Ogni sera alle nove e trentaquattro (puntuali) Lola esce di casa. Cammina
furtiva, guarda a destra e a sinistra e poi procede, picchiettando sui tacchi a
spillo 15 cm.
Io la spio, alle nove e trenta mi affaccio alla finestra del mio
appartamento e aspetto. Guardo l’orologio e mi accendo una sigaretta.
Tick
Tack
Alle nove e trentaquattro Lola esce dal
grande portone del palazzo. La osservo in silenzio, lo sguardo fino. Mi piace
vederla sgattaiolare via tra le strade scure di Trigoria, ridente quartiere
dormitorio dell’estrema periferia romana. Poi rientro, sorrido e stappo una
birra.
Il giorno dopo busso a Lola. «Non è che avresti un po’ di zucchero?», le
chiedo, «Sto provando a fare un dolce, il mio coinquilino passa un periodaccio…
casomai lo tiro su… casomai.»
«So io cosa ci vorrebbe a Simone. Una pistola», mi risponde sorridendo.
Lola è molto gentile, del vicinato è una delle migliori. Riservata, per
nulla molesta, disponibile e altruista. A noi ci passa sempre tutto, dal sale
al caffè. È un po’ il nostro alimentari personale. A lei fa piacere, a noi fa
comodo. Simone ed io non abbiamo grandi rapporti con gli abitanti del palazzo,
però con Lola è diverso, ogni tanto ci invita pure a guardare un film d’azione
a casa sua, alle volte la invitiamo noi. Una notte siamo andati a ballare tutti
e tre insieme, ma i locali che frequenta la nostra vicina non ci fanno
impazzire, con tutte quelle luci e le zeppe e la gente che danza sui tavoli
mezza nuda.
Lola mi chiede sempre il tabacco, ha le unghie molto lunghe e le piace
sentire la cartina che si drizza tra le dita; sorride mentre rolla la sigaretta
e fa di tutto per mostrare il nuovo smalto e la combinazione di colori e
puntini e cuoricini disegnati.
Tutte le sere, ogni sera, alle nove e trentaquattro esce di casa, il
cappotto rosso lungo che le arriva alle ginocchia e le calze a rete, scure.
«Dove andrà?», chiedo a Simone.
«E dove vuoi che vada?», ammicca.
Lola lavora in un bar al centro, vicino
al Colosseo. Trovare lavoro è stato difficile e nessuno voleva prenderla,
eppure, a detta di molti, come fa il caffè Lola non lo fa nessuno. Adesso sta
al bancone e serve tramezzini cornetti brioche cioccolatini. I suoi clienti
sono molto esigenti e anche il suo datore di lavoro, lui è esigentissimo. D’altra
parte Lola sa cos’è la fame e la paura, quindi accetta il ricatto senza fare
storie (per inciso, il ricatto è: «Tre euro l’ora per nove ore al giorno, in
nero, poi forse ti assumo»).
«Perché ci stai?», le ho chiesto un giorno.
«Ho ancora tempo prima che scada il permesso di soggiorno, casomai il
padrone mi prende, sai che casino se me lo tolgono, il permesso eh, non il
padrone. No no, meglio stare buona, vedrai che ce la faccio. Poi sì che lo
mando ‘affanculo…»
Come Lola dice «‘Affanculo» mi fa impazzire, con il suo perfetto accento
romano/brasiliano. Quel che mi piace di meno è quando chiama il suo capo “Padrone”,
non lo tollero. D’altra parte Lola ha vissuto in clandestinità per molto molto
tempo, è straniera ed è arrivata qui con un permesso per turismo. Poi quando è
scaduto è rimasta in Italia.
«Perché in Italia?», le chiedo.
«C’è il lavoro e gli italiani sono bravi a letto», mi risponde per nulla
ironica.
Senza permesso di soggiorno si è fatta
sfruttare a dovere, dai vecchi stronzi bavosi che avevano bisogno di una
badante sottopagata e dai magnaccia della strada che avevano bisogno di una
prostituta nel localino di striptease. Il lavoro al bar quindi è la migliore
cosa che le sia capitata da quando è venuta qui.
Lola ogni tanto viene a giocare alla Play con noi, è la più brava tra i
tre e ci lascia sempre a zero. Alle volte porta del fumo e le serate acquistano
una certa magia (Lola ha sempre un fumo che è una roba pazzesca).
