E così Simone alla fine un lavoro l’ha trovato.
Dopo aver inviato decine, ma che dico!,
centinaia di curriculum ce l’ha fatta.
Ebbene sì, Amici & Amiche, il buon coinquilino è entrato finalmente
nella schiera di giovani occupati che -quasi- affollano il nostro Paese.
Arrivo a casa e lo trovo che saltella.
Piroette concentriche che farebbero invidia ad una ballerina di danza classica,
vortici celestiali e battito di mani.
Mi guarda e sorride. «Lavoro», mi fa.
E il mondo si scioglie.
«Da domani potrò tornare a fare la bella vita! Cena fuori tutte le sere!
Cinema ogni mercoledì! Bevute con gli amici!»
Ahhh, il denaro, che cosa strana. Uno lo
disprezza tanto però poi quando non ce l’hai eccome se ne senti la mancanza…
Simone
lavora in un centro diurno per disabili, presso una piccola cooperativa con un
simpatico presidente e una simpatica tesoriera. Indossano, i due, magliette
sempre sportive e hanno il piglio giovane di chi conosce i mali del mondo.
Tutte le sere, ogni sera, il coinquilino riprende a narrarmi i racconti
dei pazzi, come ai vecchi tempi. Io, dal canto mio, ne sono ben felice, ché si
sa, noi che scriviamo c’abbiamo sempre l’orecchio da pettegolo ruba storie. È
un’avventura la sua, una passione, una gioia.
Se fosse cristiano mi verrebbe da pensare che in fondo ce l’ha nel
sangue, la roba di aiutare il prossimo dico. Gli piace, al ragazzo, stare accanto
ai matti. Adora il caos vero e puro, senza regola, in barba a qualunque super
Io, spostato poco più in là dell’ordinaria percezione.
Così li porta in giro, ‘sti sciroccati, gli prepara la colazione e gli
fa fare i laboratori creativi, compreso quello di cucina, con tutte le mani
sudice e sporche di caccole. Mi dice che in strada, tra le persone e le
automobili, Sandro urla. Non lo fa per cattiveria, solo che adora gridare
quando c’è tanta gente, un po’ come Federico che ha paura dei cani e ti strappa
la mano tanto stringe. Quando Sandro urla, continua Simone, le persone scappano
via terrorizzate. «Ma Sandro, ripeto, mica è cattivo».
«Tipo in autobus, è ‘na figata. Ci mettiamo seduti in fondo e Sandro
comincia a gridare a più non posso, che si squarcia le corde vocali; le vecchie
tutte abbassano lo sguardo, convinte che da un momento all’altro l’omaccione
faccia uno scatto in avanti. Ma nessuno ci guarda. Così ci ritroviamo soli,
mezzo autobus tutto per noi».
Il mondo è diviso in due. I pazzi hanno sempre terrorizzato i più.
«Figlio del demonio«», urlava l’esorcista davanti al ragazzo legato al
letto, nella campagna toscana di fine ottocento.
I manicomi erano pieni di gente. Psicopatici, autistici, schizofrenici,
artisti allo sbaraglio. Le pareti degli ospedali erano piene di sangue e merda
e le brandine dove dormivano i folli semplici reti senza materasso. Nei
pavimenti troneggiavano gli scarafaggi, decine di scarafaggi felici del facile
banchetto.
I pazzi venivano picchiati, rinchiusi nelle gabbie o negli armadi,
incatenati e frustati, sottoposti a salassi, legati (nudi) ai muri. Così si
“guariva l’anima”.
«Ci divertivamo», mi fa Benjamin Rush, padre della psichiatria
americana, «per dire, io ho inventato la Sedia Tranquillante, mica una cosa da
poco eh, macché, immobilizzi la vittima e la tieni in uno stato di disagio e di
dolore. È una roba scientifica, come no, rallenti la frequenza cardiaca e
diminuisci il flusso sanguigno al cervello. È necessario, cioè, il dolore, è
necessario.»
