lunedì 30 novembre 2015

IL FREDDO



  In genere succede con l’arrivo del freddo.
È una cosa improvvisa il freddo, giunge da un giorno all’altro, in un momento. È un attimo, questione di un paio di giorni (e un paio di giorni nell’economia del tempo corrispondono al battito d’ali di una farfalla); il giorno prima te ne stai tranquillo tranquillo in maglietta e il giorno dopo eccolo. Il freddo osa spietato, come una dama bianca dallo sguardo triste, e si sparge su ogni cosa: sulle case, sulle strade, sulle foglie e sulle persone. I colori cambiano e il grigio diventa un compagno frequente, un amico quasi, pronto ad avvolgerti con il suo manto di nebbia.
  Quindi ti vesti a strati. Usi le magliette vecchie come canottiera, mediti se indossare la calzamaglia (orribile ricordo della settimana bianca con familiari annessi) e, in men che non si dica, il tuo peso aumenta di qualche chilo. Sei una cipolla adesso.
  Ma il freddo non ti lascia.
Poi succede.
Ti capita mai?
  Le mani si spaccano, il pollice sinistro prende a sanguinare, un lungo squarcio profondo; sulle nocche si formano piccole chiazze rosse, le vene pulsano e ogni dito si riempie di squame, come se la pelle intera, totalmente screpolata, stesse per cadere.
  Ti gratti, lasciando pezzi di carne proprio sotto le unghie. È una piccola scarnificazione in fondo e sembra quasi ti piaccia.
  Il pizzicorio aumenta.
Qualcuno ti propone una crema.
  Forse dovresti usarla, ti darebbe, come dire, sollievo.
Ma tu, lo so, odi le creme.
  Decidi piuttosto di uscire, è mattina, il sole è sorto da poco (già avvolto dal grigio) e devi correre al lavoro.
  Hai dormito dai tuoi genitori, ogni tanto lo fai. Ti piace tornare ragazzo, quando si faceva colazione tutti insieme e tuo padre ti diceva di trovare i tre lati belli della giornata chè a te di andare a scuola proprio non andava. Odiavi i tre lati belli, però li amavi anche, ché era un rito che vi portavate appresso da sempre, dalle elementari forse.
  Fumi una sigaretta e poi ti avvii.
Il freddo ti accoglie prepotente sputandoti in faccia il suo alito gelido, glaciale.
  Ti chiudi bene nella giacca, stringi la sciarpa marrone e indossi il cappello di lana che sembra un preservativo. Non hai i guanti ovviamente.
  Prendi la bici e pedali.
Ti piace il vento. Adori la sua violenza, la forza con cui ti colpisce le guance rendendole rosse come la confezione delle caramelle Rossana.
  Lacrimi.
Pedali veloce, percorrendo la pista ciclabile piena di foglie colorate, per un attimo solo ti soffermi sul giallo vivo, acceso. Adori quel giallo.
  Le schiacci, assaporando il crepitio sotto le ruote.
Corri ancora di più, sgattaiolando adesso tra le automobili, veloce come un fulmine, mentre gli uomini e le donne urlano a squarciagola frasi senza senso. Ti domandi non di rado perché si ostinino a prendere la macchina. Ma da tempo hai rinunciato a capire la mente umana. Per un momento solo ti rendi conto che il traffico è aumentato ancora di più, come se tutti, da un giorno all’altro, avessero scelto di prendere il proprio mezzo a quattro ruote.
  Con una frenata brusca, da ciclista incallito, sgommi davanti alla metropolitana.
  A te, diversamente dagli altri, piace la metro. Prediligi le storie altrui, i piccoli segreti confessati a bassa voce, le chiacchiere degli sconosciuti, gli sguardi persi, i volti e i visi. Alle volte spii addirittura i messaggi mandati dal cellulare del tuo vicino. Ti piace leggere, stretto nel vagone, seduto quasi addosso ad un’altra persona. E ti piace anche quando la metro è piena, i corpi accalcati uno sull’altro, le cartelle dei ragazzi pine di libri e astucci e quaderni, l’uomo con la valigetta legata al polso, il tizio che suona il violino per due spicci. C’è di tutto, per questo l’adori.
  Osservi senza attenzione un furgone particolare, verde e con i vetri oscurati, che non dovrebbe essere lì.
  Leghi la bicicletta e noti, con un colpo d’occhio veloce, che la stazione è diversa dal solito. Non capisci subito il perché. Controlli di nuovo i lucchetti (lo fai tre volte, ripetuto per tre) e poi ti avvii.
  Fai il biglietto.
  Di nuovo la strana sensazione di colpisce.
Improvvisamente ti senti osservato.
  Ti guardi intorno, un vecchio che ciancica una sigaretta spenta, una pazza che conta le cartacce gettate a terra, un bambino che ride sul passeggino.
  Timbri il biglietto ed entri.
Dal gabbiotto il controllore ti scruta.
  Alzi lo sguardo alla ricerca di telecamere. Ti senti osservato, ogni attimo di più.
  Ti volti.
Si respira una strana tensione. Sembra spessa l’aria, come il burro, e improvvisamente avresti voglia di affettarla.
Immagini il burro bianco, il coltello che affonda, le piccole onde dense che si increspano sulla lama.
  Riprendi a camminare.
  E li vedi.
Sono due uomini e ti puntano addosso quello che sembra un mitra.
  Improvvisamente il cuore sembra scoppiare, ti tira e preme sulla carne, come a voler uscire.
  Apri la bocca.
  Sudi.
Il caldo ti assale.
  Uno dei due ti studia attentamente. «Salve», ti fa.
  «Salve», rispondi abbassando lo sguardo.
Sai che non dovresti. Bisogna ostentare sicurezza, sempre, altrimenti sospetteranno di te.
  «Può andare», ti dice l’uomo facendo un cenno con il fucile.
Abbassi le mani, che senza rendertene conto avevi alzato in segno di resa.
  Una donna ti guarda e quando i vostri sguardi si incrociano lei subito si volta dall’altra parte, impaurita.
  “Forse”, pensi, “il mio zaino è troppo grosso”.
Ti fai trascinare dalle scale mobili, la telecamera spia ogni movimento.
  Avresti voglia di una sigaretta.
In cima un uomo con un cane lupo controlla le persone.
  È il tuo turno, il cane ti odora.