I tacchi di Lola tintinnano nella notte.
Alcuni nel palazzo la guardano male,
forse perché è brasiliana, forse a causa dei suoi vestiti vistosi. Anda la
portinaia però ci parla tranquillamente, insieme sembrano le comari del paese,
tutto il tempo a sfottere Gino Pino e Pilotino. Il Vecchio (il bastardo che
tutti i mesi riscuote l’affitto a noi poveri cristi) non la tollera. Ogni tanto
lo vedo, accucciato nell’androne del palazzo, assieme ad un altro paio di
uomini, a sparlare della poveretta. Sparlano e le guardano il culo.
Lei, il culo, lo tira su, consapevole degli sguardi; lo fa in segno di
sfida.
«Non sei curioso di sapere dove va?», dico a Simone.
«Elia ascoltami perché te lo dirò solo una volta. No, non me ne frega
niente. C’ho i cazzi miei in questo periodo e non mi va, non mi va, di gettarmi a capofitto in un’altra delle tue indagini».
Le mie indagini.
A me, effettivamente, è sempre piaciuto
indagare. Quando ero piccolo adoravo le indagini, indagavo su tutto e, per un
breve periodo, avevo deciso di mollare la futura carriera operaia e di
intraprendere quella di investigatore privato. Non conoscevo ancora Tony Ponzi,
noto indagatore romano, e per me i detective erano tutti come Dylan Dog.
«Voglio essere un investigatore comunista! Un investigatore comunista
dell’incubo!», urlavo felice nelle orecchie di mio papà. Poi a scuola, il
giorno dopo, a ricreazione, assieme alla mia banda, spiavamo le femmine, oscure
nemiche detentrici di un segreto grande e ignoto. Ci accostavamo sotto ai
cespugli e, armati di binocoli giocattolo, scrutavamo i loro movimenti. Io
stavo in fissa con le attrezzature da detective. Tutti quegli aggeggi che
andavano di moda negli anni ottanta, venduti su commissione, quelli
pubblicizzati sulle riviste. Gli occhiali a infrarossi, le molle invisibili, il
rilevatore di metalli, l’aggeggio per spiare le conversazioni anche a centro
metri di distanza, la macchinetta fotografica nascosta in una penna. Volevo
tutto, ogni cosa. Ci eravamo dati anche i nomi, i miei amichetti ed io, nomi in
codice che né le maestre né le femmine avrebbero mai potuto scoprire. Io ero
“00”, come la farina, poi c’era “01”, “02” e così via. Inoltre, visto che
eravamo veri investigatori, avevamo preparato dei tesserini speciali di
riconoscimento, fatti su cartoncino nero e scritti con il limone con un
alfabeto da noi inventato.
«Sicuro sicuro? La potremmo seguire. Senza farci scoprire. Sono bravo a
pedinare io».
Ma niente, Simone è irremovibile. Me
l’hanno distrutto ‘sto ragazzo, da quando è rimasto senza impiego non sembra
più lui. E sì che teorizzava il diritto al non lavoro.
«Teorizzavi il diritto al non lavoro!», gli dico.
«Ma non la disoccupazione cazzo.»
Ecco, all’inizio mi viene da mandarlo a
quel paese, poi però di preparargli qualcosina che lo tiri su.
L’indecisione è tra:
- Una
torta al cioccolato
- Un
purino d’erba
- Un
cocktail
-Tre
camomille
- Un
cicchetto d’amaro.
Opto per la torta al cioccolato.
«Cazzo lo zucchero».
Lola ci serve sempre.
Quando torno dal lavoro, stanco al punto giusto, Simone è lì, fermo sul
divano. Non si muove e le pupille sembrano cascargli a terra.
«Ehi…», sussurro.
«Simone», ripeto.
«Aho! Simo’!»
Ma niente, non si alza.
Oddio oddio oddio! Me l’hanno ammazzato!
Il mio migliore amico si è tolto la vita a causa di questo sistema degenerato!
Un’altra vittima del lavoro!
Corro su di lui, «Amico mio!», urlo scuotendolo.
Già immagino il grande corteo di
protesta organizzato dai movimenti romani in onore di Simone. In fila, davanti
a tutti, Elia Mangiaboschi, la bandiera rossa in mano, il megafono nell’altra.
