaranta gradi, con gli orsi veri, sotto la pioggia. Mica cazzi. Se non stavo a morì l’oscar col fischio che me lo davano.
  Osservo a sinistra e a destra, guardando bene che non ci siano orsi nelle vicinanze. Anche se, riflettendo, una lotta contro l’orso aumenterebbe di non poco i punti miei per diventare il maschio alfa, sarei tipo la star della spedizione e finirei pure in tv e Anita stravedrebbe per me, alla faccia di coso lì, dell’omino da trekking, Asdrubale, Artemio o come si chiama.
  Ecco, guarda un po’. Due passi e già stanno vicini vicini, i piccioncini. Cribbio sono arrivato fino a qua per starmene per conto mio? A me la montagna manco mi piace. Me ne restavo a casa, a fare le partite domenicali alla Play con il coinquilino e il pinguino. Tranquilli tranquilli, una paio di canne, ‘na biretta e il gioco è fatto.
  Ma guardali.
Ha occhi solo per lui.
  Eccerto, saranno le scarpe che ha.
  O la giacca.
  O le racchette, le bacchette, ‘nsomma, i bastoni tecnologici. I così con la punta alla fine. Esagerato. Adesso non è che è tutta ‘sta montagnona. Come i ciclisti della domenica. Paro paro. E io li odio i ciclisti della domenica.
MAESTRO YODA: La gelosia colpendo ti sta. Osservare tu devi. La grandezza non conta, guarda me: giudichi forse me dalla grandezza? Non dovresti farlo infatti, perché mio alleato è la Forza, ed un potente alleato essa è!
MASTRO LINDO: Ha ragione il maestro. Siamo appena partiti.
LEONARDO DICAPRIO: Dovete farvi notare. Muovete Elia a casaccio.
  Saetto in avanti ed inizio una fitta conversazione con la guida. Mi parla di tutto, della pendenza, della montagna, delle stelle, del sole, dell’orientamento, dei fiori, della terra e dell’acqua. Finisce che so tutto di montagna. Poi attacca a parlarmi di sua sorella, sposata ad un contadino senza gambe.
  «Come senza gambe?»
  «Eh. Senza gambe. Furono i lupi a strappargliele, trent’anni fa, in piena notte. Un branco impazzito che tutte le sere veniva a disturbare il sonno dei contadini, mangiando le galline e uccidendo le mucche. Alcuni dicono non fosse un lupo».
  «E cosa allora?»
  «C’era un uomo sempre solo, viveva nel bosco, lontano da tutti. Di notte, ogni tanto, quando i giovani andavano a pomiciare tra la natura, si sentivano strani versi. Ululati. Ma umani. A mozzare le gambe al contadino dicono sia stato un lupo mannaro. E si aggira ancora qui, nei boschi della montagna. Meglio non rimanere soli Elia».
  «Maddai un lupo mannaro», mi fa Ganesh, «non t’avrà mica messo paura vero?»
  «E che ne sai? Casomai è vero. Io ho un amico immaginario con la testa d’elefante, per dirne una».
GRANDE PUFFO: Secondo me ci pija per il culo. Poi fate un po’ voi. Tanto si sa che l’adorato ci crede a ‘ste cose.
KARL MARX: Macché, neanche ascolta. Guardate, con la coda dell’occhio osserva Anita.
LA VECCHIAIA: Che brutta bestia la gelosia.
SIGMUND FREUD: Vedete cari amici, l’adorato vuole, come dire, essere sempre al centro dell’attenzione. L’appiglio per la fanciulla, il punto di riferimento, il consigliere. Quello a cui aggrapparsi, il primo con cui ballare, il ragazzo guardato quando comincia una canzone d’amore, quello a cui si sorride un attimo prima di sorridere agli altri. Vuole essere il primo. Il primo pensiero, il primo gioco. Anche quando ci sono altre persone, non solo quando sono soli. Sempre. Per lui è così. Se c’è Anita sono i suoi occhi che va a cercare, poi quelli degli altri. Sa che non tutti ragionano come lui, ma non può farci niente.  Ripeto, il diletto vuole essere il punto di riferimento. E non un punto di riferimento. È semplice. Deriva dalla sua insicurezza. Dal non sentirsi a suo agio nelle situazioni. Elia brama essere essenziale per qualcuno. Indispensabile. Psicologia spiccia, se posso.
FEDERICO MOCCIA: Tipo al centro del cuore, tipo.