Sulle panchine sono sedute due signore, in silenzio osservano ogni individuo. Si soffermano a lungo sulla donna velata, poi su un tizio con la barba lunga.
  Altri due uomini armati pattugliano i binari.
  «Allontanarsi dalla linea gialla», ordina la voce registrata.
Fai un balzo indietro.
  Osservati intorno.
  Ci sei?
  Bravo.
Guarda bene, vedi? Siete pochi, pochissimi. Questa è l’ora di punta, in genere c’è sempre tanta gente.
  Okay.
Siediti un attimo.
Perfetto, così.
  Sì, hai visto bene, ci sono pochi immigrati in giro.
Ripensi al venerdì, quando andavi via da casa dei tuoi genitori, vicino alla moschea, la fiumana di gente in attesa alla fermata dell’autobus.
  Li vedevi allontanarsi con lo sguardo basso, come se dovessero nascondere qualcosa.
  Ora guarda meglio.
  Un poliziotto ne ferma uno, poi un altro, poi un altro ancora.
Sì, hai capito. Bloccano le persone in base al colore della pelle.
  Vorresti intervenire ma non puoi, non ne hai il coraggio.
Arriva la metropolitana, le porte si aprono. Aspetti che la gente esca, poi entri, riuscendoti a sedere senza problemi.
  Un uomo corre, salendo al volo. Di colpo una signora si allontana spaventata.
  Puoi vederli, non è vero? Sono i nervi. I nervi tesi, pronti a scattare, aspettano solo l’ordine giusto.
  L’adrenalina è pompata a mille.
Sul vagone c’è una guardia privata.
Squadra tutti, uno ad uno.
Ma non è l’unico, non è vero? Vi guardate tutti quanti. Nessuno si fida dell’altro. Osservate le borse, gli zaini, le valige.
  Alla fine ce l’hanno fatta ad inculcare la paranoia. Ci sono riusciti.  Di nuovo, la metropolitana si ferma, ad entrare questa volta è un uomo grande e grosso, i capelli biondi e unti gli calano fino alle spalle e due occhi da pazzo osservano il mondo da un viso butterato, come se fosse stato grattato da una grattugia arrugginita. Guarda te, poi guarda il tizio accanto. «Difendiamo la Nazione, non vogliamo immigrazione!», canta. «Difendiamo la Nazione, non vogliamo immigrazione!»
  Qualcuno sorride, una signora annuisce. La guardia privata non fa niente, ma il viso gli si deforma un pochino, creando una piccola dunetta all’insù, proprio sopra al mento.
  Rimani fermo, osservando una donna dai tratti orientali.
L’uomo continua a cantare le sue canzoni.
  Dovresti intervenire, non credi?
  Ma non ci riesci, ti scopri improvvisamente vigliacco.
  La cosa ti turba.
L’uomo si siede e si accanisce sul cellulare.
  Ora sono due donne ad attirare la tua attenzione. Avranno al massimo sessant’anni e parlano fitto fitto.
  «Io non sono razzista», dice una. «È che sono troppi».
  «Sai quanti terroristi sui barconi? Altro che viaggi della speranza… te lo dico io! Come la mia vicina di casa no? Indiana credo o forse bengalese… che mica si capisce la differenza. Tipo i cinesi, tutti uguali. Che gliel’ho detto io: ‘Sei bengalese o indiana?’, e lei manco m’ha risposto, come se non conoscesse l’italiano… lo capiscono eccome… ma fanno finta di no. Così poi li aiutano quelli… che fanno tutti i buoni. Poi però ce li ritroviamo sotto casa a pregare sul marciapiede… sul marciapiede! Almeno noi c’abbiamo la chiesa. Vabbè. Cucina tutte quelle robe strane, la tizia là, l’indiana… spezie ovunque che fanno una puzza che solo Dio lo sa. Oh, rimane giorni e giorni sul pianerottolo, vogliamo fare una petizione per cacciare lei e tutta la famiglia sua, c’è troppa puzza. Casomai cucinano anche i cani, e t’ho detto tutto. Quell’altra. Marocchina. Bardata che è un piacere. Parla una lingua strana e scrive con un alfabeto che non si capisce niente. L’altro giorno però gliene ho dette quattro, quando rispondeva in arabo al cellulare. Chissà che si dicono no? Che ne sai? Casomai progetta l’attentato a Roma, qui… sulla metropolitana, che io la metro la prendo tutti i giorni e tra scioperi, zingari e immigrati è un gran bel casino. Comunque… io mica mi fido più. Non prendo neanche la frutta dall’egiziano sotto casa… che ci mette i cosi chimici là… mica no. ‘Sti musulmani sono ovunque. Peggio dei rumeni».
  «Vogliono invaderci».
Invasione
Conquista
Aggressione
Calata
Devastazione
Occupazione.
  “Difendiamo le nostre radici”, leggi su un adesivo attaccato sulla parete sudicia.
  Ripensi all’altro giorno, a quando l’amico tuo, quello che insegna italiano ai migranti, ti ha detto che gli studenti a scuola non ci vanno più, che hanno paura di uscire di casa.
  Fai uno più uno e capisci che le prime vittime del terrorismo sono proprio loro, gli immigrati.
  E l’altra vittima sei tu.
Finalmente è il momento di scendere. Ad accoglierti nuovamente gli uomini in divisa. Di nuovo fermano solo gli stranieri.
  Sali in superficie, la telecamera ti scruta.
Il blindato, il secondo che vedi (solo ora te ne rendi conto) dei militari è proprio lì, fermo sul ciglio della strada, come se fossimo in guerra. Due poliziotti pattugliano il marciapiede.
  Cammini veloce, non hai voglia di voltarti. I bar sono vuoti e la sbirraglia è ovunque, in ogni angolo. Un aereo macchia il cielo grigio.
