Sembrava un gioco all’inizio, uno spiacevole gioco, troppo tardi ci
rendemmo conto che non era così.
Eravamo giovani allora, giovani e inesperti. Come potevamo sapere che il
caos ci avrebbe inglobato a tal punto?
Ora, Amici & Amiche, mettetevi comodi, afferrate una sedia e
sedetevi. Ma restate vigili mi raccomando, la storia sta per cominciare.
Andiamo con ordine:
Ci troviamo a Trigoria, allegro
quartiere dell’estrema periferia di Roma. Negli ambienti più rinomati Trigoria
è conosciuta soprattutto per gli allenamenti della Roma (che qui viene più
semplicemente chiamata ‘a Magggica).
A Trigoria, Fratelli & Sorelle, i laziali non possono mettere piede e i
bar, tutti i bar, hanno almeno una foto di Totti. Oltre che per via della Roma
Trigoria è famosa per il Campus Bio-Medico dove tutte le mattine volenterosi
studenti si recano per seguire le lezioni e bighellonare un poco in giro.
Alcuni palazzinari dall’aspetto inquietante hanno visto lungo e, in poco tempo,
hanno messo su una serie di palazzi di cartapesta adatti alle esigenze dei
ragazzi, delle famiglie novelle e di chi non può permettersi un affitto salato.
In uno di questi palazzi (che in verità è un po’ più vecchio degli altri, avrà
forse quindici anni) ci vivo io (il vostro affezionato Elia Mangiaboschi) e il mio
coinquilino (Simone). Il mio è un palazzo come tanti, a più piani, pieno di
gente e pieno di anziani (che non si sa perché debbano stare proprio nel
palazzo mio). Credo infatti che tutti i vecchi del quartiere vivano qui,
rinchiusi tra queste quattro mura. Le pareti delle case sono così sottili che,
ahimè, si sente ogni cosa, anche il più piccolo rumore. Gli amorevoli nipotini
della vecchia al piano di sopra sono ad esempio uno spiacevole incubo
ricorrente.
Ogni
mese a riscuotere l’affitto arriva Il Vecchio, il nonno del proprietario del
palazzo, un uomo di trentaquattro anni -quindi quasi coetaneo mio- (il nipote,
non il nonno) che ha fatto fortuna nel mattone e che oggi, mentre gli altri
trentenni muoiono di fame, può permettersi la Porsche giusto per fare il coatto
con le ragazze di periferia. Il giorno in cui Il Vecchio viene a riscuotere l’affitto
è per noi (come certo capirete) un incubo. L’incubo comincia alle dieci del
mattino quando, ormai svegli, il coinquilino ed io racimoliamo gli ultimi
spicci. Dopo aver distrutto l’ennesimo salvadanaio (un mese di risparmi da
cinque centesimi ogni due giorni) cominciamo a fare avanti e indietro per la
cucina. Quando finalmente il campanello suona il primo che apre trova puntuale
Il Vecchio, leggermente gobbo, che ci guarda male. Ma non questo mese. Questo
mese, per la gioia di noi tutti, ad affacciarsi al nostro misero appartamento è
niente poco di meno che il nipote, il palazzinaro che tutto può. L’uomo, di cui
per volere ignoro il nome, ha, lo ripeto, trentaquattro anni. È un bel ragazzo,
con i capelli rasati sotto e lunghi sopra e con il ciuffo alla Little Tony
(come vanno di moda adesso). Il viso leggermente a punta contrasta di poco con
il fisico palestrato e ben scolpito e gli occhi, di un azzurro intenso,
sembrano indagare ogni momento, come se potessero addirittura penetrare fin
dentro l’anima del sottoposto. Ha la barba il palazzinaro, di quelle belle e
molto curate, di un biondo acceso, fine, delicato quasi. Indossa una camicia
scura, una cravatta stirata e dei pantaloni che, nonostante non si veda, sicuro
sono di marca. Il ricco, Amici & Amiche, non ha bisogno di mostrare la
scritta Dolce & Gabbana. Quando entra allunga il braccio, come fossimo
amici, per una stretta vigorosa che ricambio, cercando di premere come meglio
posso. Poi si guarda intorno, leggermente disgustato dall’arredamento e si
siede in cucina, senza chiedere il permesso a nessuno.