SIGMUND FREUD: Tipo.
  «Oh, guardatevi dalla gelosia, mio signore. È un mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre. Beato vive quel cornuto il quale, conscio della sua sorte, non ama la donna che lo tradisce, ma oh, come conta i minuti della sua dannazione chi ama e sospetta; sospetta e si strugge d’amore!», mi fa il perfido Iago, astuto nemico di Otello.
  Arranco, osservando i due piccioncini, mentre la montagna si fa più ripida.
  Un passo dietro l’altro.
Annaspo.
  Sudo che è una bellezza.
Rallento.
KARL MARX: Se rallenta tutti capiranno che Elia non è portato per la montagna, diventerà lo zimbello della spedizione, sarà la fine! Faranno i poster con la faccia sua e lo chiameranno George McFly!
  Già li vedo gli sguardi di ‘sta gente, come ridono di me.
Che poi io dico: mi inviti qui sulla montagna e manco mi fili. Come se arrivo io un giorno e ti dico di venire ad un concerto con me e poi sto tutto il tempo con un’altra ragazza. Eh. Un minimo di tatto.
  «Giusto!», dice Iago. «Uguale. La fanciulla non vi merita. Mio signore, osservate attentamente come scruta il giovane contadino suo amico. È lui la fonte di ogni informazione, il suo punto di riferimento. È a lui che pone domande e da lui attende risposte, pendendo dalle sue labbra. Voi siete solo un contorno, un puntino nel vuoto. Il terzo incomodo quasi. Ripeto, non vi merita.»
  Gli occhi si macchiano di sangue.
  Odio la gelosia.
MITCH DI BAYWATCH: Non molliamo, non possiamo. Ne va della nostra virilità. Ecco qua. Avviciniamoci.
  Mi avvicino alla coppia.
  «Elia», dice Anita, «ti piace?»
  «Che?», sbuffo, la rabbia che sale come un mostro infuriato.
  «La natura, la montagna».
  «Già Elia, che ne pensi di questi pini? Degli alberi secolari? Dei fiori? Vedi, guarda a terra, li riconosci?», mi domanda Artemio.
  «Eh. Margherite.»
  «Le avete anche voi in città?»
  «Quante ne vuoi. Le vendiamo pure, tante ne abbiamo».
Tiè. Elia 1 – Artemio 0
  «Deve essere così dura vivere in una grande metropoli. Io non potrei mai.»
  «Io neanche», cinguetta la ragazza.
  «È una congiura contro di voi!», mi sussurra Iago all’orecchio.
  «Svegliarsi presto», comincia Artemio, «il canto del gallo, gli uccellini che cinguettano, la passeggiata di prima mattina nei boschi, le piante, il manto di stelle la notte, la luna, la vita di paese, una vita tranquilla, fatta di piccole cose. Vero cara?»
  «…»
  «Come fai a vivere senza stelle? Il cielo viola avete, neanche la luna si vede più tanto è l’inquinamento. E il cibo poi… tutti quei prodotti del supermercato. Scommetto che non hai mai assaggiato un pomodoro, coltivato da te…»
E infatti, il pomodoro mica l’ho mai assaggiato. Stronzotestadicazzo. Ma la soddisfazione qui mica te la do. Scrivo io, c’ho fantasia da vendere. «L’ho assaggiato eccome. Mica uno… ho passato un’estate intera nei campi, sotto il sole cuocente, a fare l’orto, nelle aride terre del sud. Tutte le mattine sveglia all’alba, pagato tre euro al giorno. Pomodori, peperoni, insalata. Tutta roba bio. E gli abbiamo pure fatto la rivolta nei campi, a ‘sti sfruttatori.»
  «Ripeto, è una questione di inquinamento. Non di rivoluzioni. E so che vai pure in bicicletta.»
Anita abbassa la testa. Adesso l’hai capito che è una sfida.
  «C’ho la mascherina.»
La mascherina è l’orgoglio mio, ché sembro un fottutissimo ninja affetta contadini.
  «Qui non c’è bisogno di mascherina. Respira Elia, a pieni polmoni, fai la scorta per il ritorno», ride.
  Rimango in silenzio.
  «Fiatone?», mi fa.
Cristo sono stanchissimo. Altro che fiatone, qui svengo. «Ah bello, n’è che solo in campagna c’avete le cose fiche eh. Fatti un giro per Roma, tipo al Trullo, vatti a guardare le robe sui muri. Nei paesini vostri ce l’avete ‘ste cose?»
