martedì 24 giugno 2014

LA STANZA DEI SOGNI




  Salve Cacciatori di incubi, Mangiatori di scarafaggi e Piromani in provetta, l’altra sera ho fatto un sogno parecchio strano. Ho sognato anche di avere una donna che si chiama Elena -cioè, il sogno non è che è strano perché ho sognato di avere una ragazza eh… è strano per altri motivi insomma- come Elena Roccia, la mia compagna delle elementari (di cui ero follemente innamorato anche se, al tempo, per orgoglio tipicamente maschile dicevo, testuale: «Mi fa schifo»).
  Ve lo racconto, il sogno dico, così come me lo ricordo.
Mettetevi comodi.

  «È bellissimo, non è vero?»
  «Come l’hai scoperto?»
  «Conosci il Parco degli Elfi?»
  «Sì, mi ci portava sempre papà a giocare a nascondino».
  «Bene, ieri stavo lì tranquilla tranquilla a fumare una sigaretta quando improvvisamente si avvicina una vecchietta tutta poverella che mi dà una cartolina dove c’erano le istruzioni per arrivare in questo posto…»
  «E la vecchia? Chi era?»
  «E che ne so… mi ha chiesto una sigaretta e se n’è andata subito via»
Mi guardo attorno, un perfetto prato all’inglese ottimo per un pic-nic, due carezze e qualche bacio; soprattutto quando la tua donna è vestita in questo modo così carino e allora forse comprendi perché ti ha portato in un posto così vuoto. Vuoto nel senso che non c’è proprio nessuno.
  «Che fai», cinguetta lei.
Sorrido malizioso.

  Ci rivestiamo in fretta infila la scarpa un paio di carezze l’immancabile sigaretta in bocca.
  «Ti va di fare una passeggiata?»
  «Va bene», rispondo guardandola fisso negli occhi.
Camminiamo lungo sentieri immaginari, non ci preoccupiamo dei viali verdi e dell’ora tarda.
La precisione con cui è stata tagliata l’erba del prato è incredibile, ti lascia di stucco tant’è inglese.
  «Si sta facendo tardi», dice Elena, «forse è ora di tornare».
Ci teniamo mano per mano e ridiamo -baci & sapore- passeggiamo a lungo cercando di trovare l’uscita, camminiamo superando alberi e cespugli, un coniglio scappa lesto.
  «Ma quanto è grande questo parco?», domanda Elena.
Procediamo adesso più veloci, un pochino preoccupati.
  «Guarda!»
Davanti a noi, d’improvviso, si erge un bosco fittissimo, nero come la notte più nera.
  «Ho paura», sussurra Elena stringendosi a me.
  «Non devi, vedrai che adesso troviamo l’uscita».
Il vento si alza trascinando via le foglie e i colori cambiano. Il marrone avanza prepotente e un brivido mi assale.
  Un bambino e una bambina si avvicinano a noi.
  «E voi due da dove spuntate?», chiedo spaventato.
I bimbi non rispondono, ci guardano solo terrorizzati. La ragazzina ha lunghissimi capelli biondi, pelle bianchissima e degli occhi di un colore incredibile, come se lo smeraldo di tutto il mondo l’avesse trafitta; è vestita con una camicia da notte bianca. Mi guarda e sembra, per un solo attimo, scongiurarmi. Poi un ululato, un ululato dal bosco. I bambini fuggono via.
  «Fermi!», urlo.
Ma loro corrono corrono corrono e scompaiono fra le tenebre scure.
Un grido disumano si alza forte, dal punto più buio.
  «Cosa facciamo?», piange Elena.
  «Dobbiamo… dobbiamo raggiungerli, non possiamo lasciarli soli».
  «Vuoi entrare? Vuoi andare nel bosco? Si sta facendo buio…»
Guardo Elena un secondo, la voce quasi trema. «Vedrai, non ci succederà niente.»
  Ci addentriamo nella selva fitta e lugubre, alberi alti e spettrali sembrano seguirci. Il corpo è contratto dai singhiozzi e quando scorgo gli occhi gialli che ci spiano faccio un salto indietro.