«Prego», dico non riuscendo a trattenermi.
Il ragazzo (come possiamo essere diversi
noi ragazzi! Due mondi lontani e separati, uniti solo da un odio viscerale uno
nei confronti dell’altro!) osserva bene la cucina e sentenzia, con voce sicura:
«Va rifatta.»
«Cosa?»
«La cucina. È marcia».
«Non è vero, è solo un po’ di polvere.»
«Guardi là, le pare polvere?»
Sono culture differenti, luoghi
differenti, esperienze differenti. Due universi che non possono unirsi,
incompatibili ecco. Lo sappiamo tutti e tre: Simone, io e il proprietario
dell’appartamento. Lui è solo, non gioca in casa, ma ha il potere, il coltello
dalla parte del manico. Può permettersi, non senza un certo gusto sadico, di
decidere cosa fare della nostra casa e noi, povero me, dobbiamo ringraziare.
«C’è giusto un po’ di muffa. Vede?», dice il coinquilino allungandosi
verso la maniglia che, una settimana fa, avevamo incollato con la colla (la
maniglia che ora va via, strattonata da Simone).
«Ops».
«Ecco. Dobbiamo rifare la cucina. La maniglia ovviamente sarà a carico
vostro».
La verità è che saremo sempre e comunque
ospiti, non ci apparterrà mai niente. Non che io creda nella proprietà privata
eh, ma non credo neanche in quella degli altri. E invece ci sono persone che
hanno tutto e che posseggono pure le cose degli altri e persone che, in fin dei
conti, in mano hanno solo un po’ di buffi e qualche illusione. È così che il
proprietario del palazzo può decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato; può
scegliere l’arredamento stesso della nostra casa. È con lui che la mia
generazione dovrebbe prendersela, con lui e con i suoi simili: una razza
bastarda di teste di cazzo. Questa razza, Compagni & Compagne, non ha età,
c’è sempre stata e da sempre sceglie le cose sulle nostre teste, giocando a
bowling con i sentimenti. Il problema è che molti di noi (che siamo la maggior
parte) invece che ribellarsi se la prendono con chi sta peggio, eseguendo
effettivamente il volere del padrone, sia esso politico, palazzinaro o datore
di lavoro. È così, funziona sempre così, da sempre.
In quattro e quattr’otto il giovane, stringendo bene il nodo della
cravatta, sceglie e decide che, da qui ad un paio di settimane, vivremo in
mezzo ai calcinacci. «Non lo faccio per voi», sorride uscendo (e dopo aver
riscosso l’affitto), «ma per chi verrà dopo
di voi». Annuiamo a testa bassa, consapevoli della sconfitta. Abbiamo belle
parole Simone ed io, siamo bravi affabulatori ma poi la verità è che, come
tutti, siamo dei perdenti. Perché non andarcene, non mandarlo a quel paese e
non toglierci finalmente più di un sassolino dalla scarpa? Semplicemente: non
possiamo. Qui l’affitto è basso e la vita costa meno, non possiamo permetterci
altro. La verità è che non c’abbiamo un euro. Fanno ridere a me i tizi in
televisione che parlano ancora di generazione mille euro. Oggi la generazione
mille euro sta messa bene, è tipo media borghesia, noi stiamo sotto (e di molto).
E visto che stiamo sotto accettiamo ogni cosa. Così poi, quando senti la
vecchietta in metropolitana che parla dei giovani che non hanno voglia di far
niente devi stare zitto, rimanere muto perché manco più la forza di mandarla
‘affanculo c’hai.
Per
risparmiare il nostro affitta-casa ha scelto di comprare robe Ikea, ma a pezzi,
non tutto insieme, ché a pezzi costa ancora meno. Nella scelta, ovviamente, non
ci ha consultato e così, nell’arco di mezza giornata, ci troviamo casa piena
zeppa di operai che decidono al posto nostro. Simone ogni tanto prova ad
intervenire, io no. Io rimango fermo, immobile, a guardare. Io, che adoro
acchittare sistemare arredare mi trovo così, espropriato da casa mia, mentre il
giovane palazzinaro indica i muri e le pareti. Semplicemente, non sono
interpellato. Guarda il mio coinquilino, tra poco si stuferà; lo ammiro quasi
nella sua caparbietà, come cerca di mettersi in mostra, di scegliere. È inutile,
a breve ti stancherai e verrai a sederti accanto a me.
