In genere succede con l’arrivo del freddo.
È una cosa improvvisa il freddo, giunge
da un giorno all’altro, in un momento. È un attimo, questione di un paio di
giorni (e un paio di giorni nell’economia del tempo corrispondono al battito
d’ali di una farfalla); il giorno prima te ne stai tranquillo tranquillo in
maglietta e il giorno dopo eccolo. Il freddo osa spietato, come una dama bianca
dallo sguardo triste, e si sparge su ogni cosa: sulle case, sulle strade, sulle
foglie e sulle persone. I colori cambiano e il grigio diventa un compagno
frequente, un amico quasi, pronto ad avvolgerti con il suo manto di nebbia.
Quindi ti vesti a strati. Usi le magliette vecchie come canottiera,
mediti se indossare la calzamaglia (orribile ricordo della settimana bianca con
familiari annessi) e, in men che non si dica, il tuo peso aumenta di qualche
chilo. Sei una cipolla adesso.
Ma il freddo non ti lascia.
Poi succede.
Ti capita mai?
Le mani si spaccano, il pollice sinistro prende a sanguinare, un lungo
squarcio profondo; sulle nocche si formano piccole chiazze rosse, le vene
pulsano e ogni dito si riempie di squame, come se la pelle intera, totalmente
screpolata, stesse per cadere.
Ti gratti, lasciando pezzi di carne proprio sotto le unghie. È una
piccola scarnificazione in fondo e sembra quasi ti piaccia.
Il pizzicorio aumenta.
Qualcuno ti propone una crema.
Forse dovresti usarla, ti darebbe, come dire, sollievo.
Ma tu, lo so, odi le creme.
Decidi piuttosto di uscire, è mattina, il sole è sorto da poco (già
avvolto dal grigio) e devi correre al lavoro.
Hai dormito dai tuoi genitori, ogni tanto lo fai. Ti piace tornare
ragazzo, quando si faceva colazione tutti insieme e tuo padre ti diceva di
trovare i tre lati belli della giornata chè a te di andare a scuola proprio non
andava. Odiavi i tre lati belli, però li amavi anche, ché era un rito che vi
portavate appresso da sempre, dalle elementari forse.
Fumi una sigaretta e poi ti avvii.
Il freddo ti accoglie prepotente
sputandoti in faccia il suo alito gelido, glaciale.
Ti chiudi bene nella giacca, stringi la sciarpa marrone e indossi il
cappello di lana che sembra un preservativo. Non hai i guanti ovviamente.
Prendi la bici e pedali.
Ti piace il vento. Adori la sua
violenza, la forza con cui ti colpisce le guance rendendole rosse come la confezione
delle caramelle Rossana.
Lacrimi.
Pedali veloce, percorrendo la pista
ciclabile piena di foglie colorate, per un attimo solo ti soffermi sul giallo
vivo, acceso. Adori quel giallo.
Le schiacci, assaporando il crepitio sotto le ruote.
Corri ancora di più, sgattaiolando
adesso tra le automobili, veloce come un fulmine, mentre gli uomini e le donne
urlano a squarciagola frasi senza senso. Ti domandi non di rado perché si
ostinino a prendere la macchina. Ma da tempo hai rinunciato a capire la mente
umana. Per un momento solo ti rendi conto che il traffico è aumentato ancora di
più, come se tutti, da un giorno all’altro, avessero scelto di prendere il
proprio mezzo a quattro ruote.
Con una frenata brusca, da ciclista incallito, sgommi davanti alla
metropolitana.
A te, diversamente dagli altri, piace la metro. Prediligi le storie
altrui, i piccoli segreti confessati a bassa voce, le chiacchiere degli
sconosciuti, gli sguardi persi, i volti e i visi. Alle volte spii addirittura i
messaggi mandati dal cellulare del tuo vicino. Ti piace leggere, stretto nel
vagone, seduto quasi addosso ad un’altra persona. E ti piace anche quando la
metro è piena, i corpi accalcati uno sull’altro, le cartelle dei ragazzi pine
di libri e astucci e quaderni, l’uomo con la valigetta legata al polso, il
tizio che suona il violino per due spicci. C’è di tutto, per questo l’adori.
