Casa di nonna Concetta e nonno Mario si trova a Magliana. E’ da quando
sono arrivati a Roma che vivono in borgata e la borgata, in fondo, gli è sempre
piaciuta. Mia nonna, che è una strega, prepara ancora le sue prodigiose pozioni
e nel quartiere tutti nutrono un certo rispetto per lei. Da bimbetti, i miei
compari ed io, passavamo le giornate a casa sua a farci raccontare le storie di
Colobraro, il paese di maghi e fattucchiere e gli amichetti miei, col calare
delle tenebre, avevano una gran paura a tornare soli a casa, tra i casermoni di
periferia, in mezzo alle pozzanghere e ai tossici. Ogni mattina Concetta va a
fare la spesa, il fruttivendolo egiziano le regala sempre qualcosa per
tenersela buona e i vecchi in piazzetta la salutano con reverenza. Quando era
giovane e mia mamma poco più che una bambina le donne si facevano gli scongiuri
però poi, se il marito non tornava, andavano da lei a chiedere rimedi
miracolosi. Mia nonna cucinava e preparava. In altri tempi sicuro la Chiesa
l’avrebbe messa al rogo ché lei conosce i segreti delle piante e sa come usare
il sangue delle mestruate. I riti e le pozioni nella famiglia mia si tramandano
di generazione in generazione ma purtroppo mamma Viola è comunista e lei a
queste cose non ha mai dato troppo adito.
Io sono un credulone. Quando a sei anni restavo a cena dai due vecchi
avevo paura persino delle ombre.
Gli altri bambini mi rispettavano, la nonna mia è una maga e se qualcuno
osava contraddirmi la usavo come spauracchio.
Anche oggi, le rare volte che vado a trovarla, mi perdo ad ascoltare le
storie sue.
Concetta e Mario, da quando me li ricordo, sono sempre stati uguali. Lui
più dimesso, lei una furia.
Busso due volte.
La porta si apre con uno screeek veloce e deciso.
Casa dei nonni è buia, «Per risparmiare energia», dicono ogni volta.
Buia e piena di cose impolverate. Foto di morti e di paesaggi ormai andati.
L’odore è sempre lo stesso, un misto di vecchiaia e muffa e profumo da due
soldi. Anche le candele paiono sempre le stesse, come se non venissero mai
accese.
Le tenebre mi avvolgono.
Mario sorride, mi fa cenno di rimanere
in silenzio e di seguirlo in cucina.
Ci sediamo uno davanti all’altro ed io mi trovo a fare il solito gioco:
scoprire le somiglianze, le righe che tracciano il viso, l’increspatura degli
occhi. Nonno non parla, sembra fare lo stesso gioco.
«Grazie mille signora Concetta. Speriamo vada bene», sento dire da
un’altra stanza, probabilmente il salotto. Poi un uomo si affaccia alla cucina.
Mi guarda imbarazzato, gli occhi colpevoli. È alto e ben vestito: una camicia
bianca, una cravatta, una giacca color nocciola. Indossa occhiali spessi,
squadrati. È vecchio, avrà un’ottantina d’anni, eppure se li porta bene: gli
occhi sembrano sputare vitalità ad ogni battito di ciglia, la bocca si inarca
in un sorriso, lasciando intravedere una fila di denti ordinata. Ha pochi
capelli, bianchi e grigi, che coprono in maniera goffa una calvizie ormai
pronunciata. Sulla pelle ha diverse macchie marroni, classiche della vecchiaia.
Ogni tanto trema. «Arrivederla signor Mario», dice, «è il momento che vada».
Nonno sorride e annuisce. L’uomo mi osserva ancora un secondo, unico elemento
estraneo in una casa dove sembra trovarsi a suo agio. Corpo giovane tra vecchi.
Abbassa subito lo sguardo e fa un cenno di saluto. Ricambio. Poi raccoglie
l’ombrello nero (non l’ombrello comprato davanti alla metro quando piove a
dirotto, no, un ombrello vero, elegante) e va via, salutando un’ultima volta
Concetta.
«Elia», mi dice la vecchia, «come sei dimagrito. Mangi?»
«Mangio nonna mangio.»
«Hai preso da tuo padre».
«Chi era quell’uomo?»