  «È solo un topolino», mi dice Elena stringendomi forte la mano.
Poi qualcosa.
Qualcosa si muove alle nostre spalle
Mi giro di scatto.
Un burattino senza braccia ci osserva penzolando.
  «E questo da dove spunta?!?», grida la mia ragazza quasi strappandomi la carne.
Rimango immobile, pietrificato. Chiudo gli occhi un secondo sentendo il sangue che scorre veloce nelle vene.
  «Guarda! I due bambini!»
Elena si volta. «FERMATEVI!», urla.
Mi guarda.
Per un attimo, uno solo lo giuro, non riconosco quello sguardo. Sono i suoi occhi a colpirmi, occhi di ghiaccio, occhi che spaventano. Per un secondo soltanto rimane immobile, come se una lama l’avesse passata da parte a parte, poi, d’improvviso, lascia la mia mano, molla la presa e corre nell’oscurità.
Odore di marcio.
  «ELENA!», grido con tutte le mie forze. «ELENA, DOVE VAI?»
La sento urlare nel buio, grida selvaggia il mio nome gelandomi il sangue. 
  «Elena!», corro piangendo
Il cuore batte forte, sembra scoppiare.
La pelle formicola.
I pensieri galoppano raggrumandosi.
  Mi faccio largo fra le erbacce e la sterpaglia, mi pungo con una pianta spinosa.
  Freddo.
La vegetazione si fa sempre più fitta, un gufo echeggia in lontananza. I bimbi ridono.
  Perché ridete? State zitti MALEDETTI! STATE ZITTI!
Ma loro continuano, è un riso malvagio che rimane intrappolato nelle mie orecchie, che arriva dritto al cervello e mi colpisce spaventandomi a morte.
Stringo forte gli occhi, devo trovare Elena.
  Il vento si erge alto sussurrando il mio nome. Mi chiama e mi trascina facendomi graffiare.
   Elia.
Una casa. Pareti grigie, tetto scuro, finestre polverose.
  «Elia…» sento gridare dalla catapecchia.
Non è un grido, è più una supplica, una scoraggiata richiesta d’aiuto.
  «Elia, vieni da me, non mi abbandonare ti prego…»
Elena.
Cammino veloce.
La casa. Sembra più grande, pare quasi gonfiarsi.
I due bimbi si parano davanti la porta d’entrata. «Signore», dicono insieme, «signore, non entrare. È brutto lì dentro. Non entrare…»
Porta rossa e decrepita, cosa nascondi?
  È immensa.
  È nera.
  «Lasciatemi passare», dico, «chi siete?»
  «Non entrare signore, scappa via», dice la bambina dai capelli biondi.
Ma io non l’ascolto, l’unica cosa che voglio è ritrovare la mia donna. Spingo via i due ragazzini e spalanco di colpo la porticina.
  Sono dentro.
La stanza è buia, nera.
Non vedo niente.
Rimango fermo, aspettando che la vista si abitui all’oscurità.
  «Elia…»
Cammino piano.
Si gonfia e si sgonfia.
Il alto. Scale a chiocciola. Tasto il bordo, ruggine.
Salgo.
  Tic tic tic
Corro, faccio due scalini alla volta, salto.
  Paura.
  Freddo.
  La milza scoppia.
Una porta.
  «Elia».
  «Elena!»
La porta è rossa.
  Tiro la maniglia, non si apre.
  «Elia».
  «Sto arrivando!»
Do una due tre spallate e la porta viene giù.
  Vuota. La stanza è completamente vuota. Solo il grigio delle pareti e la muffa prepotente e l’odore nauseabondo di putrefazione.
  Tic tic tic
Mi giro di scatto.
 Decine di persone in camicia di forza camminano meccaniche.
  «Chi siete? Cosa volete?»
Ma loro non rispondono, continuano solo la loro danza macabra; sembrano… sembrano quasi burattini... sbattono contro le pareti e riprendono a camminare, come automi. Un uomo si avvicina a me, lo guardo, gli occhi sono morti, spenti, senza vita.
