“Com’è strano svegliarsi nel cuore della notte con la sensazione che
qualcuno sia appena uscito dalla stanza, la sensazione che solo pochi istanti
prima qualcuno ti sussurrasse: Tu e io, io e tu, come una musica sommessa che
svanisce appena cominci ad ascoltarla davvero”.
Helen Oyeyemi – Boy, Snow, Bird
Oggi,
dopo una lunga assenza estiva, vorrei narrarvi le gesta del sottoscritto
MASTRO LINDO: I bicipiti scolpiti!
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKY: Lo sguardo
truce da marinaio!
…Vorrei narrarvi le gesta del sottoscritto, il prode Elia Mangiaboschi,
vostro amico e confidente…
«E invece…»
«E invece Ganesh…»
BATMAN: No, il racconto serio no…
KARL MARX: Compagni, la sentite?
IL CRICETO: Che?
KARL MARX: Quest’aria stantia, di
chiuso, da ascella sudata, deprimente…
IL CRICETO: Ma dici qui nella Stanza dei
Bottoni? Il sacro luogo da cui manovriamo l’adorato?
KARL MARX: Si sta insinuando.
UNA MOSCA: Cos’è? Cos’è?
MICHAIL BAKUNIN: E’ la crisi. La fine
delle ideologie. La morte del…
MASTRO LINDO: Ve lo dico io cos’è. E
l’avevate promesso cazzo. Qualcuno durante le vacanze ha mai pensato di dare
una pulitina? Piccola eh. Mica a passare l’alcol sugli specchi. Non pretendo
tanto. Ma Cristo guardate là, dov’è svaccata la Kundalini! È pieno di bocce e
mozziconi di sigarette!
BATMAN: Beh, c’è anche una chiazza di
vomito indurito, quei vermetti là c’hanno fatto un simpatico castello.
GRANDE PUFFO: Ma no, stiamo tutti bene.
E’ solo che, come al solito, il nostro Superstellino non ha comprato le birre.
Come al solito. E sottolineo come al solito. Che io non è per fare il
pignolo ma, per tutti i puffi, una cosa devi fare. Una! Comprare-i-beveraggi!
Alla fine poi sì che ci deprimiamo! E se ci deprimiamo Elia si deprime e se
Elia si deprime cazzo è ‘na palla! Per me, per noi, per tutti! E poi si lancia
sotto al treno! O piange per giorni interi! E qui a casa nostra vengono tutti
quei tristoni suicidi fattoni del cazzo! E di chi è la colpa? Tua
Superstellino, solo tua!
SIGMUND FREUD: Se posso, colleghi,
vorrei brevemente far chiarezza. L’ignaro lettore legge i vostri dialoghi
(scarsi) e non capisce. Nel frattempo siamo andati fuori tema mentre tutti
quanti sappiamo benissimo quel che l’adorato vuol raccontare nel primo Racconto
del Martedì. Se solo lo lasciassimo parlare forse, e dico forse, essendo il
Mangiaboschi bloccato ancora nella fase orale, il buon lettore avrebbe più
elementi per analizzare una storia che altrimenti non c’è. Elia è rimasto
colpito da quel che è successo al suo amico e la cosa l’ha turbato non poco. Se
permettete ai comandi mi ci metto io. Grazie. Andiamo a continuare.
…E confidente. Ma non lo farò, non catalogherò i bagnanti nelle spiagge,
né mi cimenterò in argute descrizioni di guide improbabili. No. Vi narrerò
piuttosto le gesta del mio amico (un caro amico) che per rispetto della privacy
chiamerò semplicemente Amico e, in parte, di un’amica (una cara amica) che per
rispetto della privacy chiamerò semplicemente Amica
GRANDE PUFFO: ‘Mmazza che originalità.
SIGMUND FREUD: Shhh.
…E della fine della loro storia.
Mettetevi comodi quindi e se c’avete la
lacrima facile preparate i fazzoletti.
Amico & Amica si erano conosciuti un giorno per caso ed erano stati
insieme per molto tempo. Avevano viaggiato, si erano divertiti e non avevano
mai discusso. Amico era un tipo allegro e divertente, Amica invece seria e
molto scrupolosa. Si compensavano e uno cercava le doti dell’altra. Lui aveva
una bella associazione, una piccola realtà di quartiere che però lo rendeva
orgoglioso e grande ma lei, in quel posto lì, non ci metteva mai piede. Era un
tarlo certo, ma superabile, ché se si ama qualcuno alla fine le rinunce si
fanno.