«Un amico».
«E che voleva?»
«Una cura».
«Per cosa?»
«Per l’amore.»
LA
STORIA DEL SIGNOR PAOLO
Il signor Paolo, buon uomo, aveva lavorato tutta la vita. Uno di quei
mestieri ben remunerati, con tanto di tredicesima, quattordicesima e panettone
a Natale. Ogni giorno si svegliava alle sette e ogni giorno andava al lavoro.
Un abitudinario: adorava la colazione al bar e le carezze della moglie, i
piccoli gesti quotidiani. Al lavoro amava sistemare tutto, anche se le cose
erano già in ordine. La sua postazione era la più precisa dell’ intero ufficio.
Il signor Paolo non faceva molto e sapeva che il suo lavoro non avrebbe
cambiato il mondo. Ma a lui andava bene così, bastava poco per essere felice. E
poi adorava i numeri. Quindi, riflettendo, adorava quel che faceva.
Lavorava otto ore al giorno (più una, l’ora del pranzo). Mangiava con i
suoi colleghi e parlava di numeri. Non erano amici, al di fuori dell’ufficio si
vedevano due volte all’anno per le cene aziendali offerte dal presidente, però,
a pranzo, si trovavano bene, tutti esperti di formule. Le giornate finivano
velocemente e quando tornava a casa ad attenderlo c’era sua moglie, una donna
pia e senza grandi pretese che faceva la casalinga. Ogni sera il signor Paolo
trovava la cena pronta e l’appartamento pulito. La moglie adorava spolverare (o
almeno così credeva il marito, convinto che, per una donna, il lavoro più
consono fosse proprio quello di pulire casa e cucinare). Il signor Paolo e sua
moglie avevano due figli, un maschio e una femmina, che facevano un gran
baccano. Ah! Che urla e che grida
provenivano dalla cameretta dei fanciulli! Ma l’uomo, accondiscendente, non li
sgridava mai. Sapeva di essere un buon padre ma sapeva, con altrettanta
chiarezza, di essere poco presente. Li vedeva andare al letto, ogni giorno più
grandi, e li salutava con il bacio della buonanotte. Adorava però il momento
della cena, dove la famiglia si riuniva tutta insieme. Osservava i volti dei
suoi cari e sorrideva un poco, non troppo, non lasciando trasparire grandi
emozioni. Non era un uomo dedito a mostrare i propri sentimenti, anzi. Ma
voleva un gran bene a quei bimbi e sapeva che un giorno avrebbero fatto grandi
cose. Era la moglie a pensare a loro: li vestiva, preparava la colazione, li
portava a scuola e dopo li andava a prendere. I suoi bimbi, così diligenti.
Ogni mattina il signor Paolo andava al lavoro e ogni sera tornava
stanco, aspettando l’abbraccio della donna che amava.
E gli anni passavano e i bimbi crescevano come fiori al sole. Ogni
tanto, quando li guardava, non li riconosceva, tanto cambiavano in fretta. Di
notte si scopriva a spiarli nei lettini ormai stretti.
Poi un giorno la moglie si era ammalata. Un malattia incurabile, di
quelle cattive che non lasciano speranze. Al capezzale della donna il signor
Paolo piangeva, versando lacrime salate sul corpo stanco dell’amata. Lei, con
grande sforzo, lo accarezzava sul viso bagnato. «Non aver paura», sussurrava,
«andrà tutto bene. Io sarò sempre qui».
Poco dopo la moglie era morta, lasciando il marito e i due figli soli.
Il funerale era stato sobrio e
silenzioso. Poche persone. Il signor Paolo osservava ogni uomo ed ogni donna,
ogni viso scavato, ogni pensiero oscuro. Osservava e scopriva. La moglie non
aveva amici, solo qualche parente lontano e la sorella. Aveva passato la sua
vita al chiuso, tra pentole e fornelli. Lui non l’aveva mai portata a cena
fuori, al cinema o in vacanza. Erano stati sempre a casa. E adesso non era
possibile recuperare. Cosa avrebbe dato per un’ultima notte! In fondo il signor
Paolo era sempre stato così; anche appena conosciuti, l’unica volta che erano
andati a cena fuori avevano mangiato una pizza, tra l’altro disgustosa.