  Ora sei lì, sull’aeroplano. Voli nei cieli della Siria e bombardi. La tua bandiera è quella francese ma potrebbe essere quella di un qualsiasi paese occidentale. Sganci bombe, una due tre. Quando l’ordigno atterra il boato che senti è immenso e fragoroso. Ma non vedi niente, non sai niente. “E’ un covo di terroristi”, pensi. E forse è vero, forse i terroristi ci sono. Ma proprio lì vicino c’è una famiglia, un villaggio, un paese. Se solo scendessi per un attimo ad osservare quel che hai fatto, le case che hai distrutto, le vite che hai spezzato, le gambe maciullate, il sangue… se solo vedessi il padre che piange il figlio che hai ucciso forse, e sottolineo forse, capiresti. Scopriresti dove nasce il terrorismo, su chi fa leva. Ma tu sei un aviatore, non vedi, sganci le bombe e fuggi via. Alle volte neanche ci sei su quell’aereo, lo comandi a distanza, al sicuro in una base segreta, ben al riparo da occhi indiscreti. Certo, la colpa non è tua, esegui gli ordini. Sei solo un burattino. Ma la colpa allora di chi è? Cercali. Eccoli lì, predicano dal cucuzzolo della montagna, ben nascosti, incitando all’odio in nome di un dio o marciano tutti insieme, in giacca & cravatta per le vie di Parigi, urlando parole di guerra contro tutto quel che è diverso, tutto quel che intralcia il profitto, il capitale. Sono uguali e ci governano. Alcuni hanno una lunga tunica, altri begli abiti neri. Ma sono identici e noi, il popolo, ci caschiamo.
  Eppure ci piace.
Ripensi alle immagini del profilo di tanta gente su Facebook, alla bandiera francese impressa sui volti. Sicuro nessuno farà la stessa cosa con quella siriana, come se i morti fossero diversi. Ed è così, lo sai. Ci sono morti di serie A e morti di serie B. Anche a te, non essere disonesto, colpisce di più un attentato in Francia che in Iraq.
Quasi corri e finalmente sei dentro, in ufficio.
  Ti siedi al tavolo e accendi il computer. Avresti voglia di internet, ma hai il terrore di leggere i commenti di alcuni personaggi poco raccomandabili della politica italiana. Uno in particolar modo, uno che viene dal nord e che urla e sbraita. Uno che gioca sulle disgrazie altrui, che gode degli attentati, sapendo che la propria popolarità aumenterà. Propone la guerra, lo sterminio, la distruzione. Accomuna tutti i musulmani, li rende uguali lanciando parole d’odio. E tutti ci credono e osservano l’Islam con occhi diversi, occhi di paura, da coniglio ferito. È un gioco. Lo so, sai che ci stiamo cadendo con tutte le scarpe. Che stiamo facendo esattamente quel che vogliono i terroristi. Si chiede ai musulmani moderati di prendere parte, di giustificarsi. Come se la colpa degli attentati fosse loro. Sempre messi in mezzo, anche se non hanno fatto niente. Li vedi fare cortei contro il fondamentalismo, domandare scusa in televisione, gridare perdono dalle pagine di un giornale qualunque. È quello che chiede l’occidente. Giustificatevi in quanto islamici. Potreste essere colpevoli. Come se dicessimo ai cristiani di giustificarsi per ogni attentato compiuto in nome di Gesù. Come se, in quanto bianchi e cristiani, ci dovessimo automaticamente sentire in colpa per i crimini e gli omicidi commessi in ogni parte del mondo. 
  Compili le tue scartoffie, timbri moduli.
L’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante ciancica parole senza senso. «Vivono in venti nella stessa casa, l’ho visto in un servizio in tv», dice.
  La tv.
Provi a rispondere, alzi il sopracciglio sinistro e fai per dire qualcosa, qualunque cosa che blocchi questo odio trasversale. Vorresti spigare, come si fa con un bambino mezzo scemo, che vivono in tanti nello stesso appartamento perché gli affitti sono alti, perché non si può fare altrimenti. Vorresti dire che non è piacevole condividere la stessa camera con altre dieci persone, che hai degli amici che darebbero un occhio della testa per poter stare tranquilli in una stanza da soli, nella propria intimità.
  Ma è inutile, non fai a tempo ad aprire bocca che già c’è un altro che risponde, più veloce di te: «E chissà cosa nascondono!», creando un cerchio plateale attorno alla scrivania, come ad indicare armi e munizioni.
  È uno scontro di civiltà, questo stanno creando. Da una parte l’occidente, dall’altra la quasi totalità del pianeta. Ci stanno mettendo uno contro l’altro e i tuoi colleghi ci cascano con tutte le scarpe, in questo trabocchetto perfetto. Hanno paura, lo vedi da come annuiscono, da come si ritrovano spiazzati, da come il terrore vela i loro occhi. Hanno paura di non poter continuare a fare quello che hanno sempre fatto. La birra il venerdì sera, la discoteca, il centro commerciale. Improvvisamente si trovano scoperti. Anche a te piace la birra e non disdegni la febbre del sabato sera, perché negarlo. Adori muovere le gambe in danze perfette e ubriacarti quasi fino allo stordimento. Anche a te fa paura perdere i tuoi privilegi. Non giustifichi niente ma sai che l’odio non risolve il conflitto, che serve cooperazione, giustizia e uguaglianza. E invece ti trovi improvvisamente perso e guardi alla Francia trasformata in pochissimo tempo in un paese con leggi speciali, dove vige lo stato di emergenza e le manifestazioni sono vietate. Dove quella che ancora viene definita sinistra prende a prestito le parole della destra più estrema e le fa sue.
  Tu non sai qual è la soluzione.
  Ma hai voglia di libertà.
Non vuoi vivere in un paese degno di un romanzo distopico, con i militari sul ciglio della strada -fucili spianati- e gli sguardi sospettosi di ogni passante, con i migranti chiusi in grandi recinti e le persone che muoiono al confine, bloccati da grandi barriere di cemento, muri eretti in nome della legalità. Non vuoi vivere nella paura di un attentato fatto in nome di Dio, organizzato da terroristi senza pietà, o davanti ad un televisore che trasmette raid lontani in paesi lontani e città distrutte e martoriate dalla coalizione “amica”.
  No, non vuoi avere paura.
Quindi ti fermi, smetti di premere i tasti, di compilar ricevute e di timbrare scartoffie. Abolisci i pensieri, le voci dei colleghi sfumano via e la mente si annulla.
  Non hai una soluzione. Sei ignorante, non sai nulla. Però ti blocchi lo stesso.
  Il freddo per un attimo si allontana da te, te ne rendi conto solo ora. È un freddo acuto, che proviene da dentro, che scorre nelle vene e giunge dritto dritto al cervello.
  Lo senti?
Adori il caldo.
Tu il freddo non l’hai mai sopportato. Manco quando eri bimbetto e i tuoi genitori ti insegnavano le cose importanti della vita. Quelle cose te le porti sopra, come una coperta calda, le indossi ogni giorno e ti riscaldano. Sono poche certezze, qualche verità.