  Non capisco.
Poi la vedo, la vedo sfuggente fra tanti, la vedo e la raggiungo ansimando. «Elena», dico felice.
Ma lei non reagisce.
  «Elena, sono io… Elia… Elena…», dico scuotendola.
Elena cammina, sbatte contro il muro grigio, si volta.
Questa ragazza non è lei. Elena, dove sei?
  Esco dalla stanza.
Sento ridere, un ghigno. Un ghigno.
  Guardo in alto e, in cima alle scale, una vecchia dalla gobba   prosperosa mi osserva divertita. «Vieni», dice stridula, «Non aver paura».
  Sembra quasi nonna Concetta, solo più brutta, molto più brutta.
Corro, poi mi fermo.
Potrei sempre.
Potrei sempre tornare indietro, scappare via. Scappare da questo incubo maledetto…
  In cima in cima.
Elena, dove sei?
  Respiro affannato. Una porta, l’ennesima.
Un grido alle mie spalle, mi volto.
C’è un bambino.
C’è un bambino completamente nudo.
C’è un bambino completamente nudo che piange abbattuto.
  «Perché?», piagnucola. «Non entrare», dice passandomi avanti, «entrerò io al tuo posto». Apre la porta richiudendosela alle spalle.
  «Aspetta!» urlo tirando la maniglia.
Sono dentro.
  «Io… voglio solamente ritrovare la mia ragazza, Elena. Si chiama Elena. Lei, lei stava giù. In quella stanza. Insieme ad altra gente… ma non mi rispondeva. Non so, non era lei. Se mi dici dov’è ce ne andiamo subito. Ti giuro, non dirò niente a nessuno…»
Rimango in silenzio, dov’è finito il bambino?
  Mi guardo intorno. Ci sono immense scatole di vetro blu a forma di bara sparse in tutta la camera, scatole lunghe un metro e mezzo due metri al massimo.
E dentro le scatole…
dentro le scatole corpi umani dormono persi.
Mi volto di scatto, premo contro la porta.
  Strane parole sono dipinte rosse sul muro. File di manichini senza testa sono appesi al soffitto, ondeggiano, come cullati dal vento. Ce n’è uno vestito come me, uno vestito come Elena.
  Giro per la stanza, attorno alle bare di vetro.
Elena dorme. Dormi o sei morta? Elena dorme bellissima. Premo disperato contro la bara di vetro dove giace il suo corpo. «Elena!», urlo. «ELENA!»
Ma lei non risponde. Non può sentirmi.
  Che posto è questo?
Vecchia, dove sei? Dove ti nascondi? Avverto la tua presenza. Mi spii?
  Poi vedo una bara vuota e capisco. È per me. Mi sta aspettando.
Alzo il coperchio con movimenti meccanici. Mi infilo dentro, mi sdraio. Chiudo il coperchio. Chiudo gli occhi.
E, dal nulla, decine di bambini invadono la stanza ridendo. «Mamma», gracchiano. «Mamma, dove sei?»
Cantano i ragazzini: «Questa è la stanza del sogno, fai un grande girotondo, non aver paura, non c’è una cura. La stanza del sogno, sali su, scendi giù, fai un pò come vuoi tu. Fai un grande girotondo nella stanza del sogno. Se un pochino vuoi giocare attento devi stare, non ti fare acchiappare quando devi ballare. In paradiso dovresti andare, non restare!»
Li sento lontani, sempre più lontani. Il corpo si irrigidisce, come fosse di legno.
  Non. Sono. 
Ed eccomi nella camera in camicia di forza insieme agli altri.
Elena mi bacia. «Ben arrivato», dice.
  «Dove siamo?»
  «In un sogno. Apri gli occhi». 