Addirittura per il pranzo del matrimonio l’uomo non si era sprecato più di
tanto. Se solo fosse potuto tornare indietro nel tempo avrebbe dimostrato il
suo amore, l’avrebbe lasciata libera. Libera.
Senza accorgersene aveva incatenato quella donna alla casa, agli obblighi
domestici, alle pulizie. Chiusa in una gabbia dorata, senza amici, senza
nessuno con cui poter parlare. Così, davanti al corpo della moglie, aveva
pianto e le lacrime erano cadute copiose sulle sue mani. Aveva pianto invocando
perdono ad un dio sconosciuto.
La casa era buia e tetra.
Il padre e i bambini erano entrati
piano, quasi senza far rumore; aspettando tutti e tre il richiamo della donna,
«La cena è pronta!», speravano di sentire urlare. «È a tavola!».
Di notte, sotto alle coperte, l’uomo si era girato più volte, alla
ricerca del corpo dell’amata.
Non sopportava quel letto così grande, i due cuscini uno accanto
all’altro, l’odore ancora potente della moglie. Non sopportava le foto
incorniciate, i sorrisi di quel volto ormai scomparso, il ritratto del
matrimonio -come era bella vestita di bianco-, la croce venerata. Non tollerava
niente. Però la cercava, gli sembrava di sentire i passi nascosti, le posate in
cucina sbattute sul lavandino, lo sciacquone del bagno appena tirato. Ma quando
apriva gli occhi non c’era nessuno, solo la sua ombra.
Le giornate passavano e il signor Paolo, novello casalingo, si cimentava
in ardite prove culinarie. Anche preparare la moka sembrava un’azione
difficilissima, figurarsi un piatto di pasta. Senza la moglie non aveva
speranze, alle volte si immaginava morto, sconfitto dai morsi della fame. Non
aveva mai badato ai gesti dell’amata. A quanto faceva. Per lui era
semplicemente ovvio. In fondo chi era
a portare i soldi a casa? Da chi provenivano i fondi per comprare i detersivi e
i saponi e le stoviglie? Chi portava i pantaloni? La moglie puliva i piatti,
nulla di più. Ma adesso la solitudine lo costringeva ad aprire gli occhi. Non
sapeva far niente: passare lo straccio, spazzare, preparare la lavatrice. Era
perduto.
Ogni sera, di ritorno dal lavoro, indossava la parannanza e tentava.
Con i figli non riusciva a parlare. Chi
erano questi sconosciuti ormai sedicenni che si aggiravano per casa? Cosa
volevano? Come potevano pensare che lui avrebbe fatto tutto? Anche il momento
della cena si era consumato in poco tempo, finendo un giorno, quasi
naturalmente. Adesso mangiavano in orari diversi, cibi surgelati e già pronti.
Ogni tanto, di notte, sentiva piangere il maschio. Ma non entrava mai nella
cameretta, non avrebbe saputo cosa dire. Non sapeva niente dei suoi bambini,
sangue del suo sangue. L’unica cosa che rammentava era che, da piccoli,
adoravano le fettine panate. Cosa che non sapeva preparare.
Tutto crollava, di giorno in giorno. La casa sporca, il cibo avariato, i
figli persi.
Il 9 febbraio era stato chiamato dalla scuola della figlia. I professori
erano molto preoccupati, la ragazza prendeva in giro tutti, si comportava male,
non andava a lezione, bighellonava lungo i corridoi.
«Da quando?», aveva chiesto.
«Da quando sua moglie è morta.»
Non sapeva come fare. Non poteva
continuare così. La sera, pioveva a dirotto, si era seduto a tavola guardando
la figlia. Come si sarebbe comportata sua moglie?
«Io». Non uscivano le parole
«Che vuoi?»
Non poteva dire niente. Non sapeva niente.
Era rimasto in silenzio, abbassando lo
sguardo di fronte agli occhi accusatori della ragazza.
Al lavoro rimaneva muto, i numeri che tanto amava avevano perso ogni
fascino. La trasformazione, per quanto lenta, si era manifestata soprattutto
sulla schiena, sempre più gobba. Trasportava un macigno quella schiena, un
fardello oscuro. Avrebbe voluto piangere ma non poteva, anche le lacrime si
ribellavano al suo volere.