«I rapporti», diceva sempre il ragazzo, «sono fatti anche di rinunce».
Amico & Amica vivevano insieme, a
casa di Amica e avevano due bellissimi gatti.
Amico è uno scemo.
E da scemo non si rendeva conto.
Così un giorno dopo tanti anni Amica
d’improvviso era venuta da lui dicendo che no, io ti amo, cioè, credo che ti
amo. Però sono in crisi. Alcuni aspetti tuoi non mi piacciono più.
«Ed io Elia sono crollato. Ti giuro, ‘na botta. Ché non me l’aspettavo
proprio. Cioè, l’avevo vista nelle ultime settimane un po’ così no? Come dire,
strana ecco. Però cazzo, m’è crollato il mondo addosso. Anche se poi la sera
prima un incubo l’avevo fatto e se c’avevo Freud come te in testa sicuro lo
capivo ‘sto sogno dimmerda.»
Quali erano questi aspetti?
«Amico è infantile», diceva Amica. «Non… non fa mai niente. Non lava,
non pulisce, compra solo schifezze da mangiare e mi chiede cosa manca. Apri il
frigo, è mezzo vuoto. Se deve fare delle analisi del sangue sono sempre io a
doverglielo ricordare. Si dimentica di tutto. pure di lavorare. Poi però si
lamenta se non ha un lavoro. Ed io… io mi sento la sua sgretaria…»
«Ho sempre riso con Amica del fatto che lei fosse la mia segretaria… per
me ecco, era un gioco. Le cose me le ricordo. Lo giuro. E la spesa… beh la
spesa ci piacciono cose diverse ed io le chiedevo ‘nsomma, cosa preferisci no?
Per dolcezza ecco. Dolcezza sì.»
«Tutte scuse… tutte scuse».
Amico guardava dentro di sé e esaminava.
La sua compagna non poteva fare affidamento su di lui, sul suo uomo. Così era
tornato indietro nel tempo, analizzando fatti e sensazioni e aveva catalogato
ogni cosa e aveva scritto sul taccuino tutto ciò che non andava, come un pazzo.
“Ma cambierò”, pensava (e ne era convinto!) perché le persone mutano, crescono.
Amica però nei cambiamenti non ha mai
creduto.
«Anche le cellule del nostro scheletro cambiano completamente. Noi non
siamo le stesse persone che eravamo ieri. Come puoi…»
La ragazza non lo sapeva e stava male per questo, come se qualcosa le si
fosse spezzato dentro. Desiderava amarlo ancora ma non ci riusciva. «Partiamo
lo stesso», aveva detto un giorno. «Andiamo in Sicilia, forse recuperiamo».
Non tutto era perduto e Roma diventava troppo stretta. Ogni giorno Amico
seguiva la lista delle cose da fare, per dimostrare quanto potesse impegnarsi:
aveva chiamato l’idraulico (il cesso era rotto da mesi), era andato alle Poste
a pagare un conto in sospeso, si era fatto in quattro per cucinare tutto senza
sporcare niente, aveva pulito gli specchi del bagno e della camera da letto e
della cucina e del salotto, si era prodigato per i gatti più del solito. Tutto,
ogni cosa, e c’era sempre qualcosa che gli sfuggiva. Ma non poteva fermarsi.
Era fermamente convinto che
«E lo sono tutt’ora».
…E lo è tutt’ora, che a forza di farle
le cose diventano abitudini. Vedete, Amico, come me del resto, è sicuro che le
persone possano cambiare. Lo dice anche lo yoga. Le persone mutano, evolvono.
Certo, la base rimane quella. Non si può pensare che Amico, goffo e incapace di
aggiustare perfino una lampadina, diventi improvvisamente il perfetto
Maschio-So-Far-Tutto. Quello che taglia la legna e fa il barbeque, che sa
riparare lo scarico e il motore della macchina, ma si può migliorare, si può
sempre migliorare. Non esiste la persona perfetta. Nessuno è perfetto. Amico
crede nel cambiamento.