martedì 10 giugno 2014

LADRI DI BICICLETTE

  Buongiorno Ciclisti metropolitani. Buongiorno a voi, che come me ogni mattina afferrate la vostra vecchia bicicletta e, sparvieri, vi immettete nel traffico cittadino. Vi vedo sgattaiolare tra le automobili, bellissimi e invincibili; vi ammiro mentre superate la barriera del suono e poi giù, verso l’infinito e oltre, alla ricerca della zona d’ombra, via dal marciapiede, il campanello già pronto per suonare. Conosco le vostre schiene sudate, lo zaino che si appiccica alla pelle, il calore sulle mani, il sole che picchia in testa. Venero la vostra perfezione, il moto circolare delle gambe e lo sguardo puntato sul contachilometri. Andate oltre, Amici miei, oltre lo stress. Sapete perfettamente quanto tempo impiegherete per arrivare al lavoro o a scuola, la vostra benzina sarà lo sforzo fisico e la musica nelle orecchie l’unica compagna. Siete tanti, siamo tanti. Per  questo i Ladri di Biciclette aumentano. Si nascondono quatti quatti dietro al muro di cartapesta, aspettano che l’ignaro ciclista leghi la sua bicicletta e poi, armati di sottili tenaglie, rubano l’adorato mezzo senza lasciar traccia. Io li odio. Ma, ahimè, anche questa volta la sorte mi ha giocato un brutto scherzo trasformandomi mio malgrado in un…
Ladro di Biciclette.
  Ma andiamo a cominciare. Mettetevi comodi, rollatevi la sigaretta tanto agognata, sdraiatevi sull’erba, inforcate gli occhiali e via, seguitemi un pochino.
  Fa caldo. Un caldo cane, un caldo che quasi ti inebria.
Pedalo seguendo la pista ciclabile che, accanto al Tevere, si dirama per chilometri e chilometri.
  Oggi è il mio giorno libero e come tutti i miei giorni liberi mi piace andare al cinema a vedere un grande film americano, nello specifico “X-Men”, che insomma, secondo me ha il suo perché. Quindi pedalo fischiettando bello felice senza badare a niente, osservando solo ogni tanto il fiume che scorre impetuoso. Non ho pensieri, non lavoro, ho dormito e stranamente non ho mal di testa. Quindi -finalmente- è una bella giornata.
  Ci sono parecchi cinema a Roma, io li divido per categorie, cioè, se voglio andare a vedere il film intellettuale vado al cinema di Nanni Moretti, se voglio stare da solo mi rifugio all’Ambassade o ad un cinemino di periferia, se invece voglio vedere il lungometraggio pieno di effetti speciali me ne vado all’Adriano, che a me piace e lo raggiungo pure in bicicletta. L’Adriano è una grande multisala tutta bianca in un bel quartiere di Roma; una cosa da ricchi, mica come le zone che frequento io; pensate, c’è pure il semaforo per le biciclette, che nella capitale si trova solo lì e ogni volta che lo vedo rimango allibito. Vicino all’Adriano c’è una caserma, è brutta, come tutte le caserme, un grande palazzone che sembra non avere finestre da cui escono loschi figuri e dove il sole non batte mai. È la Zona Oscura, ritrovo di sbirri e contrabbandieri, di politici e alti funzionari. Ed è proprio lì che il vostro affezionato sceglie di parcheggiare la bicicletta.
  Afferro la catena, adocchio il palo, proprio sotto la telecamera che ogni cosa guarda, e lego la bici. Ho due catene io, una per la ruota davanti e una per quella di dietro.
  “La sicurezza non è mai troppa!”, penso, guardando ammirato la centrale, “La polizia vigilerà sul mio mezzo!”.
  Faccio per andarmene ma d’improvviso mi volto.
  «Hai controllato la catena?», mi domanda il Criceto che mi frulla in testa.
  «Due volte», rispondo già sbuffando.
  «Sicuro? Io riguarderei al posto tuo».
Una rapida occhiata all’orologio e via, di nuovo a esaminare la bici. Ora, il controllo della catena è per i più cosa facile, roba di un minuto, questione di pochi secondi. Ma non per me. Io, qui lo dico e qui lo nego (e lo ripeto) sono paranoico, cioè, a me sale l’ansia e con l’ansia non mi gusto il film.