«Compagni! Che il sacrificio di Simone ci serva da esempio! Sarà l’ultimo a
morire! Disoccupati di tutto il mondo unitevi!», e le folle urlanti dietro. Ah! La morte del mio amico fungerà da
faro! La rivoluzione è vicina!
«Oh».
«Ma sei vivo?»
«Eh. Dormivo. E staccati un po’».
«Peccato», dico, «se fossi morto saresti potuto diventare un simbolo.
Questo mondo ha bisogno di simboli, la nostra generazione ha bisogno di
simboli. Sacrificati.»
«Shhh».
«Che è?»
«Lo senti?»
«Cosa, il profumo della rivolta?»
«No».
«L’odore del sangue?»
«No»
«Il sudore dei compagni?»
«Il tacco di Lola».
Ci affacciamo entrambi alla finestra. È
più presto del solito, dove va? La seguiamo con lo sguardo, la vediamo superare
i tre maschi che le fischiano dietro, le due donne che tirano su con il naso e
i bambini che sorridono. La guardiamo aprire il portone, la gonna corta ben
sopra le ginocchia, il lungo impermeabile rosso che le colora il corpo.
I capelli di Lola, di un castano indefinito, si intrecciano con il vento
in un caotico groviglio di foglie e fibre.
«Dove va?»
«Dovremmo seguirla».
«Tu sei pazzo, non è sicuro».
«Ma cosa dici?»
«C’ha giri loschi quella».
«Oh, ci passa sempre il sale, che giri loschi e giri loschi».
«Ormai è andata, accendi la Play dai e prepara qualcosa, ho una fame da
lupi».
-Dire che mi sento sfruttato è dir
poco-.
Il giorno dopo decido di seguirla.
Al lavoro rimango in silenzio tutto il
tempo (non che abbia tanto da dire) e nella mia testa pianifico il Malefico Piano
dell’Investigatore Privato.
Mentre bevo il caffè davanti alla macchinetta non ascolto quel che dice
l’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante, nonostante, a quanto pare, mi stia dando un’informazione
vitale per la buona riuscita dell’ultimo contratto stipulato con la casa
tedesca.
In pausa pranzo non ascolto le chiacchiere dei miei colleghi, troppo
concentrato sul pedinamento.
Le regole del pedinamento:
1) Vedere
e ascoltare ove se ne presenti l’occasione 2) Guardare dove si dirige il soggetto pedinato
3) Annotare le caratteristiche degli individui incontrati dal suddetto
4) Appuntare atteggiamenti anomali.
Lo sguardo si inarca, le tempie si
stringono, la forza di mille detective converge sulla nuca.
«Mr. M».
«Uh?», mi domanda l’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante.
«Niente niente, scusa, continua a far quello che stavi facendo. Cioè
insomma, a lavorare ecco».
«Mr. M».
«Eh, lo dicevo io. Ancora non eri arrivato…»
«Concentrati Mr. M, concentrati. Non ti far scoprire dal primo che
capita. Ricordi le tre regole del buon indagatore? ‘Onore, Rispetto,
Segretezza’!», dice Ganesh, il mio amico dio testa d’elefante.
«Top Secret!», annuisco, gli occhi a cuoricino.
Fuori dal lavoro sgattaiolo in
bicicletta, correndo a più non posso. Mi guardo intorno, Ganesh sulle spalle.
«Dici che ci stanno seguendo?», chiedo.
«Chi?»
«Gli Altri…»
Mi sento osservato, accelero la
pedalata.
Ecco Trigoria, corro sulla pista ciclabile e supero villini e ospedali.
Il cielo si oscura.
Apro il portone.
«Anda buongiorno».
«Elia, buongiorno a te».
Mi guarda.
«Ti sta guardando!», dice Ganesh.
«E insomma, che si dice?», domando, cercando di simulare una finta
tranquillità.
Regola 48 del vero investigatore: star sempre sul chi va là.
Regola 49: non fidarsi di nessuno.
Detto popolare: Fidarsi è bene non fidarsi è meglio.
Anda mi studia, ha uno sguardo strano;
nonostante le mie doti medianiche non riesco a capire la sua espressione, che
sappia del mio futuro pedinamento?
«Il solito giro Elia. È passato
l’amministratore. Ah, la famiglia, quella nuova, quella da poco trasferita, hai
presente no? Dice che ha perso la tovaglia della cucina, tu non ne sai niente?»