«E cazzo, a giugno ci lottavo proprio pe’ ‘sta roba.»
Erano partiti quindi, in tenda, in
Sicilia, come piace a loro.
La tenda era stato un regalo di Amica, quando ancora lei lo amava e
passava le ore a creare pacchetti fantasiosi (nel caso specifico un grande topo
di carta argentata). La tenda era la loro vera casa, di tutti e due e montarla
era stato un bene. La sera avevano fatto l’amore.
Lei però era distante, i giorni passavano e non riusciva ad avvicinarsi,
ad essere se stessa, ad amarlo e Amico, poverino, si disperava.
Ah! Che tristezza l’amore! Che orribile
fardello! Un grandissimo buco nero al centro del cuore cresceva ogni giorno di
più, come se una mano lo stropicciasse senza pietà. Oh sì, Compagni & Compagne, tutti noi almeno una volta nella
vita abbiamo provato quest’orribile sensazione. La ricordate? La sentite?
Sapete cosa avviene? Lo stomaco si chiude, non si mangia, la mente vaga,
impazzisce, il sangue scorre lentamente, il pianto è sempre lì pronto, il mento
trema incontrollabile, arrivano i brufoli, il respiro si blocca e i pensieri
scorrono tutti lì. Il resto si annulla. Un bellissimo autolesionismo
distruttivo. Tutto il mondo gira attorno alla fine della storia.
«Com’è possibile», urlava di notte il ragazzo alla luna, «che l’intera
popolazione umana non si disperi per me? Che il mio malessere non sia condiviso
dalla Nazione? Sono io il centro dell’universo… io!»
«E invece non conti un cazzo…», rispondeva la luna. «Non sei neanche un
granello di sabbia. Manco polvere di stelle. Tu sei nulla».
E Amico piangeva solo, al buio, in riva al
mare e sentiva l’aria mancare e crollava a terra, quasi svenuto e le lacrime,
lui che odiava le lacrime, scorrevano copiose rigandogli le guance. E poi sì,
era il corpo intero a piangere e piangevano le ascelle e piangevano le braccia
e piangeva il torace e piangevano le gambe e piangeva la gola e piangeva
l’ombelico e la luna intanto rideva immobile, ferma, ad osservare la fine di
una storia.
Quando Amico tornava in tenda, ogni sera, guardava la sua compagna e si
ritrovava ad amarla. La osservava dormire, la bocca socchiusa, il viso
contratto in un piccolo sorriso, i capelli sciolti sul cuscino. Allora la
accarezzava piano, senza farsi sentire, perché era l’unico momento in cui lei
non si ritraeva. Poi provava a dormire.
Di giorno Amico recitava. Sorrideva, faceva battute ed era simpatico. Se
gli occhi si facevano lucidi si tuffava in acqua per non farsi vedere. Amica
faceva lo stesso: sorrideva, era simpatica e se gli occhi si facevano lucidi si
tuffava in acqua per non farsi vedere.
«Perché anche per chi lascia è difficile.»
Anche per la ragazza era difficile.
Soffriva per lui e soffriva per lei. Sapeva il male che stava procurando alla
persona a cui voleva più bene, ma come poteva mentire? Sarebbe stato ancora più
ingiusto fingere che tutto fosse perfetto. “Ho fatto l’unica cosa che potevo
fare”, si ripeteva guardando Amico tuffarsi in acqua. Come avrebbe voluto
amarlo ancora, gioire del suo respiro e delle sue carezze. Come quella volta,
in Grecia, in una spiaggia deserta, quando avevano fatto l’amore ed erano
venuti insieme, nello stesso istante, guardandosi negli occhi e giurandosi
eterno amore.
Ad Amico mancava la quotidianità. Le bellissime abitudini della coppia.
Non si vergognava di pensarlo. Adorava l’abitudine, lo stare insieme, l’andare
in bicicletta, l’aspettare i titoli di coda del film, le domeniche a Porta
Portese a spulciare tra gli stracci usati. Ma ancora di più gli mancava la
spontaneità. I piccoli gesti.
FEDERICO MOCCIA: Avete presente no?
GRANDE PUFFO: Ecco, ci puffava lui, pe’
‘na volta che Elia scrive ‘na roba smielata e tutta cuoricini tipo romanzo
Harmony figurati se non veniva questo qui a caga’ er cazzo. E scusate il
francesismo ma oh, io non lo puffo
proprio a ‘sto scrittorucolo.