A casa si trovava solo a guardare la televisione. Aveva lavorato per
tutta la vita, non coltivando passioni. Sì, un uomo senza passioni. Nudo, si
contemplava allo specchio osservando il torace calante, i capelli sempre più
radi, la schiena curva.
Non poteva continuare così.
Odiava il nero. Il grigio. L’oscurità.
Ma non riusciva ad uscirne.
Bramava la libertà.
Una patina si era posata sulla mente
ormai stanca, un manto di tristezza perenne, una malinconia che si trascinava
appresso, come un fagotto incatenato. Questa… questa disperazione era diventata la sua compagna di vita; la faceva
sedere accanto, lasciando la sedia un tempo della moglie libera. La
disperazione era contagiosa e colpiva i figli, soprattutto la femmina: tornava
tardi la sera, gli occhi stanchi, stralunati, lo sguardo perso, il viso pallido
e scavato. Il signor Paolo sospettava ma non chiedeva, sapeva ma non
rimproverava. Non era in grado, non poteva. Non aveva chiesto neanche quando la
ragazza era andata via, appena diciottenne; non aveva chiesto il giorno che
l’avevano trovata riversa sul pavimento e non aveva chiesto i mesi dopo, le
rare volte che la andava a trovare al centro di recupero.
Il signor Paolo era un debole, un uomo grigio, una persona perduta.
La depressione ampliava le sue manie e
spesso il figlio lo trovava solo, in cucina, alle tre di notte, a parlare con i
suoi amici immaginari. Il figlio del signor Paolo non era una persona cattiva,
ma non sopportava il padre. Lo accusava della morte della madre. Morire, nient’altro.
Il signor Paolo chiedeva solo questo. Immaginava il suo suicidio, il laccio
attorno al collo o il lancio nel vuoto. Avrebbe voluto tanto volare, diventare
un uccello, un pettirosso.
Alle volte si domandava quanto giocasse con la sua depressione. Era
colpa della moglie, presenza ovvia nella sua vita.
Ma adesso?
Adesso c’era il suicidio.
La
sentiva la vocina viscida sussurrargli all’orecchio le identiche parole ogni
sera; la stessa allettante proposta. Avrebbe raggiunto la sua adorata, non
sarebbe più stato in pena per la figlia, non avrebbe più dovuto pensare al
maschio.
Sì.
Una casa così vuota, troppo grande. La cena consumata velocemente
davanti al televisore, le posate ben strette, le nocche rosse, il respiro
trattenuto.
Quella
notte non aveva dormito, sveglio in preda ad una strana euforia, la vocina
stridula a bisbigliargli parole. Quando si era alzato nudo e aveva spalancato
la grande finestra il vento gelido l’aveva investito. Si era sporto sul
davanzale, un attimo e tutto sarebbe finito. Il cuore aveva accelerato il suo
battito, una lacrima di sudore era colata giù dalla fronte.
Il piede.
Poi l’altro.
Il corpo proteso.
I pensieri.
Uno sguardo alla luna.
In avanti.
No.
Poteva rimanere paralizzato.
O in coma.
Meglio impiccarsi.
Il giorno dopo si era procurato una corda e la sera se l’era legata al
collo. In piedi sulla sedia aveva aspettato il momento giusto. Era un fallito.
Non era stato capace di proteggere la moglie e la figlia, meritava di morire.
Il nodo stretto.
Tre
due
uno.
La porta si era spalancata.
Il signor Paolo era scivolato cadendo a
terra.
Più volte, nei giorni seguenti, aveva pensato ad un miracolo. Nel letto
di casa, circondato dai figli, si era domandato di cosa fosse fatta la corda.
“Una corda” si diceva, “non dovrebbe rompersi”.
Con la figlia in seguito aveva riso dell’accaduto. L’idea del suicidio,
come un dio che si fa beffe dell’uomo, li aveva avvicinati. Si erano scoperti
complici in un mondo di perdizione. Corde, video, coltelli, roulette russa.
Ogni sera la ragazza arrivava a casa con un film diverso, uno di quei
lungometraggi che, fino a poco tempo fa, il signor Paolo avrebbe disprezzato.