  Però una cosa l’hai imparata. La tieni ben stretta e avvolge tutto il cuore tuo, ti fa andare avanti nonostante le mille difficoltà. Ti rende quel che sei. È tipo uno slogan ed è il tuo mantra:
  Non ti avranno mai.
Così alzi lo sguardo e fissi dritto i tuoi colleghi, la tua città, il tuo paese.
  “Non in mio nome”, pensi. “Non in mio nome”.

 Il prossimo raccontino esce martedì 15 dicembre...

martedì 17 novembre 2015

VOGLIO UN MONDO



  Io voglio un mondo dove in ogni vagone della metropolitana ci sta un suonatore di violino. Uno che suona bene, che sa dove si mettono le note, che mi accompagni lungo il tragitto da casa al lavoro. Uno che mi allieti il percorso insomma, alla faccia di chi sbruffa.
  Voglio un mondo dove tutti guadagnano uguale, dove c’è un tetto massimo, di più non sfori. Dove il manager prende come l’operaio e dove si lavora massimo cinque ore, non di più. Voglio un mondo dove c’è il tempo libero, il relax, il gioco. Dove tutti hanno diritto alla risata e lo sfruttamento e il padrone sono solo un ricordo brutto, lontano, da relegare in fondo agli incubi. Un mondo dove chi sfrutta fa una brutta fine, due calci in culo amico mio e camicie strappate. Un mondo senza precari e disoccupati, senza ricchi e poveri. Un mondo giusto e solidale. Un mondo dove le ideologie non sono morte e anzi si fanno forza e la politica è una cosa nobile, fatta nelle strade, in borgata, tra le persone. Dove i palazzi del potere sono bruciati, distrutti e i suoi abitanti scomparsi, svaniti per sempre, assieme alle cravatte loro. Dove l’immigrato non è insultato continuamente, per ogni cosa. Un mondo dove non si muore in mare e dove la Bossi-Fini è stata abolita. Un mondo dove i CIE non esistono. Un luogo senza frontiere ‘nsomma, con le persone che si possono spostare da un paese all’altro liberamente.
  Voglio un mondo dove la Lega Nord è abolita e Salvini è finito in un barcone, assieme a Borghezio, alla Meloni e a chi li vota. Così, giusto per fargli provare la bella sensazione dell’acqua in autunno. Siete dei razzisti dimmerda e no, non dovreste avere diritto di parola. Voglio un mondo dove i rom e i sinti sono rispettati, ché a me piace pure ‘sta cultura anarchica e caciarona. Un mondo dove non si ha paura l’uno dell’altro, un posto che chi dice che siamo buonisti dovrebbe andarsene a fare ‘na gitarella per due settimane in Siria; un mondo dove le case dei ricchi, quelle al Colosseo, ai Parioli, al Circo Massimo, a Trastevere, a Piazza di Spagna vengano date ai poveri, a chi vive in dieci nella stessa camera e paga un affitto assurdo, a chi una casa non ce l’ha, alla vecchia che ha sempre vissuto in periferia, con l’acqua che cola dal soffitto.
  Un mondo di rivoluzionari, sovversivi e sabotatori. Sì, Cristo, siamo rivoluzionari e sovversivi e sabotatori.
  Voglio un mondo dove il TAV non viene costruito e manco i ponti vengono costruiti. Dove sono rispettate le richieste delle popolazioni, senza rompere troppo.
  Un mondo dove l’amministrazione della città è giusta e dove i soldi girano solo nel verso corretto, a premiare chi lavora nel sociale onestamente, senza compromessi, solo perché ci crede. Un mondo dove il mio coinquilino viene pagato ogni mese, massimo una settimana di ritardo e non mesi e mesi, a battere i soldi al capo con i sensi di colpa, come se lo stipendio non fosse un diritto.
  Voglio un mondo dove la classe politica non ti prende per il culo dicendo che va tutto bene, che il precariato è scomparso, che i giovani hanno tutti un lavoro con un contratto a tempo indeterminato. Siete dei cazzari, vi credono solo i vecchi che non c’hanno manco un nipote. C’avete distrutto la vita, voi e chi vi ha preceduto, sciacquatevi la bocca prima di parlare di precariato.
  Voglio un mondo senza palazzinari e distruttori di bellezza, tutti devono avere una casa e nessuno deve essere costretto ad occupare perché oh, belli miei, chi occupa un appartamento mica lo fa perché si diverte. Un mondo dove i centri sociali non vengono criminalizzati ma anzi valorizzati, senza paura, ché la cultura dal basso la fanno loro e voi state solo a rosica’, ché non li potete controllare.. La cultura deve essere per tutti e di tutti e non riservata a quattro gatti, un’élite di hipster con i pantaloncini corti. Il cinema di sabato ormai costa otto euro e un libro quasi venti, ci credo che in Italia le persone non leggono. Voglio un mondo dove andare a teatro non è una roba per ricchi, un biglietto lo paghi massimo cinque euro. Voglio le strade piene di giocolieri e trampolieri e funamboli e cantanti e contorsionisti.
  Voglio un mondo zeppo di graffiti, immensi disegni su tutte le facciate dei palazzi un tempo grigi, colore e gioia per noi! Senza Guardiani del Decoro a strappare manifesti e ad imbrattare di bianco i murales. Un mondo dove i cittadini si impegnano in cose serie e non a staccare adesivi e a sentirsela calla perché li staccano, gli adesivi dico, m’avete rotto il cazzo voi e il vostro decoro che vi sentite pure importanti.
  Voglio un mondo che ad uno gli fai: «Come va?», e quello ti risponde: «Tutto bene!», e non: «Come vuoi che vada», «Mah», «Si tira avanti», «Così e così». Siate decisi!
  Voglio un mondo dove in televisione fanno cose intelligenti e interessanti, programmi belli e anche una cifra di documentari, sugli insetti soprattutto.
  Voglio un mondo dove la parola “sobrietà” venga abolita, io non la tollero proprio, mi sta qui la sobrietà e pure le persone sobrie… dovreste acchittarvi con abiti sgargianti e tacchi degni delle migliori drag queen. E a proposito, pure voi che ce l’avete tanto con gay, lesbiche e trans, fatevene una ragione, vivete in pace e non rompete al prossimo, siete ‘naccollo non indifferente, veramente.