FEDERICO MOCCIA: Farò finta di non aver
sentito. Piuttosto, dicevo: sono i piccoli gesti a creare feeling nella coppia.
Le stupidaggini: la carezza data in un momento qualunque, il bacio veloce sulle
labbra, la voce che si fa fanciulla, infantilizzandosi. Capita a tutti.
Amico adorava i piccoli gesti. Le cose che uno non ci pensa quando ce
l’ha. Le robe normali insomma. Adesso invece dare una carezza alla sua donna
era diventata un’impresa e scambiarsi due battute affettuose ancora più
difficile.
«Alle volte rimanevamo in silenzio per ore no? Ed io non sapevo se
questo mutismo era dovuto al fatto che leggessimo bei libri o che non sapessimo
cosa dirci».
Un incubo. Il viaggio di riparazione si stava trasformando in un incubo.
Amico vedeva sempre di più allontanarsi la ragazza e Amica non riusciva ad
avvicinarsi, come se fosse tirata indietro da un mostro invisibile e potente
con denti gialli e acuminati. Le dita però correvano ancora verso il compagno.
Lui si svegliava ogni mattina con un magone addosso incredibile e con
una paura ancora più grande. Stava impazzendo. Lo sentiva. “Avrà un altro?”, si
domandava disperato. “Cos’ho che non va?”, “Perché mi ha amato se non ha mai visto la mia
parte migliore, se non è mai venuta a vedere chi sono? Quando sono al centro
della scena, nella mia associazione, al locale, perfetto e bellissimo, è lì che
la gente fa affidamento su di me”.
Perché per tante persone Amico era non dico un faro ma una persona su
cui si può contare. Un insegnante, un confidente, un lottatore, un compagno. Ma
lei invece no, queste cose non le vedeva, non le sapeva, le aveva dimenticate.
Non poteva fare affidamento su di lui perché conosceva solo una parte di quel
giovane così fragile.
«Se solo scoprisse il mio punto di forza, la mia realizzazione maggiore…»
Allora ti vedrebbe uomo.
«Come
può la donna con cui sei stato per tanto tempo pensare una cosa del genere?
Come può avermi amato? Come può non fare affidamento su di me?»
Non può.
Non può.
Di notte la luna lo guardava. «Perché tu la ami?»
Amico la risposta mica ce l’aveva. Si
sforzava in tutti i modi ma non la trovava.
«Oh, una cosa incredibile eh…»
Si spremeva le tempie e rifletteva.
Niente. «Sì invece, è proprio questo. La quotidianità. Lo svegliarmi accanto a
lei. Lo stare insieme a cena, andare al teatro a vedere Celestini. La amo
perché mi piace passare le giornate con lei. Ché l’amore è ‘na roba semplice,
bella così. Mica grandi eventi e incredibili viaggi».
Dopo quindici giorni, due giorni prima del suo compleanno, Amico si era
voltato verso Amica e le aveva chiesto di decidere.
Così Amico si era trovato solo a Malta, rifiutando di tornare a Roma e
di rimanere in Sicilia. Aveva bisogno di caos, di confusione, di musica, di
alcol e di vomito. Aveva bisogno di Paceville.
Era andato a dormire da un’amica che vive lì, si era presentato di punto
in bianco pretendendo un posto dove stare, ché il suo cuore era fermo e tutto
gli spettava di diritto. Si era presentato gobbo, curvo su se stesso, dimagrito
di cinque chili (lui, già così magro!), con la barba sfatta e i capelli
arruffati. Si era presentato con un piccolo zaino, un fagotto che per mesi
sarebbe diventato il suo armadio, senza più una casa, senza una compagna, senza
i gatti, senza una vita. Giorgia, la sua amica, aveva capito (nonostante spesso
il ragazzo non si fosse comportato bene con lei) e l’aveva accolto.