«No, io no».
«E il tuo amico?»
«Neanche».
«Non lo vedo più».
«Non esce mai di casa».
«Com’è?»
Le portinaie, sono le migliori investigatrici,
sempre e comunque.
«Il lavoro.»
«Capisco, ah. È passata Lola prima, che strana ragazza…»
Abbasso lo sguardo e mi defilo con un
rapido ciao.
Infilo il vecchio eskimo (la cosa più vicina che ho ad un impermeabile
grigio), il cappellaccio di feltro e sono pronto.
«Le scarpe», mi dice Simone.
«Ops».
«Tu stai fuori».
«Shhh, stupido.»
«E gli occhiali da sole, cosa ci fai con gli occhiali da sole? È notte,
non vedrai niente».
«Non trovi che sia abbastanza camuffato così?»
«Elia, ti prego. Cresci.»
Mi tolgo gli occhiali, guardo l’ora. Le
nove e trentaquattro. Mi affaccio alla finestra. Ecco Lola.
Esco da casa e la seguo. Cammina sicura, per nulla turbata, uno strano
sorriso le si increspa sulla bocca. Mi acquatto dietro le colonne piene di
scritte e scarabocchi, poi sotto ad una macchina. Un vecchio mi osserva
spaventato, una signora corre in casa.
Non faccio caso a loro.
Devo sapere dove va Lola.
In
che guaio si sarà cacciata?
Cosa
la costringono a fare?
«Solo tu puoi salvarla Elia, nessun altro. La sottrarrai dalle grinfie
dell’uomo e porterai, come il cavaliere oscuro, dignità nella sua vita. Vai
adesso!», mi sprona Ganesh.
Lola tamburella sulle zeppe sculettando a più non posso, il vestito
corto ben stretto sul corpo forte, grande. Il petto formoso le balla qua e là e
il décolleté le evidenzia le forme. Un uomo fischia al suo passaggio, lei alza
il dito medio su e giù, lo sguardo cattivo, truccato, esperto.
Il cuore pulsa mentre il buio ci avvolge. I lampioni scompaiono e la
strada si fa sempre più nera.
Un cane ulula in lontananza.
Sono dietro di lei, a pochi metri. Lola
si volta, guarda la via, una cartaccia sporca di piscio vola lenta.
Solo il ticchettio a tenerci compagnia.
I palazzi sembrano osservarci, mille occhi
famelici pronti a divorarci. Dalla finestra più in alto un uomo urla due
parolacce.
Lola non si ferma, le labbra pitturate di rossetto rosso sangue, la
matita nera a contornare gli occhi scivolosi, grandi, scuri.
Le tenebre ci avvolgono.
Nel nero cammino impacciato, cercando di
non farmi scoprire. Un topo mi passa davanti improvviso, è grande quasi quanto
un gatto e per un attimo i nostri sguardi si incrociano, ancora poco e ci
divoreranno tutti.
Ora siamo fermi, Lola alza di poco la gonna. Un pelo prepotente spunta
dalla calza trasparente.
Mi aggomitolo su me stesso ascoltando il respiro.
L’aria.
L’aria si è fatta pesante e densa, potrei tagliarla se solo avessi un
coltello.
Di nuovo Lola cammina, adesso più veloce, come se si fosse resa conto di
qualcosa. Superiamo due vie e ci inabissiamo in una strada buia, sudicia, dal
lontano sapore di legno marcio. Un uomo è accartocciato a terra, guarda prima
Lola e poi guarda me subito dietro. Sorride un attimo mostrandomi l’unico dente
supersite, un dente d’oro bucato al centro. Afferra il cartone di vino bianco e
beve un lungo sorso. Rutta cercando di alzarsi.
Siamo fuori dalla via e ne prendiamo subito altre, un cunicolo di
stradine, un labirinto tortuoso e impossibile.
Odore di muffa.
Credo di aver commesso un errore.
Dovevo restare a casa, aveva ragione
Simone.
Lola si blocca, cerca qualcosa nella borsetta in finta pelle di pitone
ed estrae un pacchetto mezzo bruciacchiato di sigarette, quelle fine e lunghe.
Ne mette in bocca una e riprende a camminare.
Fuoco.
Le saracinesche dei negozi sono tutte
abbassate e dalle case non proviene una luce, solo la luna ad illuminare i
nostri passi.