Osservi senza attenzione un furgone particolare, verde e con i vetri
oscurati, che non dovrebbe essere lì.
Leghi la bicicletta e noti, con un colpo d’occhio veloce, che la
stazione è diversa dal solito. Non capisci subito il perché. Controlli di nuovo
i lucchetti (lo fai tre volte, ripetuto per tre) e poi ti avvii.
Fai il biglietto.
Di nuovo la strana sensazione di colpisce.
Improvvisamente ti senti osservato.
Ti guardi intorno, un vecchio che ciancica una sigaretta spenta, una
pazza che conta le cartacce gettate a terra, un bambino che ride sul
passeggino.
Timbri il biglietto ed entri.
Dal gabbiotto il controllore ti scruta.
Alzi lo sguardo alla ricerca di telecamere. Ti senti osservato, ogni
attimo di più.
Ti volti.
Si respira una strana tensione. Sembra
spessa l’aria, come il burro, e improvvisamente avresti voglia di affettarla.
Immagini il burro bianco, il coltello
che affonda, le piccole onde dense che si increspano sulla lama.
Riprendi a camminare.
E li vedi.
Sono due uomini e ti puntano addosso
quello che sembra un mitra.
Improvvisamente il cuore sembra scoppiare, ti tira e preme sulla carne,
come a voler uscire.
Apri la bocca.
Sudi.
Il caldo ti assale.
Uno dei due ti studia attentamente. «Salve», ti fa.
«Salve», rispondi abbassando lo sguardo.
Sai che non dovresti. Bisogna ostentare
sicurezza, sempre, altrimenti sospetteranno di te.
«Può andare», ti dice l’uomo facendo un cenno con il fucile.
Abbassi le mani, che senza rendertene
conto avevi alzato in segno di resa.
Una donna ti guarda e quando i vostri sguardi si incrociano lei subito
si volta dall’altra parte, impaurita.
“Forse”, pensi, “il mio zaino è troppo
grosso”.
Ti fai trascinare dalle scale mobili, la
telecamera spia ogni movimento.
Avresti voglia di una sigaretta.
In cima un uomo con un cane lupo
controlla le persone.
È il tuo turno, il cane ti odora.
Sulle panchine sono sedute due signore,
in silenzio osservano ogni individuo. Si soffermano a lungo sulla donna velata,
poi su un tizio con la barba lunga.
Altri due uomini armati pattugliano i binari.
«Allontanarsi dalla linea gialla»,
ordina la voce registrata.
Fai un balzo indietro.
Osservati intorno.
Ci
sei?
Bravo.
Guarda bene, vedi? Siete pochi,
pochissimi. Questa è l’ora di punta, in genere c’è sempre tanta gente.
Okay.
Siediti un attimo.
Perfetto, così.
Sì, hai visto bene, ci sono pochi immigrati in giro.
Ripensi al venerdì, quando andavi via da
casa dei tuoi genitori, vicino alla moschea, la fiumana di gente in attesa alla
fermata dell’autobus.
Li vedevi allontanarsi con lo sguardo basso, come se dovessero
nascondere qualcosa.
Ora guarda meglio.
Un poliziotto ne ferma uno, poi un altro, poi un altro ancora.
Sì, hai capito. Bloccano le persone in
base al colore della pelle.
Vorresti intervenire ma non puoi, non ne hai il coraggio.
Arriva la metropolitana, le porte si
aprono. Aspetti che la gente esca, poi entri, riuscendoti a sedere senza
problemi.
Un uomo corre, salendo al volo. Di colpo una signora si allontana
spaventata.
Puoi vederli, non è vero? Sono i nervi. I nervi tesi, pronti a scattare,
aspettano solo l’ordine giusto.
L’adrenalina è pompata a mille.
Sul vagone c’è una guardia privata.
Squadra tutti, uno ad uno.