Amico aveva pochi amici ma quei pochi, da contare sulla punta di una
mano, lo avevano sorretto. Nei due giorni a Roma per organizzare il viaggio a
Malta non era mai rimasto solo, un’intera ciurma di sbandati l’aveva sostenuto
in ogni istante. Soprattutto Lavinia, che non lo aveva abbandonato un attimo,
che era stata ore al telefono a consolarlo, che lo aveva fatto uscire anche
quando lui non voleva. Brava, dolce, tenera Lavinia. E i suoi genitori, partiti
alla volta della Svizzera a fare arrampicata ma sempre pronti a rispondere ai
messaggini su uozap.
Paceville è una sorta di Montmartre postromantico. Uscito dritto dritto
dal film Moulin Rouge ma senza bohemien e con tanti coatti allampanati. Un
quartiere dove si vendono settantadue shottini a nove euro e novantanove e i
locali sono aperti fino al mattino; dove le donne ubriache pisciano in mezzo
alla strada e i bambini con gli occhi fuori dalle orbite danno craniate sul
cemento duro mentre gli uomini si accasciano a terra, la bava alla bocca e gli
occhi a mezz’asta. Un quartiere lastricato di cocaina & anfetamine nasi che
sanguinano e dischi volanti. La via dei night club di luci al neon e di
prostitute che adescano i vecchi con guanti in lattice e frustini alla mano.
Una Bangkok selvaggia fatta di combattimenti clandestini e ascelle sudate, di
whisky che sa di benzina e bettole incatramate. La zona sì, dove non di rado i
topi si dividono il cibo con gli ubriachi.
E lì Amico si era perso. Ogni notte aveva vagato fino all’alba circondato
da estranei, smarrito tra discoteche pompose di muscoli gonfiati, strusciato,
bevendo fino allo stremo, senza ritegno, diventando anche lui parte di quel
meccanismo di divertimento a basso prezzo, senza niente addosso, spendendo
tutti i suoi risparmi, fino all’ultimo centesimo un altro amaro ti prego! Lui
era alcol. E vomito. E alcol. Ingranaggio. Tutte le sere, alla ricerca dell’annullamento.
«Vai via!», urlava. E ogni volta che il viso di Amica tornava a farsi largo tra
le immagini lo cacciava con un bicchiere di assenzio e le fate ronzavano
nell’aria e le mani ruvide e callose lo trascinavano fuori dal locale, per
buttarlo a terra urlando lingue sconosciute. E lui adorava il giorno dopo, il
down della tempesta, quando si contorceva sopra il cesso, la bocca aperta e due
dita in gola, perché pensava a quel che buttava via e non alla sua amata.
Ma si sentiva solo e Amica gli mancava, come se un pessimo chirurgo gli
avesse tolto un pezzo. Ora era metà. Il suo corpo era tagliato. Odiava
Paceville ma non poteva farne a meno. Il quartiere era la sua amante. Lo
cercava nonostante non volesse. Non sopportava la musica pompata a tutte le ore
e contemporaneamente ne aveva bisogno. Si collegava su uozap per guardare
l’ultima connessione di Amica e leggeva avanti e indietro i messaggi che si
erano mandati negli anni.
«Uno stalker dimmerda cazzo».
Ma non poteva farne a meno.
Giorgia lo guardava dispiaciuta e lo portava in giro. Al mare, a fare
traslochi, ovunque. Lui la seguiva come un cagnolino.
Di notte ballava.
E poi si ritrovava, nel buio senza cielo, a parlare da solo. No. Non da
solo. Con lei. Amico dialogava con Amica. «Lo vedi», diceva, «come mi hai
ridotto?»
Dopo dieci giorni era scappato. Fuggito a Gozo, una piccola isola vicino
Malta. Aveva preso una stanza e, consciamente, si era deciso a stare con se
stesso. Era un cancro, un lutto, e lui doveva estirparlo.
«Io lo so che finirà, che tornerò a star bene. Ma qui, ora, sto male. Non
capisco niente».
Si svegliava la mattina presto e andava al mare, bellissime spiagge
fatte di sassi e camminava solitario lungo le scogliere ad osservare l’acqua
infrangersi contro le rocce. Poi si tuffava in quel mondo alieno e nuotava fino
a che il respiro non fuggiva e dopo nuotava ancora, sempre più giù, in fondo,
nel nero. Solo alla fine risaliva cercando l’aria.
Per sentirsi vivo.
La sera girava nel paesino e cenava
solo, in cima al castello, la luna a fargli compagnia. Ogni tanto piangeva.