  Voglio un mondo senza Uomini Grigi, gente spenta che s’è scordata com’era essere bambini, siete tristi, mettete tristezza, alzate lo sguardo e datevi una svegliata.
  Voglio un mondo senza guerre, che poi le guerre creano altre guerre e così via. Niente conflitti sì, c’avete provato, il vostro metodo l’abbiamo messo in pratica, adesso proviamo il nostro, vediamo che succede. Si fa un po’ per uno. Che lì, in quei posti lì, i terroristi li create voi.
  Voglio un mondo senza denaro a ‘sto punto. Intanto si sa no? Sono i soldi a creare tutto ‘sto casino, quindi li togliamo e risolviamo qualunque problema.
  Voglio un mondo dove le cose bio non costano un occhio della testa e dove chi spende un occhio della testa per mangiare cose bio sia costretto a donare tutti i prodotti comprati (bio) al primo barbone che capita.
  Voglio un mondo senza carità, le cose si fanno perché è giusto farle, aboliamo anche la parola “poverino” e vietiamo le campagne pubblicitarie con i bambini neri e le pance gonfie. Sfruttate il dolore e lo spiattellate in copertina, non c’avete scrupoli.
  Voglio un mondo senza religioni. «La religione è l’oppio dei popoli», diceva l’amico mio. E c’aveva ragione. Le religioni rendono le persone cattive e intolleranti, mettiamole alla sbarra.
  Voglio un mondo dove l’istruzione è alla portata di tutti, pubblica, senza scuole private. Pure quella steineriana, delle cose vostre sono fiche, fate in modo che siano accessibili anche al figlio dello spazzino e non solo ai bambocci dei ricchi intellettuali di sinistra e a quelli dei ricchi intellettuali di destra. Che la scuola torni al primo posto, la conoscenza è importante e un popolo ignorante è un popolo perso.
  Voglio un mondo con gli ospedali che funzionano. Se stai male non puoi essere buttato per ore su un lettino macchiato di piscio in un corridoio sporco, costretto a vomitare a terra. Una sanità pubblica degna di questo nome.
  Voglio un mondo dove si corre in bicicletta, piste ciclabili ovunque, lunghissime e bellissime. Dove il vento sbatte sul viso e gli occhi lacrimano, assaporando la curva e la discesa. Dove la ciclabile accanto al Tevere è pulita e dove i battelli navigano sul fiume, una nuova metro, proprio come a Bangkok. Un mondo pieno zeppo di metropolitane, una in ogni quartiere.
  Voglio un mondo dove è sempre festa, si balla ogni sera e si recitano le poesie urlando a squarciagola. .
  Il mondo che voglio io è un mondo libero, vivo, ma soprattutto giusto, senza differenze, e la gente se la  deve godere ‘sta vita, che è una sola e bisogna assaporarla, ogni attimo, ogni secondo, succhiando a più non posso. 

IL PROSSIMO RACCONTINO ESCE MARTEDI'  1 DICEMBRE!

lunedì 2 novembre 2015

BIO



  La verità, Amici & Amiche, è che mi sono rotto.
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKY: Nooo! Una gamba? Un piede? La mano? Il braccio? L’alluce sinistro? Il collo? Un’unghia?
BATMAN: E non ci siamo accorti di niente!
MASTRO LINDO: Sicuro sarà scivolato…
KARL MARX: Una buccia di banana compagni, trappole degli sgherri del sistema.
MASTRO LINDO: E’ che le strade di Roma sono sporche, fanno schifo. Dove andremo a finire? La capitale d’Italia ridotta ad un colabrodo!
UNA MOSCA: Un colabrodo?
MASTRO LINDO: Eh. Un colabrodo? Hai presente?
SIGMUND FREUD: Però, voglio dire, mica ce ne siamo resi conto. Quand’è caduto cioè.
GRANDE PUFFO: Sicuro al joypad con cui manovriamo Elia c’era Superstellino. Vero?
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKY: Non guardate me. Eccolo lì il colpevole.
YOGI BHAJAN: Impossibile. Meditavo. Non ero io al comando.
LA VECCHIAIA: Giovanotti, dovreste accettare il Fatto.
GRANDE PUFFO: Il Fatto? Signora bella, ignoriamo cosa sia il Fatto.
LA VECCHIAIA: Me. L’adorato invecchia e, di conseguenza, inciampa. Tempo pochi anni e la sua vista calerà, i capelli s’imbiancheranno come neve al sole e la gobba (già pronunciata) sporgerà sulla schiena, come un macigno.
GIACOMO LEOPARDI (che ha sempre la faccia di Elio Germano): Non parlatemi di gobba! È una vita che ci convivo…
  Cioè a me, che ho pochi soldi, è il discount ad avermi rotto.
GRANDE PUFFO: Ahhh. Quindi n’è che s’era rotto ‘na parte del corpo. Tipo un modo di dire. Tipo. Tipo che io mi sono rotto che ogni volta che apro il frigo ci trovo solo le birette scrause, che adesso c’abbiamo pure quelle analcoliche di Mastro Lindo là. Tipo che ogni volta devo stare a ripetere che non si può passare la giornata a guardare il vuoto, tipo che dobbiamo dare un senso alla nostra vita. Tipo.
  Gli scatoloni imballati uno sull’altro, le pareti giallo sporco, il cibo scaduto, le mele marce, le mozzarelle viola, la verdura fuori tempo massimo, le nonnine che non arrivano alla mensola degli insaccati.
MASTRO LINDO: Che adesso s’è pure scoperto che so’ cancerogeni, ‘sti insaccati.
CARL GUSTAV JUNG: Su Facebook non si parla d’altro. Dopo i gattini decapitati, le buche di Roma, la fiera della carne di cane e il tale deceduto in circostanze misteriose è il turno del salame.
OSHO RAJNEESH: L’amore è il nutrimento per l’anima. Proprio come il cibo lo è per il corpo, così l’amore lo è per l’anima.
  Voglio l’ambiente giovane io. Con tutte le robe buone. Quello con gli anziani atletici e i punkabbestia che fanno la spesa.
  Così un giorno glielo dico a Simone (il mio coinquilino).
  «Lo sai che c’è?», gli faccio.
  «Che c’è?»
  «C’è che mi sono stufato di comprare trentasei hamburger di spinaci a tre euro e ventidue centesimi».