Scene di sgozzamenti e di putrefazione. Cose così impossibili da diventare
divertenti. La figlia era tornata a vivere a casa, incuriosita da questo nuovo
papà che andava in giro in maglietta nera e sguardo folle. Era scattato
qualcosa la notte del tentato suicidio nella testa dell’uomo. Una linea si era
spezzata ed un’altra aveva preso il suo posto. Ad un passo dalla morte il
signor Paolo si era reso conto di voler vivere.
Consapevolezza.
Forse pazzia.
Voleva
vivere.
Era
stata Sorella Morte a farglielo capire un attimo prima di esalare l’ultimo
respiro. E quando il respiro non era finito aveva inspirato e la verità era
apparsa limpida e chiara. Ma il contatto con la morte l’aveva cambiato. Non
poteva continuare a vivere in quel modo. La figlia se n’era subito accorta,
lasciandosi coinvolgere dall’entusiasmo dell’uomo. Lo assecondava e lo seguiva
come un cane fedele. Il figlio li guardava con curiosità ma senza intervenire.
Dopo tanti anni il signor Paolo imparava a conoscere la sua bambina. Non
una tossica, non una ladra, solo sua figlia. La accarezzava la sera, la testa
poggiata sulla spalla, e le rimboccava le coperte baciandola sulla fronte. Lei
si voltava un pochino e sorrideva nel sonno.
Nei mesi successivi il signor Paolo aveva cominciato a leggere
tantissimo. Libri sui numeri, sull’archeologia e sull’Impero Romano. Adorava
l’Impero Romano.
Il martedì e il mercoledì seguiva un corso di cucina.
Il lunedì e il venerdì uno di tango.
Il sabato e la domenica andava con i gruppi organizzati a fare le gite.
A cena cucinava sempre piatti prelibati abbinati ad ottimi vini dal
colore rosso intenso. I cibi surgelati erano solo un ricordo relegato in un
angolo nascosto del cervello. Poteva tutto, il re dei fornelli. I figli
ridevano della sua dote nascosta e ogni tanto ridevano anche della mamma, «Ché
se ti avesse visto adesso sì che si sarebbe meravigliata!». E lui, macchiato di
sugo e con gli occhiali appannati dal vapore, per la prima volta sorrideva
pensando alla moglie.
Ora puliva casa e disprezzava lo sporco, conosceva tutti i prodotti,
ogni detersivo, qualunque offerta. Ascoltava musica e passava lo straccio.
Adorava la radio e ogni tanto si ritrovava a simulare due passi di tango.
I figli crescevano e lo guardavano con occhi diversi. Non un padre,
questo essere inarrivabile, ma un uomo. Una persona con mille difetti e mille
problemi. Un confidente con cui parlare, un amico con cui vedere un film, un buon
cuoco.
Quando se ne erano andati via, lui fidanzato e lei felicemente single,
il signor Paolo aveva pianto un pochino, solo in quella casa così grande. Ma la
solitudine, lui che la conosceva così bene, non era durata molto. Si era
ripromesso di non farla entrare un’altra volta nella sua vita; così, nell’arco
di un mese, la casa era diventata, come lui stesso amava definirla, “un porto
di mare” per uomini e donne non più giovanissimi. Cene, incontri tra amici,
dibattiti e discussioni. Era circondato da persone che gli volevano bene.
Costante e continuo bisogno di vita.
Poi, un sabato pomeriggio, osservando il
lungo acquedotto del parco del Quadraro, l’aveva conosciuta. Camminava
concentrata accanto agli antichi ruderi e domandava e chiedeva e interveniva.
La guida rispondeva e annuiva un poco scocciata un poco divertita. La signora Mara
era una donna piccola e minuta con gli occhi graziosi e i capelli grigi e lunghi.
Il signor Paolo l’aveva guardata, dapprima turbato, poi colpito. Non
riusciva a staccarle gli occhi di dosso ma non aveva il coraggio di parlarle.
Ogni sabato si incontravano in una parte diversa di Roma, un grande
gruppo formato da venti trenta persone, e il signor Paolo aspettava
l’intervento della signora Mara. Erano sempre domande argute e intelligenti,
mai banali, sintomo di una mente brillante. Con lei, ne era sicuro, avrebbe
potuto passare giornate intere a disquisire di musica, tango e antichi romani.