Ma non è l’unico, non è vero? Vi
guardate tutti quanti. Nessuno si fida dell’altro. Osservate le borse, gli
zaini, le valige.
Alla fine ce l’hanno fatta ad inculcare la paranoia. Ci sono riusciti. Di nuovo, la metropolitana si ferma, ad
entrare questa volta è un uomo grande e grosso, i capelli biondi e unti gli
calano fino alle spalle e due occhi da pazzo osservano il mondo da un viso
butterato, come se fosse stato grattato da una grattugia arrugginita. Guarda te,
poi guarda il tizio accanto. «Difendiamo la Nazione, non vogliamo
immigrazione!», canta. «Difendiamo la Nazione, non vogliamo immigrazione!»
Qualcuno sorride, una signora annuisce. La guardia privata non fa
niente, ma il viso gli si deforma un pochino, creando una piccola dunetta
all’insù, proprio sopra al mento.
Rimani fermo, osservando una donna dai tratti orientali.
L’uomo continua a cantare le sue
canzoni.
Dovresti intervenire, non credi?
Ma non ci riesci, ti scopri improvvisamente vigliacco.
La cosa ti turba.
L’uomo si siede e si accanisce sul
cellulare.
Ora sono due donne ad attirare la tua attenzione. Avranno al massimo
sessant’anni e parlano fitto fitto.
«Io non sono razzista», dice una. «È che sono troppi».
«Sai quanti terroristi sui barconi? Altro che viaggi della speranza… te
lo dico io! Come la mia vicina di casa no? Indiana credo o forse bengalese… che
mica si capisce la differenza. Tipo i cinesi, tutti uguali. Che gliel’ho detto
io: ‘Sei bengalese o indiana?’, e lei manco m’ha risposto, come se non conoscesse
l’italiano… lo capiscono eccome… ma fanno finta di no. Così poi li aiutano
quelli… che fanno tutti i buoni. Poi però ce li ritroviamo sotto casa a pregare
sul marciapiede… sul marciapiede! Almeno noi c’abbiamo la chiesa. Vabbè. Cucina
tutte quelle robe strane, la tizia là, l’indiana… spezie ovunque che fanno una
puzza che solo Dio lo sa. Oh, rimane giorni e giorni sul pianerottolo, vogliamo
fare una petizione per cacciare lei e tutta la famiglia sua, c’è troppa puzza.
Casomai cucinano anche i cani, e t’ho detto tutto. Quell’altra. Marocchina. Bardata
che è un piacere. Parla una lingua strana e scrive con un alfabeto che non si
capisce niente. L’altro giorno però gliene ho dette quattro, quando rispondeva in
arabo al cellulare. Chissà che si dicono no? Che ne sai? Casomai progetta
l’attentato a Roma, qui… sulla metropolitana, che io la metro la prendo tutti i
giorni e tra scioperi, zingari e immigrati è un gran bel casino. Comunque… io
mica mi fido più. Non prendo neanche la frutta dall’egiziano sotto casa… che ci
mette i cosi chimici là… mica no. ‘Sti musulmani sono ovunque. Peggio dei
rumeni».
«Vogliono invaderci».
Invasione
Conquista
Aggressione
Calata
Devastazione
Occupazione.
“Difendiamo le nostre radici”, leggi su un adesivo attaccato sulla
parete sudicia.
Ripensi all’altro giorno, a quando l’amico tuo, quello che insegna
italiano ai migranti, ti ha detto che gli studenti a scuola non ci vanno più,
che hanno paura di uscire di casa.
Fai
uno più uno e capisci che le prime vittime del terrorismo sono proprio loro,
gli immigrati.
E l’altra vittima sei tu.
Finalmente è il momento di scendere. Ad
accoglierti nuovamente gli uomini in divisa. Di nuovo fermano solo gli
stranieri.
Sali in superficie, la telecamera ti scruta.
Il blindato, il secondo che vedi (solo
ora te ne rendi conto) dei militari è proprio lì, fermo sul ciglio della
strada, come se fossimo in guerra. Due poliziotti pattugliano il marciapiede.