Il controllo della catena funziona più o meno così:
  1.Assicurarsi per tre volte che il catenaccio sia ben chiuso (prima premendo verso l’interno, poi verso l’esterno); ripetere l’operazione altre tre volte.
  2.Controllare che la catena giri bene attorno al palo e sulla ruota della bicicletta.
  3.Verificare che il palo non possa staccarsi dal terreno.
  4.Ricominciare di nuovo, per maggiore sicurezza.
Dopodiché ripeto il tutto con l’altra catena.
  «Ho fatto», sorrido al Criceto.
  «Hum…», risponde lui saltellando sulla ruota, «sei sicuro? E se le borse fossero aperte? E se nelle borse avessi dimenticato un importantissimo documento che ti cambierà per sempre la vita? O, cosa ancor più grave, se avessi scordato la patente (tuo unico documento) e un terrorista mangiabambini serial killer la prendesse? Pensa, verresti incolpato di tutti i suoi crimini. Controlla Mangiaboschi, controlla…»
  Non posso dargli torto.
Mi volto, do un’ultima occhiata all’orologio e mi assicuro che le borse della bici siano ben chiuse.
  Certo.
  E se spostando la bici avessi tolto per sbaglio, in una qualche maniera oscura al genere umano ma non impossibile, la catena, o peggio ancora, le catene?
  Mi chino sulla bici, la rabbia dello stress che comincia a montare e ripeto di nuovo tutti i controlli. Ad un occhio esterno devo sembrare un ladro.
  «Ehm…»
Bicicletta del cazzo.
  «Ehm…»
Un’ora per parcheggiare, peggio che in macchina.
  «Ehm».
Mi volto. Due uomini mi stanno osservando, riflettendo saranno dieci minuti buoni che mi guardano ma io, impegnato come sono, non gli ho dato mica troppa importanza. Uno è alto e lungo: il collo è lungo, il busto è lungo, le braccia sono lunghe e le gambe sono lunghe. Ha un naso aquilino da cui spuntano prodigiosi peli grigi e due occhi famelici, da iena. L’altro è tozzo e grasso,  ricci capelli unti gli contornano il cranio e lentiggini rosse sono sparse su tutto il viso.
  «Salve», dico.
  «Salve», ghigna il lungo.
  «Cosa sta facendo?», mi domanda l’altro.
  «Controllo che la bici sia ben chiusa.»
  «Ed è chiusa?»
  «Credo di sì…»
Oh oh.
Mi fissano.
Faccio finta di niente, anche se un’altra occhiata alla catena vorrei proprio darla.
  «E voi?», dico per allentare la tensione.
  «Controlliamo anche noi.»
  «È chiusa», confermo.
  «Sa», dice il lungo, «di biciclette ne rubano parecchie ultimamente.»
  «Già».
  «Soprattutto quelle con la catena.», fa l’altro tutto saputello.
Sì, sono guardie. «Siete guardie?», meglio accertarsene.
  «Poliziotti».
Ecco, lo sapevo, pensano di avermi colto in fragrante, con le mani nel sacco, in padella; credono, mannaggia, che io sia un famigerato Ladro di Biciclette.
  Il problema, Amici & Amiche (ma sono sicuro già lo sappiate), è che quando la polizia ti ferma sembri sempre colpevole. La sudorazione aumenta, il viso si colora di rosso e la voce comincia a tremare.
  «Ah… no, aspettate un attimo, deve esserci un malinteso. Cioè, la bicicletta è mia eh…», provo a sorridere.
  Sembro un criminale. Come se avessi un etto di fumo in tasca.
  «Noi non ne siamo convinti.»
  «Ho con me le chiavi della catena».
Maledetta catena.
  «Benissimo…»
  «Pensate, l’ho parcheggiata qui proprio per stare tranquillo…»
Il cuore tamburella contro il petto.
L’ascella sinistra già suda.
Rido e faccio la faccia dolce. «Nello zaino», balbetto.
  Apro lo zaino, cerco ovunque, frugo nelle tasche. Cazzo le chiavi.