Ma non trovava le parole. L’arte della seduzione era una magia oscura. Il massimo
che riusciva a dire era un rapido «Salve», intervallato da una smorfia veloce.
La signora Mara non lo degnava di uno sguardo e l’uomo si struggeva d’amore.
Non era possibile.
Adulto.
Anziano.
Vecchio.
“L’amore”, pensava, “colpisce solo i giovani”.
Eppure sembrava proprio amore. L’uomo
contava i giorni della settimana, le ore e i minuti! Aspettava con ansia il
sabato e la sera prima non riusciva a dormire. Avrebbe potuto smettere di
mangiare se la signora Marta l’avesse amato. Il cibo non gli sarebbe più
servito, si sarebbe nutrito del suo profumo.
La desiderava.
Desiderava far l’amore con lei,
possederla.
Le ore che precedevano la gita del sabato passavano di corsa, alla
ricerca dell’abito perfetto, dell’accostamento migliore.
I figli non capivano e lui non raccontava: si vergognava della sua
passione, un sentimento considerato fuori tempo massimo. Si affrettava subito a
pensare alla moglie. «Non smetterò mai di amarti», sussurrava alla foto, come a
volersi giustificare. Amava tutte e due.
“Dio me ne scampi”, pensava.
Non era mai stato così felice. Viveva
per l’incontro del sabato, per la gita a Roma, per gli occhi della signora
Mara.
Alla fine i due avevano cominciato a parlarsi, dapprima brevi saluti,
poi, via via, discorsi più lunghi e articolati. Dal banale «Ciao» erano passati
a dissertare di antichi trattati romani, di capitelli e affreschi. Che cultura
la sinora Mara, che classe! Entrambi aspettavano il sabato con emozione, per
poi ritrovarsi vicini ad ascoltare la guida di turno. Come tornati adolescenti
si sorridevano di nascosto, lanciandosi bigliettini divertenti e ridendo alle
stesse battute; ogni scusa era buona per passare un momento di più insieme,
qualunque pretesto, anche il più banale.
Ma la vecchiaia gioca brutti scherzi e il signor Paolo non aveva il
coraggio di dichiararsi. Entrambi vedovi, ottantenni, con figli adulti, come
potevano coronare il loro sogno d’amore? L’uomo passava le nottate a struggersi
di desiderio, la signora Mara non avrebbe mai accettato un corteggiamento. Era
una donna tutta d’un pezzo, il ricordo del marito perduto l’avrebbe
accompagnata fino alla morte.
Ma la morte, per due anziani, è cosa quotidiana, una compagna con cui
convivere. Ed è la morte che detta le azioni, la morte e i rimpianti. Il signor
Paolo lo sapeva. Doveva far qualcosa, non mancava tanto. A cena ne aveva
parlato con la figlia. Solo lei poteva capirlo. Le aveva raccontato tutto, ogni
cosa, sperando nella sua comprensione, desiderando che notasse l’imbarazzo
dipinto sul volto. Non poteva tenere tutto per sé.
«La amo», ripeteva liberato.
La donna però non aveva capito. «Papà,
sei troppo grande. Sei un vecchio, l’amore non fa per te.»
Per la prima volta da tanti anni la
figlia si era ritratta indietro, delusa e sconcertata. Affranta. Come poteva
quell’uomo così anziano innamorarsi? E la mamma, che fine avrebbe fatto? Il suo
cuore ora era di un’altra?
«Tua madre sarà sempre nel mio cuore. È una cosa… diversa…»
No.
Voleva sostituirla.
Qualche giorno dopo ci aveva riprovato, questa volta con gli amici del
tango. Li aveva invitati a cena e si era rivelato. La reazione era stata la
stessa della figlia. Come poteva un uomo di una certa età innamorarsi ancora?
Era… contronatura. Immorale. E di una vedova per di più! Non poteva fare il
ragazzino perché lui non era un
ragazzino. Da anni. Si era giocato i momenti migliori della sua vita e non sarebbero
più tornati, prenderli con la forza era sbagliato, doveva accettare la sua età.