Cammini veloce, non hai voglia di voltarti. I bar sono vuoti e la
sbirraglia è ovunque, in ogni angolo. Un aereo macchia il cielo grigio.
Ora sei lì, sull’aeroplano. Voli nei cieli della Siria e bombardi. La
tua bandiera è quella francese ma potrebbe essere quella di un qualsiasi paese
occidentale. Sganci bombe, una due tre. Quando l’ordigno atterra il boato che
senti è immenso e fragoroso. Ma non vedi niente, non sai niente. “E’ un covo di
terroristi”, pensi. E forse è vero, forse i terroristi ci sono. Ma proprio lì
vicino c’è una famiglia, un villaggio, un paese. Se solo scendessi per un
attimo ad osservare quel che hai fatto, le case che hai distrutto, le vite che
hai spezzato, le gambe maciullate, il sangue… se solo vedessi il padre che
piange il figlio che hai ucciso forse, e sottolineo forse, capiresti.
Scopriresti dove nasce il terrorismo, su chi fa leva. Ma tu sei un aviatore,
non vedi, sganci le bombe e fuggi via. Alle volte neanche ci sei su
quell’aereo, lo comandi a distanza, al sicuro in una base segreta, ben al
riparo da occhi indiscreti. Certo, la colpa non è tua, esegui gli ordini. Sei
solo un burattino. Ma la colpa allora di chi è? Cercali. Eccoli lì, predicano
dal cucuzzolo della montagna, ben nascosti, incitando all’odio in nome di un
dio o marciano tutti insieme, in giacca & cravatta per le vie di Parigi,
urlando parole di guerra contro tutto quel che è diverso, tutto quel che
intralcia il profitto, il capitale. Sono uguali e ci governano. Alcuni hanno
una lunga tunica, altri begli abiti neri. Ma sono identici e noi, il popolo, ci
caschiamo.
Eppure ci piace.
Ripensi alle immagini del profilo di
tanta gente su Facebook, alla bandiera francese impressa sui volti. Sicuro
nessuno farà la stessa cosa con quella siriana, come se i morti fossero
diversi. Ed è così, lo sai. Ci sono morti di serie A e morti di serie B. Anche
a te, non essere disonesto, colpisce di più un attentato in Francia che in
Iraq.
Quasi corri e finalmente sei dentro, in
ufficio.
Ti siedi al tavolo e accendi il computer. Avresti voglia di internet, ma
hai il terrore di leggere i commenti di alcuni personaggi poco raccomandabili
della politica italiana. Uno in particolar modo, uno che viene dal nord e che
urla e sbraita. Uno che gioca sulle disgrazie altrui, che gode degli attentati,
sapendo che la propria popolarità aumenterà. Propone la guerra, lo sterminio,
la distruzione. Accomuna tutti i musulmani, li rende uguali lanciando parole
d’odio. E tutti ci credono e osservano l’Islam con occhi diversi, occhi di
paura, da coniglio ferito. È un gioco. Lo so, sai che ci stiamo cadendo con
tutte le scarpe. Che stiamo facendo esattamente quel che vogliono i terroristi.
Si chiede ai musulmani moderati di
prendere parte, di giustificarsi. Come se la colpa degli attentati fosse loro.
Sempre messi in mezzo, anche se non hanno fatto niente. Li vedi fare cortei
contro il fondamentalismo, domandare scusa in televisione, gridare perdono
dalle pagine di un giornale qualunque. È quello che chiede l’occidente.
Giustificatevi in quanto islamici. Potreste essere colpevoli. Come se dicessimo
ai cristiani di giustificarsi per ogni attentato compiuto in nome di Gesù. Come
se, in quanto bianchi e cristiani, ci dovessimo automaticamente sentire in
colpa per i crimini e gli omicidi commessi in ogni parte del mondo.
Compili le tue scartoffie, timbri moduli.
L’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante
ciancica parole senza senso. «Vivono in venti nella stessa casa, l’ho visto in
un servizio in tv», dice.
La tv.