  «Oh, Elia, trentasei hamburger sono tanti, ci mangiamo per trentasei giorni. Cioè, no. Diciotto giorni. Trentasei diviso due. Fa diciotto trentasei diviso due sì?»
  «Ma non ti rendi conto? Abbiamo bisogno di nutrimento serio! Del cibo del contadino! Quello senza glutammato!»
  «Ma il glutammato ci riempie. Si sa. Per questo andiamo sempre a cena dal cinese, costa poco e ti rende sazio.»
  «Io voglio la bistecca di lupino!»
  «Sei un vegetale del cazzo Mangiaboschi».
  «Vegetariano prego».
MAESTRO YODA: Grande grande grande errore fu. Il lato oscuro della Forza si risvegliò. Illuminati noi siamo, non questa materia grezza!
GRANDE PUFFO: Puoi dirlo forte. Oh, vi ricordate sì quanto era buona la fiorentina? Ma pure le fettine panate! Da ragazzino Elia ci stava in fissa, fettine panate e pasta burro & formaggio, i piatti suoi. Che cazzo di scelta del cazzo. Io c’ho voglia del Big Mac Cristo. ‘Ste zecche dimmerda. Io BRAMO il Big Mac con le patatine fritte e pure la Coca-Cola. No vabbè…
  «Ti rendi conto Simone? Avvengono cose strane nel mio stato d’animo! Un’improvvisa voglia di McDonald’s mi sta assalendo!»
  «Sporco capitalista! Lo sai sì che fa il McDonald’s nel mondo? Pure peggio della Coca-Cola!»
  «C’ho voglia anche di quella!»
RONALD McDONALD: Ah ah ah! Il Mangiaboschi sarà mio! Lo farò venire a lavorare in uno dei miei fast food e voi non potrete niente! S’ingozzerà di cibo avariato, si riempirà di brufoli ed entrerà a far parte della lunga schiera di soldati obesi! Marceremo insieme alla conquista dell’Amazzonia!
BATMAN: Io sono già dei tuoi amico pagliaccio!
  «Stai tradendo tutti i tuoi ideali! Fino all’altro ieri a lanciare i sassi contro le vetrine del Mc e oggi a smaniare per un panino! Reagisci!»
  «Simone, l’unica speranza è seguire il Grande Passo…»
Il Grande Passo, noto ai più come G. P., avviene intorno ai trent’anni e si manifesta negli esemplari di razza umana che tendono politicamente a sinistra e che, da almeno quindici anni, frequentano centri sociali, rave, movimenti e un certo ambiente intellettualmente motivato. Il G. P. è tipo una religione, dove il bio è assurto a caposaldo del sistema nutrizionale.
WILL KEITH KELLOGG (quello che ha commercializzato i corn flakes): Negli anni il cibo bio ha preso piede, creando così un divario incolmabile tra chi può e chi non può permetterselo.
GRANDE PUFFO: Sono tipo le robe a chilometri zero no? O il vino senza solfiti e la birra artigianale.
IL CRICETO: Le cose che piacciono a noi insomma.
GRANDE PUFFO: A voi! Mica a tutti. C’abbiamo pure le magliette adesso. Vedete? “IO STO CON McDONALD’S”. Tipo le t-shirt di quel deficiente che sta sempre in televisione a sparare cazzate. Bella eh?
  «Un supermercato bio? Ma tu sei matto? Sai quanto costa?», mi domanda il coinquilino.
  «Tutte leggende. Non ci siamo mai entrati, giusto un paio di volte da NaturaSì, è vero. Ma oggi è diverso, il cibo buono si sta diffondendo a macchia d’olio, ho visto pure un servizio al Tg2, su Costume & Società».
  «E quindi?»
  «Rifletti. Viviamo in una società capitalista, c’è il commercio, la globalizzazione. Quindi la concorrenza. I prezzi sicuro si sono abbassati.»
  «Hai un’idea?»
  «Sì. C’è questo amico mio conosciuto su Facebook no? M’ha consigliato un mercatino bio niente male. Con tutti prodotti etici…»
  «Elia, sai quanto ti voglio bene. Siamo amici da tanto ormai e riconosco che, non di rado, la spesa vai a farla da solo. Ma sai anche che le tue idee sono strampalate e che spesso ci cacciano nei guai. Sono adulto io, un uomo fatto e formato, nel curriculum mio c’ho scritto pure ‘bella presenza’ che mica è ‘na cosa da tutti. La bella presenza. Ora, ad un certo punto nella vita di un adulto capisci certe cose. Io ho capito che darti spago è una roba sbagliata. Ricordi sì la storia dei serpenti? O il locale di karaoke? Chiama Anita, l’amica tua che vive in campagna, mi hai detto che in questi giorni sta a Roma no? Sicuro lei ti accompagna…»
  «Beh certo, Anita è sicuramente una migliore compagnia…»
  «Che poi ti piace pure».
UNA MOSCA: Eccome se gli piace…
IL CRICETO: Che dite? La chiamiamo?
CARL GUSTAV JUNG: Chiamiamola chiamiamola...
  Chiamo Anita.

  Il supermercato mi accoglie immerso nel verde.
È una struttura rettangolare, di vetro.
  Anita è lì, mi sorride.
BATMAN: Oh, ci ha sorriso!
GRANDE PUFFO: Eccerto deficiente, c’ha visto, ci sorride. Fra umani si fa.
  «Ciao Elia, come mai hai scelto di venire qui a fare la spesa?»
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKY: Facciamogli dire che era un buon posto per un appuntamento! Una cosa romantica! Da cuoricini e stelline!
FEDERICO MOCCIA: E’ tutta ‘na tattica di rimorchio no? Alle campagnole piace il bio, si sa…
GRANDE PUFFO: No cazzo, Moccia no.
SIGMUND FREUD: Elia è un romanticone in fondo…
RONALD McDONALD: Era meglio portarla da me. La ipnotizzavamo con le salse e la facevamo ingozzare di panini… c’avevo pure l’Happy Meal in offerta. E poi, solo poi, i due piccioncini sarebbero entrati a far parte del mio esercito…
  «Eh, mi sono stufato delle cose scrause. Ecco», rispondo.