  «E allora?»
  «Giuro. È mia. Non ruberei mai una bicicletta davanti alla centrale della polizia. Non avrebbe… senso».
  «Lo avrebbe eccome, nessuno sospetterebbe mai di un ladro che ruba davanti alla centrale di polizia, o sbaglio?»
  «Sbaglia…»
  «È quel che lei sta facendo, ci segua.»
  «Devo andare al cinema…»
  «Ci segua».
  «“X-Men” sta per cominciare. Io non entro mai a film iniziato».
I due uomini mi scortano dentro la caserma. In dieci mi guardano appena varcata la soglia. La paura mi aggredisce balorda. Vengo condotto in una piccola stanza spoglia. La stanza ha tre sedie e un tavolo. Puzza di fumo. «Si accomodi», mi ordina il grasso.
  «Devo aver dimenticato le chiavi a casa, non sono chi credete che io sia, cioè, per farla breve, lo sospetto ecco, insomma, un ladro…»
  «E lei pensa di farla franca? I giovani, ne sanno una più del diavolo. Adorate rubare biciclette, specialmente quelle legate, pensate di poterla scampare, ogni volta. Ma non oggi. Non. Oggi.»
  «Non avete rispetto per niente e per nessuno, non avete rispetto per la divisa.»
No, infatti. «Sì, io ne ho».
  «Lei? Crede di essere spiritoso. Agnellini nella vita leoni ai cortei… a lanciar sassi e molotov contro gli agenti alla prima occasione. Ma oggi no. Lei oggi è solo. I suoi compagni l’hanno abbandonata. È nelle nostre mani».
Ecco, ufficialmente me la sto facendo sotto, e scusate il francesismo.
  La prima volta che mi hanno picchiato le guardie è stata al G8 di Genova, mica per colpa mia, macché, ero andato al bagno io e quando sono tornato in strada dodici poliziotti hanno alzato i manganelli. Poi ci hanno riprovato ad un rave, ma sono riuscito a scappare nel bosco (dove però sono caduto in un cespuglio di ortiche). Un’altra volta ad un corteo qui a Roma, un’altra ancora quasi per caso, quando sono finito a sbattere contro la volante. Insomma, non mi danno proprio sicurezza gli sbirri.
  «Ladro».
Io ho sempre creduto nella spesa proletaria. Come no, anni fa nei supermercati rubavo di tutto, dalla pasta ai videogiochi fino a che non mi hanno beccato pure là -in questo caso una guardia privata che però poi ha chiamato le guardie vere-. Ho smesso e non ho rubato più niente (tranne i pacchetti di caramelle). Oggi sono pulito al cento per cento. Mastro Lindo me l’ha insegnato.
  «Troppi controlli!», mi dice il Criceto.
Zitto, stai zitto. È tutta colpa tua.
  «Allora? Come si chiama?», domanda il poliziotto indicandomi.
  «Elia. Elia Mangiaboschi. Ma vi giuro c’è un grosso errore. La bicicletta è mia. Non ruberei mai una bicicletta».
  «Documenti».
  «Ho la patente».
  «Mangiaboschi. Lei sa cos’è la giustizia, non è vero? E saprà di certo chi amministra la giustizia. Noi siamo la mano, i servi dello Stato. L’ordine è la nostra casa, la nostra filosofia. Di certo, e ne sono certo, lei non sa neanche cos’è l’ordine. Sono sicuro sia il caos a popolare la sua vita. Caos nella casa in cui vive, caos nel lavoro, se lavora, caos nei rapporti amorosi. Lei è il caos, signor Mangiaboschi, e noi siamo l’ordine.»
Annuisco, effettivamente casa mia è un bel casino.
  «L’ordine e il caos non possono convivere, uno deve distruggere l’altro. Ma vede, un mondo popolato dal caos sarebbe un mondo senza leggi, una realtà impossibile, l’anarchia. E noi non vogliamo l’anarchia, non è vero?»
  «No». Dio se sto sudando.