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKY: Oh no! Corriamo ai ripari, gli sta uscendo il lato coatto!
IL LATO COATTO: Ciao, so’ er Lato Coatto. E vengo da Majana.
GIANNI VERSAGE: Borgataro senza speranze. Incivile.
FEDERICO MOCCIA: E anche un pizzico infantile, se posso.
  «Pausa!», urla la guida.
Riprendo fiato. È il momento di una bella sigaretta a polmoni aperti.
  La giro veloce e poi l’accendo.
Ahhh. Che goduria.
  Un silenzio innaturale cala sulla valle. Tutti mi osservano scandalizzati, qualcuno abbassa lo sguardo.
  Oh oh.
Le sacre regole del bravo scalatore sono state infrante per sempre.
  «Che fai?» mi domanda Artemio.
Tiro forte. «Secondo te?», rispondo buttandogli il fumo in faccia.
  Questa sì che è stata una gran mossa. ‘Sto salutista da quattro soldi. Ti farei vedere come vivo io che ho pure il pinguino al cesso e l’amico mio che fa yoga e gioca con l’energia come fosse ‘na palla da bowling.
GRANDE PUFFO: Ma infatti, per vincere questa gara tra maschi, forse dovremmo svegliare la Kundalini, il sacro serpente, altro che il bagnino.
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKY: Come facciamo? Guardatela, svaccata sul divano. L’abbiamo ridotta ad una larva bioenergetica. Circondata da bottiglie di amaro e posaceneri stracolmi di spinelli.
GRANDE PUFFO: Tentiamo. Ne va della vita di Elia…
YOGI BHAJAN: Mi duole ammetterlo ma Grande Puffo ha ragione. Preghiera è quando tu parli con Dio, meditazione è quando Dio parla con te.
  Sat
  Nam
Trattengo il fiato.
  Per il potere di Grayskull…!
Apnea positiva.
  …A me il potere!
Concentrazione al terzo occhio.
Le vene sulla fronte formano la sacra V di Voltron.
  Improvvisamente, tutti i chakra si aprono.
E lo sento, il potere che scorre in me.
KUNDALINI: Sono stata obbligata da voi, miseri esseri, ad alzarmi.
IL NEURONE: Oh potente divinità. Con te alla guida ogni cosa apparirà semplice, perfetta.
KUNDALINI: Mia è la Forza.
MITCH DI BAYWATCH: Riconosco che il serpente qui spacca il culo.
  Spalanco gli occhi. Osservo la mano. Orrore. La sigaretta. La getto schifato. Poi la raccolgo e me la infilo in tasca, per non inquinare.
  La stanchezza fugge via.
Olio.
  Le gambe si innalzano al cielo.
Ogni cosa è chiara.
Limpida.
  I muscoli si gonfiano.
  Se solo volessi potrei lanciare l’onda energetica contro il nemico e farlo fuori una volta per tutte.
  Quando riprendiamo a camminare ogni fatica è scomparsa. Sono il primo, davanti a tutti e posso tutto. Osservo le piante e i fiori, ammiro il paesaggio bellissimo, le cime innevate e il falco che volteggia libero. Annuso l’aria, assaporando la vita. Parlo con tutti, felice di essere qui. Ora. Vivendo il presente. Iago, terribile nemico, lo affondo giù, relegato negli angoli reconditi del cervello: improvvisamente mi rendo conto che la gelosia è un mostro feroce che non ti fa gustare le cose belle, che ti chiude, bloccando l’energia in fondo alla colonna vertebrale.
  Mi sento libero, forte, pieno.
GRANDE PUFFO: Con la Kundalini al comando l’adorato diventa invincibile. Un vero yogi senza paura. New age quasi.
  La vista si accentua, dividendo i colori in categorie e sottocategorie. Posso vedere la forza dell’albero, del fiore, del sasso, delle persone.
  Parlo con tutti, nessuno escluso. Con Alessandro che ieri sera s’è preso una tortorata incredibile, con il vigile venuto fino a qua per gustarsi la montagna, con la ragazza madre che non può permettersi una vacanza, con la ballerina di danza classica che ha smesso di ballare perché troppo vecchia, con il bambino in fissa con i videogiochi.
  E con Anita.
  Che in un attimo è mia.
E anche con Artemio. Così piccolo, così nulla.
  Quasi piango di fronte alla bellezza di Madre Natura. Vorrei spogliarmi nudo nonostante il freddo e ballare e ridere e fare l’amore.