Entriamo, la cassiera ci guarda. Ha tatuaggi ovunque e due occhialini da maestrina niente male. Indossa una maglietta viola scollata con scritto “FucK Off” che insomma, in qualunque altro luogo di lavoro l’avrebbero già licenziata. Le unghie sono colorate di nero. Inspira, sat, espira, nam.
  «È il posto nostro», dico, riconoscendo la profonda respirazione dello yoga.
  Anita mi sorride, di nuovo…
IL CRICETO: Ma che è ‘sto suono?
BATMAN: Questo tu tum tu tum?
GRANDE PUFFO: Mi spacca il timpano quasi…
RONALD McDONALD: Sono gli scarponi del mio esercito!
FEDERICO MOCCIA: No amici, è il .
  Poi, improvvisamente, arriva la canzoncina, un coro stonato dritto dritto nella capoccia mia, tipo una cosa dell’inconscio.
Dammi tre parole,
sole cuore amore.
Dammi un bacio che non fa parlare.
  Fischietto.
  Mentre ci facciamo largo tra gli scaffali.
Mi sento tutto così, tipo friccicorio smielato. Però poi comincio a guardare le robe che vendono in questo posto.
  In un attimo tutto il mio essere cambia.
  Osservo Anita, anche il suo sguardo è mutato.
Improvvisamente un fulmine squarcia le pareti della Stanza dei Bottoni.
RONALD McDONALD: Ve l’avevo detto io.
MICHAIL BAKUNIN: Zitto tu.
KARL MARX: Amico mio, come ci siamo trasformati? A questo hanno portato i nostri ideali? Così si è ridotta la nostra prole?
ERRICO MALATESTA: Non abbiamo combattuto per questo.
ERNESTO CHE GUEVARA: Siamo forse morti invano?
  Per un attimo arranco, osservando la clientela. È tutta gente come me. Sono giovani dai venticinque ai quarant’anni, più qualche sessantenne scappato da “La meglio gioventù”. Indossano vestiti sportivi ma casual e scarpette da centotrenta euro. Le braccia sono coperte da tatuaggi e il viso è simpatico, cordiale. Alcuni parlano di guerra, altri si scambiano impressioni sulla destrutturazione della società, scervellandosi su quel che già è.
E’ il capo della cooperativa dove lavora Simone, quello con la foto di Fidel appiccicata nella parete dell’ufficio, il principale sì, che non lo paga da quattro mesi; è il tipo che abita in centro e viene a blaterare di periferie e di quanto è bello vivere in mezzo all’immondizia, tra i topi e il grigio e il cemento; ché pensa che la borgata è San Lorenzo e il Pigneto e non s’è mai fatto un giro a Magliana, a Tor Bella o ai Ponti. È il radical chic di sinistra insomma.
L’intellettuale.
Il ricco.
Il borghese.
Lo snob.
Quello che ha capito tutto, che legge tanti libri e compra solo fumetti d’autore, che se una cosa va di moda automaticamente fa schifo. Il tizio che quando parla non si capisce niente e usa solo paroloni per fare il fico. È il compagno mio.
  Sudo freddo osservando i prodotti in vendita.
  - Il pancarré (venti fette) costa tre euro e venti.
  - La crema biologica di nocciola (la Nutella per capirci) quattro euro e dieci.
  - Le bacche di goji (che non so manco che cazzo so’) sette euro e cinque.
  - Gli spaghetti di timila integrali bio bio tre euro e sessanta.
  - Gli spaghetti al prezzemolo quattro euro e sessantuno.
  - Le pennette tre euro e ottantatre.
  - I taralli quattro euro e ottantanove.
  - Le alghe dieci euro.
GRANDE PUFFO: Le alghe?
KARL MARX: Eh. Le alghe.
  Qui ci sono tutti prodotti strani, assurdi, cari.
Ascolto due tizi che parlano: «Ho assaggiato questi fusilli d’avena integrale Ambrogio… sai, con un buon sughetto sono fa-vo-lo-si!»
  «Oh sì… ma dovresti provare l’affettato di seitan… eccolo…»
Il mio sguardo segue il dito di Ambrogio e si posa là, nel reparto vegetariano.
  - Hamburger agli spinaci (quattro pezzi) sette euro e novantatre.
  - Hamburger al radicchio (quattro pezzi) sette euro e novantatre.
  - Polpettine alle olive cinque euro e quaranta.
  - Fettine di tofu sei euro e venti.
  - Bistecca di lupino nove euro.
  - Impanate vegetali cinque euro e tre.
  - Bastoncini di verdure quattro euro e novantanove.
  - Tiramisù vegan otto euro e ventidue.
Qui mi sale tutto il sangue alla testa.
LA VECCHIAIA: L’adolescenza è ormai un periodo superato! Non lasciatela passare!
L’ADOLESCENZA: Ah! Sono tornata amici, come butta?
GRANDE PUFFO: Ma guarda chi c’è! Oh, non sai quanto ci sei mancata.
MICHAIL BAKUNIN: Compagni. Qui tocca fare qualcosa.
LA VECCHIAIA: Vi prego, fate togliere le dita dal naso ad Elia, è in pubblico… e c’è pure Anita. Superstellino, togliti dai comandi!
  Giocherello con la caccola, poi la appiccico sulla farina di farro (nove euro e trentadue a sacchetto).
  La verità è che m’avete rotto il cazzo con le vostre spese a chilometri zero e i prodotti che solo i ricchi se li possono permettere, con ‘ste facce da cazzo pulite e patinate manco foste un disco di platino. M’avete rotto con i vostri visi spocchiosi da So tutto io e tu non c’hai capito un tubo. Mi sono stufato che gente tipo quelli della Lega si possono permettere di dire che noialtri siamo tutti figli di papà con la puzza sotto al naso. Che per colpa vostra le persone pensano che ce ne stiamo chiusi nei nostri salottini del centro imbrattati di poster finiti a discutere dei mali del mondo e il mondo manco lo conosciamo. Che se ci parli con la fruttivendola di Magliana ti dice proprio questo, lei che a vent’anni era un’autonoma e la casa se l’è occupata e per difenderla dalla sbirraglia c’ha pure fatto a botte, con la sbirraglia dico. Voi sì, che pensate solo al vostro corpo e alle calorie che consumate e al cibo a chilometri zero che poi il contadino se si sveglia alle quattro voi manco lo sapete. Gente che compra le arance bbbuone perché dietro le arance del discount ci sono le mafie e che poi gli immigrati però è meglio se continuano a vivere nella borgata, in dieci in una casa. Io ce l’ho con voi perché avete rovinato noi. Che siete i ricchi e fate finta di essere poveri, che vi potete permettere di spendere cinquanta euro per due bistecche vegane e una boccia di vino.