Mi lascio suggestionare e la paura prende il sopravvento.
Lola si ferma davanti ad una porta rossa,
una piccola porticina in legno e ferro battuto, sopra c’è un’insegna al neon
fulminata ma non riesco a leggere cosa ci sia scritto.
Tre colpi, le nocche a sbattere contro il legno; poi un altro e infine
altri due più decisi.
Un codice.
Screeek
La porta si apre e ne esce un omino
piccolo, basso, alto quasi quanto un nano. Al collo ha un cravattino rosso di
quelli che si usano nelle recite scolastiche e lunghi baffi dal sapore
surrealista gli contornano la piccola bocca a spirale. «Prego», gracchia inchinandosi.
Entra.
E adesso?
Torno indietro?
Esco dal mio nascondiglio e mi faccio coraggio. Devo sapere.
Un passo dietro l’altro.
Tock tock
Nessuno risponde.
Aspetto.
Il cuore esplode in mille piccoli frammenti rossi.
Alzo lo sguardo a cercare le lettere
dell’insegna. Riesco a decifrare solo una “K” sbiadita
Il codice.
Tock tock tock
Tock
Tock tock
La porta scricchiola.
Il nano sorride. «Prego».
«Grazie», dico il più sicuro possibile.
Varco la soglia, risucchiato dalle fauci
del mostro.
Lunghe scale mi attendono.
L’omino aspetta all’ingresso, mi guarda
solo un attimo, poi sorride.
Scendo piano, illuminato dalle candele, i passi incerti e insicuri.
Attorno le pareti sono nere e dal sapore impenetrabile; giù, dall’oscurità più
scura, delle risate si odono rumorose.
Mi appoggio alla ringhiera e scosto una grande tenda rossa.
Ci sono.
È un bar. Un bar con un bancone. Davanti al bancone ci sono dodici
persone, alcune anziane, altre no. C’è un signore con una gamba sola e l’occhio
vispo che tracanna un cicchetto di rum, altri che si concedono una bicchierata
veloce, il vino scadente e la lingua nera. Due donnone posate sullo sgabello
vestite in abiti da sera e truccate fino all’inverosimile, le gambe accavallate
in una posa grottesca e le braccia incrociate, come fossero pronte a
scioperare. Una zingara seduta in disparte che legge i tarocchi ad una ragazza
dall’aspetto insicuro, con grandi occhiali inforcati poco sopra il nasino alla
francese. Due vecchi, uno bianco e un altro nero, vestiti allo stesso modo
(cappello verde, camicia verde e pantaloni verdi) che discutono animatamente di
corse di cavalli, la sigaretta spenta tra l’indice e il medio. Il barista, un
uomo grande e grosso con una lunga stempiatura riparata alla meno peggio, il gilet
e la camicia a coprirgli il corpo pieno zeppo di peli degno del miglior lupo
mannaro hollywoodiano, che versa amari e serve liquori ridendo a più non posso.
Una ragazza sola poco più che diciottenne con grandi tette e un culo
piccolissimo che indossa una sciarpa di yak ricavata in un oscuro scantinato di
una bettola tibetana. Una donna sui cinquant’anni con il rossetto sbafato e il
trucco sfatto, reduce dall’ultimo banchetto di psicofarmaci. Un signore di
mezza età vestito da lord inglese e un altro in frac, basso e tracagnotto, che
si scambiano pacche sulle spalle e si abbracciano come farebbero due vecchi
amici.
Dov’è Lola?
Mi siedo ad un tavolo ed una donna di
una certa età agghindata da gattina si avvicina. «Cosa vuoi giovanotto?»
«Io… sono qui…»
«Da bere dico, prendi qualcosa?»
«Sì, una chiara. Doppio malto, cioè… se c’è».
«Tra poco cominciamo, è la prima volta che vieni?»
«Già…»
«Non essere timido allora», sorride allontanandosi.
Rimango in silenzio. Dov’è finita la mia
vicina?
Poi compare il nano e sale sul piccolo
palco accanto al bancone. «Signori & Signore!», comincia, «Benvenuti! Siete
pronti?»
«Sì!», urlano tutti.
Le luci si abbassano, del fumo si spande
nell’aria. Tanto fumo.
E dal fumo.
Esce lei.
Uno schermo alle nostre spalle si illumina improvviso.
Mi volto.