Mi accendo una sigaretta.
«Scusi», mi dice il ragazzo (che chiameremo Mister X d’ora in poi per
maggior praticità), «il fumo uccide. Può spengerla?»
Ed io, Cugini & Cugine, la spengo.
Gli operai nel frattempo tagliano
piastrelle, incassano mobili, preparano forni.
La nube di polvere mi assale.
Rimango seduto e non mi muovo.
Dentro, nel profondo, sale la rabbia.
È forte ed è indirizzata tutta su Mister
X. Cosa vuole a casa mia?
Simone nel frattempo cerca di
solidarizzare con i lavoratori.
“Dovremmo prenderlo a picconate”, mi viene da pensare.
Eccoci qui.
Operai, elettricisti, idraulici, impiegati e disoccupati. Tutti quanti,
tutti insieme, lavoriamo per lui. Lui dirige i lavori, pulitissimo nonostante
lo strato di polvere non indifferente. Si posa ovunque la polvere, sulle
posate, sulle mensole, sui piatti e sulle scodelle. Ci circonda. Ma lui, il
nostro Mister X, non ne viene colpito. Qui dentro è tutto suo, ogni cosa. Non
ci interpella, nonostante i vani tentativi di Simone, non ci considera. Ce l’ha
fatta, è uno di quelli che ci è riuscito, perfettamente inglobato in questo
sistema eppure così felice. Ammirate
la sua pelle, liscia e profumata, osservategli le sopracciglia tagliate al
punto giusto e poi sorridete, contemplando il torace che si intravede dalla
camicia attillata. Mister X ce l’ha a morte con gli zingari, con gli immigrati,
con i poveracci e con quelli come noi, che mandano in malora l’Italia. Mister X è uno di quelli che
puoi vedere seduto ai banchi del Parlamento, uno che dice che i giovani sono un
branco di sfigati mammoni e che anche lui è giovane (e ama la mamma) ma che,
facendosi un mazzo così, c’è riuscito. Lo puoi osservare al volante della sua
auto sportiva, quando in un giorno di pioggia inzuppa la vecchietta con le
buste della spesa in mano; lo puoi vedere seduto nei ristoranti da ottanta euro
al piatto (una cagatina francese che manco ti sfama) mentre parla con gente
come lui, o meglio con gente sotto di
lui. Perché diciamocelo, chi non vorrebbe essere come Mister X, con un fisico
da star del porno e i soldi che gli escono dal culo? È proprio questo il
problema, l’ammirazione. Noi, la fascia povera della società, aspiriamo a
diventare come Mister X, non cerchiamo la rivolta, l’uguaglianza, il
sacrificio. Noi bramiamo la ricchezza. Ci piacciono le auto di lusso e i cibi costosi, vogliamo mille donne e tanto
denaro. Siamo tutti aspiranti Mister X. Per questo ce la prendiamo con chi sta
peggio, come potremmo fare altrimenti? Abbiamo avuto per anni un Presidente del
Consiglio miliardario, adesso ne abbiamo uno schiavo delle banche, servo dei
poteri forti, che sta ulteriormente precarizzando le nostre vite, eppure ci
piace. Eccome se ci piace. Mister X e il Presidente del Consiglio andrebbero
molto d’accordo.
Guardatelo adesso, il giovane che ci è riuscito:
lui comanda.
E noi osserviamo.
Anche Simone si è stufato e si siede accanto a me.
Siamo coperti di polvere entrambi,
bianchi da far schifo e con le mani che sembrano di farina. Starnutiamo un
attimo, un secondo soltanto e poi ci guardiamo.
Noi siamo sporchi. Lui è pulito.
È questa la differenza.