  «Il caos è un cancro. O forse è il cancro. Ma purtroppo voi giovani avete scordato cos’è il rispetto, avete dimenticato l’essenza stessa dell’ordine. L’ordine ha bisogno di leggi per esistere. Ed eccola qui la legge, proprio davanti a lei signor Mangiaboschi. Per questo la odiamo. L’odio è l’unica arma che abbiamo. Vi detestiamo, vi disprezziamo, vi disapproviamo. Lei disapprova i nostri metodi?»
  «No, non credo… io vorrei andare al cinema…»
  «Lei ci detesta invece, solo che non ha il coraggio di dirlo. E sa perché? Perché noi abbiamo il coltello dalla parte del manico. Al nostro posto, se fosse il caos a regnare, il suo atteggiamento sarebbe identico al nostro. Ma purtroppo per lei è l’ordine a far da padrone. Ora lei balbetta, bofonchia, suda. Quindi è colpevole. Colpevole di aver rubato, o meglio, di aver provato a rubare.»
  «La bicicletta è mia».
  «La smetta Mangiaboschi, la prego, non si renda ancora più ridicolo. Abbia almeno un po’ di dignità, di amor proprio. Ogni volta che vi vedo vi disprezzo. Il vostro modo di vestire, i capelli che avete, gli orecchini…»
  «Non ho orecchini…»
  «Non faccia lo spiritoso con me. Signor Mangiaboschi, lei appartiene a quella categoria di giovani che noi non tolleriamo. Siete il male della società. Un virus. Vi sparpagliate ai cortei come macchie d’olio, urlate contro tutti e tutto, rubate le biciclette, sgraffignate cibi nei supermercati, scrivete di tutto su internet, occupate le case, vi vestite da barboni. Ma noi lo sappiamo chi siete, lo sappiamo benissimo. I vostri genitori vi hanno pagato le migliori università, i vostri vestiti sono di marca, passate ore e ore in palestra a fare yoga, leggete i libri al mare mentre gli altri lavorano, vi credete superiori a noi. Ma noi abbiamo questo», il poliziotto indica il manganello appeso al muro. «E voi non avete un cazzo.»
  Qui qualcosa si sblocca e la paura fugge via. Non ho mai avuto vestiti di marca e ho lavorato fin da ragazzo, i miei abitano a Magliana e la bicicletta me la sono comprata con il mio stipendio. Faccio un lavoro di merda (diciamolo) e non arrivo a fine mese. E adesso ‘sto stronzo con la parlantina bella mi deve fare la ramanzina per un furto che non ho mai commesso? Cazzo, la bici è mia.
  «Cosa fa Mangiaboschi?»
  «Me ne vado».
  «Lei è un ladro.»
La mente si chiude, il criceto torna a dormire. Per un attimo ogni cosa si annulla e il cervello va in pappa, lasciandosi travolgere dal caos. È il caos a guidarmi a ritroso nel tempo, a farmi tornare/pedalare indietro lungo la pista ciclabile, a farmi caricare la bici e a mostrarmi dove ho messo le chiavi.
  «Nella tasca nascosta dello zaino!», urlo. «Le ho messe lì per sicurezza, per non perderle!»
Mi volto, gli sbirri bofonchiano qualcosa.
Apro lo zaino, la tasca nascosta è sotto a tutto, cucita da un’amica ingegnosa per contenuti poco raccomandabili. La apro. Le chiavi squillano, il pollice e l’indice stringono il metallo.
  «Eccole!», le passo sotto il naso del lungo. «Usciamo, vi dimostrerò che la bicicletta è mia.»
Senza aspettare risposta sono fuori, seguito dai due aguzzini. Un colpo deciso e la prima catena è aperta, un altro e anche la seconda è andata.
  I due mi guardano visibilmente dispiaciuti, starnutiscono qualcosa di incomprensibile e fanno per girarsi. Ma io no, voglio almeno salutarli; così, preso da nuovo coraggio e voglia di rivalsa, do una pacca sulla spalla al più grasso. «Ottimo lavoro ragazzi!», quasi strillo, «la giustizia, anche questa volta, ha trionfato!»