Lola comincia a cantare. Ticchetta con la punta del piede seguendo il
ritmo e la voce si ingrossa in un attimo. È un susseguirsi improvviso di alti e
bassi, bassi e alti. È un’armonica la sua voce e scorta le onde del suono in un
crescendo incredibile che esplode in un acuto spaccavetri. In men che non si
dica tutti ballano, alzandosi e abbassandosi dalle sedie. L’uomo in frac si
scaglia in una danza concentrica, quasi un tip tap ribelle. I bicchieri si
alzano e tutti seguono ipnotizzati le parole di Lola. È come se la sua voce
avesse dato il via ad un qualcosa di indefinito, energetico, delirante; non
sembravano aspettare altro. L’uomo in frac è adesso sul bancone e il suono che
proviene dai suoi tacchi manda tutti in visibilio, poi Lola passa il microfono
alla cinquantenne con il trucco sfatto che urla un urlo immenso e quasi
animale. I vecchi applaudono e ridono indicando le donne, seguono il ritmo
mentre dallo schermo le parole continuano a sgorgare magnetiche. Tutti cantano
e gridano. La donna lancia il microfono alla vecchia zingara che lo afferra al
volo e si alza il lungo gonnone fino alle caviglie, poi sale sul tavolo e con
una pedata poderosa getta via i tarocchi che finiscono sul viso della ragazza
con gli occhiali. Sono in due a cantare adesso, la zingara e la giovane e le
loro voci sono così stonate da far scoppiare il cuore. Ma non si fermano, non
importa della figura che faranno. Il nano indica le persone e il microfono
viene lanciato ovunque. È il turno della diciottenne che inforca il microfono e
ci va giù pesante con un gorgheggio non indifferente. Lo schermo scaraventa
parole, seguite dai più con devozione quasi religiosa.
“Il cobra non è
un serpente
ma un pensiero
frequente che diventa indecente
quando vedo te,
quando vedo te, quando vedo te.
Il cobra non è
una biscia
ma un vapore che
striscia con la traccia che lascia
dove passi tu,
dove passi tu, dove passi tu…”
«Ehi ragazzo, la tua birra», mi dice la cameriera.
Faccio un sorso, poi Lola mi vede. «E tu
cosa ci fai qui?», mi chiede.
«Io… sì insomma».
E adesso che dico?
«Menti Elia!», mi suggerisce Ganesh.
«Ti ho seguita».
«Cosa?»
«Sì ecco, ero preoccupato per te. Ti vedevo uscire tutte le sere e…»
«E…?»
«E non volevo ti succedesse niente di male. Cioè, dovevo capire dove
andavi. Ne ho parlato anche con Simone ma lui…»
«Elia, ascoltami. Non è che se sono una trans devo essere per forza
anche puttana. Cazzo, tutti con ‘st’idea…»
«Scusa… oh, d’altra parte il luogo comune è sempre in agguato».
«E poi non potevi chiedermelo?»
Cristo che imbarazzo. «Eh… infatti».
Stupido. «Ma poi», domando, «che posto è questo?»
«Non l’hai ancora capito? Un karaoke, hai presente? Si canta, si
beve.... vabbè insomma, ti fai due risate tra amici no?»
«Ma… mica è un karaoke qualunque…»
«E infatti. Questo è il miglior karaoke di Roma. L’hai fatta la
tessera?»
«Dopo, la faccio dopo eh…»
È un caos: vecchi, donne, nani e uomini
in giacca e cravatta urlano a più non posso, lasciandosi dietro ogni cosa. Bevono
dallo stesso bicchiere, si scolano gli stessi alcolici, ridono delle stesse
parole. Non hanno pensieri, sono momentaneamente liberi. Le brutte cose le
lasciano a casa. Il lavoro, il non lavoro, il precariato, la sfortuna, la
paura, la disoccupazione, la famiglia, i tradimenti, il domani. Qui non conta
più niente. Bisogna solo seguire le parole del monitor. Ed è una bella cosa.
Lola mi offre tre grappe, una di seguito all’altra. Mi piace questa bolgia, un
concentrato di umanità varia, un luogo notturno di sfigati. Proprio come me. Mi
lancio anche io, il microfono in mano, l’alcol che mi annebbia il cervello e la
voce più potente del mondo.
Ecco dove devo portare Simone.
“Io penso che il divertimento sia una cosa seria”.
Italo Calvino