Però è fuori, è la pelle, l’esterno, il
corpo. Dentro non è così. Dentro c’abbiamo diamanti al posto del cuore, siamo
puliti da far schifo ed è il rispetto, sempre e comunque, a muoverci. Dentro
siamo oro, luccichiamo. Diffidiamo da chi ha la giacca e la cravatta. Ci fanno
paura quelli così, la gente in giacca e cravatta fa le cose peggiori, commette
i crimini più orrendi, ruba al livello internazionale. Quindi in fondo a
guardarci bene siamo bellissimi. Veniamo dalle borgate e abbiamo tantissimi
amici, conosciamo tutto il mondo, ogni singolo centimetro, c’abbiamo la
metropoli come patria. I nostri amici sono filippini bengalesi rumeni rom sinti
indiani peruviani marocchini brasiliani. Camminiamo sicuri per strade che tu
non calpesterai mai. Ci facciamo dare il prezzemolo dalla vecchia della
frutteria e ci scambiamo otto parole, con la vecchia, sempre con il sorriso
sulle labbra. Frequentiamo spazi luoghi posti che tu, Mister X, non vedrai in
tutta la vita. In pratica la tua percezione sarà limitata per sempre, perché
non conoscerai il mondo, non ne annuserai l’odore, il sudore; non farai le
quattro del mattino in un centro sociale assieme alla ragazza che ami, dopo
aver passato la sera nei posti più attivi della città, quelli che brulicano di vita. Non camminerai mai
nei casermoni di periferia ad assaporare le storie di chi non c’ha niente. Non
condividerai il sacco a pelo dentro una tenda sgualcita, coperto solo da un
manto di stelle. Non leggerai un libro sdraiato sull’amaca, il sole in faccia e
il vento tra i capelli. Non girerai in bicicletta, sgattaiolando tra le
automobili come la tua, godendo nel semplice atto della pedalata. Non seguirai
il fiume umano di un grande corteo che si ingrossa come un’onda che tutto può;
non sentirai la vicinanza di quelli come te, una vicinanza vera e senza doppi
fini, solo il gusto di stare insieme e di avere un ideale comune. Non sarai
felice con poco, con niente, vorrai sempre tutto tutto tutto e alla fine
morirai così, senza aver capito che non serve molto, che basta un nulla per
farsi una risata.
In
fondo chi sei? Dove vai? La tua è una vita di paranoia, tutto qui. Hai il
garage pieno zeppo di antifurti, la tua automobile ha una telecamera nascosta e
un rilevatore satellitare, la villa dove abiti è isolata, lontano da tutti. Ti
piace l’arredamento minimalista, minimalista cazzo. Non hai amici, ma solo
leccaculo. Anche tu sei un leccaculo. Passi le giornate ad ammaliare chi è più
forte di te, chi ha più di te. E per cosa? Per denaro, sempre e comunque per
denaro. C’hai il pensiero fisso tu. Vivi per quello, per nient’altro. Manco sorridi.
Ti vedo io. C’hai un sorriso finto da iena, da paraculo navigato. Però da
ridere non ti viene mai. ‘Na bella risata forte, fragorosa, senza mano davanti
alla bocca, da quant’è che non te la fai? A forza di bere vino buono in buone
bottiglie hai scordato la bellezza della bettola di periferia, del pub di
quartiere, dei beveraggi con gli amici fino a notte fonda. Ti droghi forse, un
paio di botte di cocaina per stare su. Ma manco quella ti fa. Tu non sai cosa
significa sporcarti le mani, lavorare come operaio e conoscere i tuoi compagni
che non vogliono sopraffarti, che non stanno in competizione no, che sono solo
compagni tuoi, tutto qui. Sei circondato da bestie feroci. Io lo so che il tuo
pianeta è così. Vivi in un’eterna competizione. Quindi lo sai che ti dico? In
fondo sì, mica ti invidio. Tra i due il fortunato sono io. Anzi. Rifammi pure
la cucina che in fondo la muffa ce l’aveva, divertiti a poter scegliere e a
sentirti un borioso-testa-di-cazzo. A me ‘sta storia qua non interessa. Io c’ho
la vita mia che è incasinata e caotica ma è piena. Oh, io non dico che i soldi
non servano eh. Dico che servono il giusto, quel che basta. Il troppo strozza.
E ti fa diventare come Mister X, uno che poteva fare l’attore porno ma che è
finito a sistemare cucine per gli altri. Quindi sì, Amici & Amiche, ché
alla fine dei giochi, quando ogni cosa finirà, sono sicuro che potremo voltarci
indietro e fare un bel sorriso, perché il cuore a noi ci ha sempre battuto.
Tu tum
Tu tum.