Provi a rispondere, alzi il sopracciglio
sinistro e fai per dire qualcosa, qualunque cosa che blocchi questo odio
trasversale. Vorresti spigare, come si fa con un bambino mezzo scemo, che
vivono in tanti nello stesso appartamento perché gli affitti sono alti, perché
non si può fare altrimenti. Vorresti dire che non è piacevole condividere la
stessa camera con altre dieci persone, che hai degli amici che darebbero un
occhio della testa per poter stare tranquilli in una stanza da soli, nella
propria intimità.
Ma è inutile, non fai a tempo ad aprire bocca che già c’è un altro che
risponde, più veloce di te: «E chissà cosa nascondono!», creando un cerchio
plateale attorno alla scrivania, come ad indicare armi e munizioni.
È uno scontro di civiltà, questo stanno creando. Da una parte
l’occidente, dall’altra la quasi totalità del pianeta. Ci stanno mettendo uno
contro l’altro e i tuoi colleghi ci cascano con tutte le scarpe, in questo
trabocchetto perfetto. Hanno paura, lo vedi da come annuiscono, da come si
ritrovano spiazzati, da come il terrore vela i loro occhi. Hanno paura di non
poter continuare a fare quello che hanno sempre fatto. La birra il venerdì
sera, la discoteca, il centro commerciale. Improvvisamente si trovano scoperti.
Anche a te piace la birra e non disdegni la febbre del sabato sera, perché
negarlo. Adori muovere le gambe in danze perfette e ubriacarti quasi fino allo
stordimento. Anche a te fa paura perdere i tuoi privilegi. Non giustifichi
niente ma sai che l’odio non risolve il conflitto, che serve cooperazione,
giustizia e uguaglianza. E invece ti trovi improvvisamente perso e guardi alla
Francia trasformata in pochissimo tempo in un paese con leggi speciali, dove
vige lo stato di emergenza e le manifestazioni sono vietate. Dove quella che
ancora viene definita sinistra prende a prestito le parole della destra più
estrema e le fa sue.
Tu non sai qual è la soluzione.
Ma
hai voglia di libertà.
Non vuoi vivere in un paese degno di un
romanzo distopico, con i militari sul ciglio della strada -fucili spianati- e
gli sguardi sospettosi di ogni passante, con i migranti chiusi in grandi
recinti e le persone che muoiono al confine, bloccati da grandi barriere di
cemento, muri eretti in nome della legalità. Non vuoi vivere nella paura di un
attentato fatto in nome di Dio, organizzato da terroristi senza pietà, o davanti
ad un televisore che trasmette raid lontani in paesi lontani e città distrutte
e martoriate dalla coalizione “amica”.
No, non vuoi avere paura.
Quindi ti fermi, smetti di premere i
tasti, di compilar ricevute e di timbrare scartoffie. Abolisci i pensieri, le
voci dei colleghi sfumano via e la mente si annulla.
Non hai una soluzione. Sei ignorante, non sai nulla. Però ti blocchi lo
stesso.
Il freddo per un attimo si allontana da te, te ne rendi conto solo ora.
È un freddo acuto, che proviene da dentro, che scorre nelle vene e giunge
dritto dritto al cervello.
Lo senti?
Adori il caldo.
Tu il freddo non l’hai mai sopportato.
Manco quando eri bimbetto e i tuoi genitori ti insegnavano le cose importanti
della vita. Quelle cose te le porti sopra, come una coperta calda, le indossi
ogni giorno e ti riscaldano. Sono poche certezze, qualche verità.
Però una cosa l’hai imparata. La tieni ben stretta e avvolge tutto il
cuore tuo, ti fa andare avanti nonostante le mille difficoltà. Ti rende quel
che sei. È tipo uno slogan ed è il tuo mantra:
Non ti avranno mai.
Così alzi lo sguardo e fissi dritto i
tuoi colleghi, la tua città, il tuo paese.
“Non in mio nome”, pensi. “Non in mio nome”.
Il prossimo raccontino esce martedì 15 dicembre...