La vecchiaia e i capelli bianchi. Un pensionato. Un nonno. Un uomo attempato,
debole e fiacco. Bisognava che se ne rendersene conto, ne andava della sua
salute. «Lo diciamo per il tuo bene».
Forse avevano ragione.
Ma ogni sabato, ogni volta che vedeva la signora Mara, il suo cuore
sussultava di gioia; una serie di guizzi lenti e veloci.
Doveva tentare un’ultima volta, avrebbe lasciato decidere al figlio.
A pranzo si erano guardati a lungo, in
silenzio, i nipotini a giocare sul grande tappeto rosso.
«Ti devo parlare».
«Cosa vuoi dirmi papà?»
Non trovava le parole.
«Tu… io… mamma…», balbettava.
Dietro il figlio, d’improvviso, era
comparsa una figura oscura, che l’aveva accompagnato per gran parte della sua
vita. Sorella Morte annuiva affilando la falce.
«Mi sono innamorato…»
Il figlio l’aveva guardato, uno sguardo
divertito. «Raccontami.»
Il signor Paolo si era sfogato, narrando le gesta della sua amata, i
palpiti del cuore e la gioia di tornare ragazzo. Una parola dietro l’altra
senza mai fermarsi. Ed era stato bello parlare per la prima volta col figlio.
«Invitala ad uscire».
«Come?»
«Invitala ad uscire papà. Sei grande ormai, saprai come si fa. O no?»
No. L’aveva dimenticato. Ormai deciso ad
incontrare la signora Mara cercava mille soluzioni per rimediare un
appuntamento; una scusa qualunque, fosse anche un caffè! Ma come fare? Come
riuscire nell’impresa?
«Prima o poi si stuferà di aspettare», gli aveva detto una mattina il
figlio al telefono.
Il signor Paolo però si bloccava ogni volta. Provava davanti allo
specchio, in bagno. Preparava i discorsi. Niente, non poteva riuscirci.
Non esisteva una soluzione.
A meno che…
…un pizzico di magia sarebbe bastato.
Certo, non credeva a queste cose,
reputava maghi e cartomanti una massa di ciarlatani. Ma conosceva una donna, la
strega del quartiere, rispettata da tutti, che avrebbe potuto…
Pazzie.
Sì ma tentare…
Una vecchia megera sposata con un uomo silenzioso.
Una donna pia.
Che veniva dal paese delle incantatrici.
Tanto valeva provare.
Così si era spinto più in là, credendo nella magia. Si era fatto
coraggio ed era andato dalla vecchia Concetta, la maga del quartiere, a
chiedere l’amuleto d’amore.
«E poi?», chiedo a nonna.
«E poi è venuto qua ed io ho preparato un piccolo intruglio.»
La guardo, ogni tanto mica la capisco ‘sta
vecchia. «Cioè, e adesso la signora Mara se lo beve e si innamora del tizio là,
di Paolo? Eddai no’, io a ‘ste cose lo sai che non ci credo. Cioè, non ci credo
molto.»
«Sciocchino. La mistura non è per lei.»
«Ah. E per chi allora?»
«Per il signor Paolo. Per trovare coraggio e potersi così dichiarare.
Aveva bisogno di un poco di fiducia in se stesso. La magia serve a questo.»
«Tipo l’omeopatia no? Che so’ tutti zuccherini.»
«Elia, io pratico stregoneria, o almeno così dicono. Quel che faccio è reale.
Uso le erbe.»
«E adesso?»
«E adesso il signor Paolo andrà a casa, berrà la pozione e sabato si
rivelerà al suo amore. Ne sono sicura.»
La guardo in silenzio, Concetta sorride e mi guarda a sua volta,
preparando il tè.
Rifletto sul signor Paolo, ché forse anche io dovrei fare una cosa del
genere. Con la donna ch amo dico.
Però il coraggio mica ce l’ho.
Ora lo rivedo, quell’uomo così anziano,
perso. A cercare l’amore, come tornato bambino, incredulo di fronte alla magia.
Lo rivedo e mi viene da sorridere, ammirando il suo coraggio.
Fuori, un pettirosso vola nell’aria.
Se vuoi leggere le storie di nonna Concetta e della famiglia mia le trovi su "Un centimetro in più" la raccolta di racconti del sottoscritto:
[La prossima storiella esce martedì 5 aprile]