KARL MARX: Compagni, Elia si sta trasformando in un hippie. Dobbiamo fare attenzione, ricordate cosa è successo quando la Kundalini prese i comandi? L’adorato rischiò di diventare un salutista figlio dei fiori!
  Il giallo il blu il verde.
  Mettete un fiore nei vostri cannoni.
  Vorrei cantare.
MASTRO LINDO: Sì… però ascoltate la forza interiore! Il diletto può tutto!
  Poi mi fermo di colpo.
  Mi blocco.
  E piango.
La montagna si apre in due e ogni cosa diventa bianca.
Cotanto candore mi lascia inebetito.
  Bianco è il colore del kundalini.
  Bianca è l’energia.
Le scarpe affondano sulla neve.
I piedi si bagnano.
Ma non sento freddo.
  Mi chino toccando il soffice manto innevato.
  «Tieni», mi sorride Anita porgendomi un piccolo batuffolo di neve. «Bevi».
  Avvicino la bocca alla sua mano, le labbra si posano delicate sulla neve. Sorseggio. Anita mi guarda. Ha occhi bellissimi.
  Ci voltiamo.
Siamo arrivati in cima.
La spedizione si libera dagli zaini e tutti, all’unisono, cominciano a  lanciare grandi palle di neve, come tornati bambini.
  Faccio finta di niente.
  Anita è ancora qui, davanti a me.
Ogni cosa scompare.
Rimaniamo soli lei ed io.
In mezzo al bianco.
Tra le montagne.
  Per un attimo abbasso lo sguardo.
  Lei fa lo stesso.
Le bocche, ora insicure ora esperte, si avvicinano.
  Posso sentire il suo fiato posarsi sulle mie labbra.
Ci sono.
  Chiudo gli occhi.
Una palla di neve mi colpisce.
  Cazzo.
GRANDE PUFFO: Kundalini, dove vai?
KUNDALINI: Quel che dovevo fare l’ho fatto. Torno al mio divano sgualcito, ho bisogno di riposo.
FEDERICO MOCCIA: E noi come faremo? Mancava tanto così al grande bacio!
SERGENTE HARTMAN: Senza paura palle di lardo! Mi metto io ai comandi! Se guerra vuole… guerra avrà!
  Mi volto di scatto. Una botta di stanchezza improvvisa mi colpisce, lasciandomi per un attimo tramortito e senza forze. I piedi bagnati mi fanno male. Tutta l’energia positiva è sfumata via improvvisamente. Cazzo. Cazzo m’ha tolto il momento romantico ‘sto stronzo. Formo una grande palla di neve, Anita mi imita, nel suo sguardo lo stesso odio mal nascosto.
  Poi carichiamo. Artemio ci osserva pallido prima di essere colpito dalla valanga di neve.
SERGENTE HARTMAN: Lotta armata!
  Ed è guerra, Signori & Signore, una bellissima guerra di palle di neve fatta di urla, risate e molotov.

  «Ehi, sei zuppo», mi fa Simone quando rientro a casa, «com’è andata?»
  «La stavo per baciare».
  «E poi?»
  «E poi niente. Mica l’ho fatto. È finita a palle di neve. Abbiamo pure costruito un pupazzo. Con la carota.»
  «Ah. Fico. E la montagna? Bella?»
  «Avoja. Ti ci devo portare. È tutta verde. Aria pura. Ma che ne vuoi sapere tu? Sei un metropolitano senza speranze, la natura mica la capisci. Pure se fai yoga. C’hai la colata di cemento nelle vene. Comunque… che hai combinato oggi?»
  «Guarda. Mica roba da poco. Sono riuscito a sconfiggere il mostro.»
Mi metto davanti alla Play, tra il coinquilino e il pinguino gigante, visibilmente colpito dalla vittoria di Simone. Afferro il joypad, la canna appena accesa e gioco, felice di essere tornato a casa. Concentratissimo non faccio caso all’SMS che mi arriva sul cellulare, una piccola frase, molto semplice e per nulla retorica; c’è scritto più o meno così: “Sono stata benissimo oggi. Sei il mio scalatore preferito (e anche il più simpatico). Nella guerra di neve sei stato un ottimo compagno, grazie di avermi protetta. Non vedo l’ora di rivederti, veramente. A presto”, firmato Anita. 


 [Il prossimo raccontino esce martedì 22 marzo]