Però vedeva posti bellissimi e parlava con i pescatori e parlava con gli
autoctoni e parlava con i turisti. Con tutti. Parlava anche con i sassi.
Parlava con Amica.
«Vedi?», diceva guardando l’acqua cristallina, «Guarda cosa ti perdi».
Sapendo quanto la ragazza adorasse il mare. «Osserva dove sono», sussurrava. La
sera alzava il calice di birra e brindava con lei.
Altre sere urlava così forte da star male, da sentire le corde vocali
spezzarsi. E allora si immaginava muto e desiderava il linguaggio dei gesti.
C’era questo bar in cui i marinai si riunivano la sera (o almeno Amico
credeva fossero marinai) dove passava verso le sette a farsi un bicchiere di
vino. Era piccolo e sporco e le cose da bere costavano uno sputo. Con quei
vecchi Amico adorava parlare, si faceva raccontare le storie di pesca e fumava
pensieroso la sigaretta osservando i visi rigati dal mare, abbronzati dal sole
cuocente. Rimaneva ore lì. Anche lui parlava e raccontava sempre la stessa
storia in un inglese tipicamente italiano.
«Io non la rimprovero», spiegava ai pescatori, «l’amore non si comanda.
Il mio unico rammarico è che lei non mi abbia dato la possibilità di lottare,
che abbia preferito far crescere questa cosa piuttosto che combattere; non ha
avuto il coraggio di credere in noi. Questo sì, mi dispiace.»
I vecchi, saggi come solo i vecchi possono
esserlo, annuivano e poi gli versavano un altro cicchetto da bere.
Amico nel frattempo cominciava ad apprezzare la solitudine. Essere in
due crea delle limitazioni. Lui non ne aveva più. Riscopriva parti di sé che
credeva perdute, sensazioni che non ricordava. Un’intera sfaccettatura del suo
carattere sotterrata per amore. Con la vanga scavava. Quante rinunce aveva
fatto. Eppure… sì. Era stato felice, contento di rinunciare a certe cose. Solo
che non sapeva se era ancora disposto a farlo.
Di ritorno a Roma, aspettando di scendere dall’aereo, per un momento
aveva sperato -che pensiero stupido!- che lei fosse lì, subito dopo le porte
scorrevoli, ad attenderlo sorridente con un cartello giallo con la scritta
nera.
Non c’era.
«Ovviamente».
Era uscito nel caldo afoso della
metropoli, camminando piano piano, lento lento, lo zaino/armadio sulle spalle,
per tornare nella borgata sua, appoggiandosi ai muri solo ogni tanto.
Poi erano passati altri giorni e altri ancora. Amico & Amica si
erano incontrati ed era stato bellissimo per entrambi, così bello da essere
doloroso. Anzi, straziante. Così bello da decidere di non vedersi più. Amico era
sopravvissuto occupando le giornate e tornando a vivere. Aveva cercato casa, il
suo attivismo nell’associazione era aumentato, aveva cominciato a far sport, era
uscito quasi ogni sera con gli amici trascurati per tanto tempo, era andato al
lavoro con il sorriso sul viso, felice di essere vivo. Perché in fondo sì.
Amico era vivo e la sofferenza, questo tarlo bastardo che ti lacera dentro,
serve. Ti fa crescere, ti fa diventar grande, un uomo. E prima o poi, quando si
è stufi di essere in fondo al pozzo, in mezzo alla melma e al nero, ci si fa
una bella arrampicata, su fino alla cima, là dove c’è luce… e quando esci da
‘sto pozzo profondo il mondo è lì tale e quale a prima che ti aspetta, sotto a
‘sto sole settembrino, e ti urla a gran voce: «Daje! Daje Amico, gliela puoi
fa’!»
“(…) Perché la persona che si illude è la persona più bella, quella che
ti fa più tenerezza. Mi raccomando, statte accorto a quelli che non si illudono
manco un poco, a mamma: meglio chi sogna e ci rimane male quando si sveglia, di
quelli che, per non soffrire, non sognano più e buonanotte”.
Enrico Ianniello – La vita
prodigiosa di Isidoro Sifflotin
Il prossimo raccontino esce martedì 18 ottobre; lo so, una mese è tanto ma c'ho mille impicci da risolvere... abbiate fede...
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