  Io vorrei una società dove tutti guadagnano uguale. Qualunque lavoro fai, c’hai un tetto massimo, di più non sfori. Una società dove lo spazzino prende quanto il calciatore, dove l’operaio ha la stessa grana dell’imprenditore, dove non c’hai bisogno di rubare e la casa non te la devi prendere, perché tutti hanno una casa.
  Quindi sì.
  Visto che questa è un’utopia
KARL MARX: Rivoluzione!
MICHAIL BAKUNIN: Sabotaggio!
  Io qui dentro ci faccio la spesa proletaria. Che quello sono io. Un proletario. E le cose me le prendo.
  Basta uno sguardo veloce tra me e  Anita. Poi apriamo gli zaini. Arraffiamo tutto, come tornati adolescenti. Ci prendiamo ogni cosa, qualunque stramberia, comprese le bacche di goji. Strappiamo i codici a barre, spulciamo eventuali placche magnetiche e ci appropriamo di quel che ci spetta di diritto. È un esproprio. Noi siamo i poveri, rubiamo ai ricchi, pure se i ricchi fanno finta di capirci, di essere come noi, di starci vicino. Voi per me siete come quelli con lo yacht e con l’orologio di diamanti, stessa feccia. Io c’ho l’odio di classe che mi scorre nelle vene, è un sangue caldo e bello rosso e m’arriva veloce dritto al cuore.
  Ogni tanto qualcuno ci guarda indignato, ma nessuno osa denunciarci.
  Mi prendo pure le sfogliatine di farro senza lievito, ché tengo alla linea io.
  Anita è ancora più veloce di me, bellissima in ogni movimento, una dea del saccheggio. Si muove con grazia e sensualità, guardando a destra e a sinistra.
FEDERICO MOCCIA: E noi l’amiamo.
GRANDE PUFFO: Ahe, mo non esagerare eh. C’abbiamo ‘na cotta. Tutto qui.
MICHAIL BAKUNIN: Compagni, non distraetevi. Guardate il Che come muove il joypad. È un mostro Cristo.
GESU’ CRISTO: Sempre detto io che è un bravo ragazzo.
  Siamo tipo una squadra, ci copriamo a vicenda. Prendiamo ogni cosa. Miglio decorticato, amaranto senza glutine, patatine fritte non fritte.
  E ridiamo.
Poi siamo davanti alle casse con un pacchetto di gomme da masticare senza zucchero (due euro e novantuno) in mano.
  La cassiera tatuata ci guarda un secondo.
Il cuore smette di battere.
Tutta la forza mia del piccolo sabotatore combattente svanisce in un batter d’occhio.
  Sudo freddo.
Il braccio sinistro pulsa.
  Paura.
Osservo il supermercato alla ricerca di telecamere nascoste.
  C’ho lo zaino con almeno quattrocento euro di roba rubata dentro.
‘Cazzo gli dico ai miei se mi beccano?
Rimango immobile.
  «Ecco a lei», sorride Anita porgendo i soldi alla ragazza per le gomme. Poi mi prende per mano con naturalezza, come se fossimo una coppia che sta insieme da anni.
  Usciamo.
  Il sole ci colpisce.
È una giornata bellissima, con un bel cielo blu e zero nuvole. Un pappagallo vola in lontananza.
  Anita mi guarda. Per un attimo rimaniamo in silenzio, mentre tutto il resto scompare.
FEDERICO MOCCIA: Si perde nei suoi occhi.
  Mi perdo nei suoi occhi.
FEDERICO MOCCIA: Nella bocca.
  Nella bocca.
FEDERICO MOCCIA: Che sa di miele.
  Che sa di miele.
FEDERICO MOCCIA: Tre metri sopra il cielo.
GRANDE PUFFO: E no cazzo, questo no!
  Torno in me.
  Apriamo gli zaini. C’ho la spesa fatta per un mese. Simone sarà felicissimo.
  Così ci allontaniamo baciati dai raggi, moderni Robin Hood in un mondo che non ci appartiene.
RONALD McDONALD: E mentre ammiriamo questa scena che va a dissolversi lungo la via della vita prendiamo finalmente la giusta decisione. Portiamo Elia al Mc. Cioè da me. E lo facciamo ingurgitare tutte le robe mie, fino a che non si convertirà alla giusta causa. Ché in fondo l’avete detto pure voi no? È da me che ci vengono a mangiare quelli senza soldi, in un certo senso sono io che sfamo il proletariato. C’ho pure le case famiglie, se dai un piccolo contributo alla cassa aiuti i bambini orfani, quelli con le pance gonfie. Che dite? Grande Puffo, m’appoggi?
GRANDE PUFFO: Tiè, riprenditi ‘sta maglietta va’, che mi sta pure stretta.
KARL MARX: Che mo vabbè che vabbè, però sempre un pagliaccio bastardo rimani. Americano, tra l’altro.
GRANDE PUFFO: E a noi gli americani ci stanno proprio qui.
LA VECCHIAIA: E poi il cibo tuo fa male. Diciamocelo.
MICHAIL BAKUNIN: E anche tu, fai male al mondo intero. Ché c’hai traffici strani Ronald.
GRANDE PUFFO: Beh, a ‘sto punto, se siamo tutti d’accordo, buttiamo il pagliaccio inquietante dal dirupo. Vediamo che fine fa. Super stellino, ci pensi tu?
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKY: Però sempre io ‘ste cose noiose. Dai signor McDonald muoviamoci…
RONALD McDONALD: Pazzi! Che volete fare? Lasciatemi!
L’ADOLESCENZA: E poi un giorno, se c’avete voglia, andiamo a lanciare due cosette contro le vetrine del Mc? Eh? Eddai…
  Il problema, in fin dei conti, è che la testa mia c’ha una cifra di dubbi e un bel po’ di sfaccettature, quindi, Amici & Amiche, cercate di capirmi. Che comunque, in qualunque dei casi, ora sto con Anita, e vi voglio a tutti bene. cioè, quasi a tutti.


GANESH: Oh, nota importante: il prossimo raccontino di Elia esce martedì 17 novembre, ci vediamo tra due settimane… pace & bene fratelli.