Ci si divertiva parecchio con gli schizzati.
«Tantissimo. Pure con le donne, pensa al compressore ovarico, comprimi
la zona ovarica per calmare le femmine isteriche. Io non le sopportavo le
donne, mai tollerate», dice Jean-Martin Charcot.
Che mondo i manicomi! Uomini chiusi in una vasca piena d’acqua! Produzione
incontrollata di vesciche alle caviglie per far allontanare il sangue dalla
“testa surriscaldata”! Dissanguamento dei pazienti per diminuire il flusso
“eccessivo” di sangue al cervello!
Per non parlare dell’elettroshock.
«Io ne ho subiti tantissimi!», dice Antonin Artaud sbavando, «legato e
imbavagliato, decine di scariche elettriche, qualche tacca l’hanno lasciata…»
‘Nsomma, Simone mi racconta le storie prima che faccia tardi, quando
rimaniamo a bere il bicchiere della staffa, la Play spenta e la sigaretta in
bocca. Gli brillano gli occhi, al coinquilino, ché finalmente ha trovato un
lavoro ed è proprio quel che gli piace fare. Per dire, mi racconta le
incredibili gesta di Annamaria, che si blocca in un punto, fissa, e non si
muove più. O quelle di Marco, che tira fuori il pisello e comincia a
masturbarsi, inondando la stanza di sperma fresco.
Fa tutto Simone. Pulisce i culi, aiuta gli uomini in carrozzina a
mettersi seduti sulla tazza, imbocca chi non riesce ad afferrare il cucchiaio.
Poi torna a casa e mi racconta. Io rosico un po’, ché il mio lavoro è sempre
uguale mentre il suo è pieno di mirabolanti episodi. Dopo mesi di nulla è
tornato ad essere uomo. La notte, stremato, si addormenta sul divano. Non lo
sveglio mai, lo lascio lì che russa un pochino, nel silenzio della sala, a
sognare i suoi mostri.
Di mostri al centro diurno ce ne sono. Gente con arti microscopici,
uomini deformi e donne mutanti. Persone piccole costrette sulla carrozzina,
ragazzini paralizzati dalla testa ai piedi e altri freak del genere. Come
quelli usati nei circhi di mezzo mondo, poco meno di un secolo fa. L’uomo
leone, la donna giraffa, il bambino più vecchio del mondo.
«Signore & Signori, accorrete! Il circo degli obbrobri è tornato!»,
urlava il nano ben vestito alle porte del paese, in testa alla lunga carovana
di carri e cavalli.
Quando il tendone veniva sollevato ad accogliere il pubblico c’erano i
deformi e i domatori e le zebre e i pagliacci.
«Sedetevi prego», sibilava l’uomo serpente.
I bambini si adagiavano piano sulle
vecchie sedie sgualcite e i genitori si posavano accanto, un poco timorosi.
Il buio calava nel tendone.
I clown ridevano, facendo il loro
ingresso.
L’odore di tabacco s’insinuava nell’aria e il giovane pianista suonava
la sua danza macabra, lugubre.
Ridevano in molti.
Il pezzo forte era Frank Lentini, classe
1890, siciliano doc. Frank aveva un corpo doppio,
due sederi, tre gambe, quattro piedi, sedici dita e due organi genitali.
Simone mi racconta di Alessia che ha una distrofia muscolare che la
costringe su una carrozzina. «Alessia c’ha una testa così. Cioè,
superintelligente… capito no? Quindi quando i ragazzini, soprattutto i bambini,
la guardano lei si vergogna. Poi i bimbi corrono dalla madre e la indicano e la
mamma dice, abbassando di poco la voce: ‘Non guardarla, lei è come te’. Ma col
cazzo che lo è, perché mentire? Che poi alla fine Alessia si sente ancora
peggio».
Questo è il lavoro di Simone. È fatto così, lo ama. In fondo, nonostante
sia un fattone non da poco e adori sgraffignare le caramelle al supermercato è
un bravo ragazzo.
«Oh, quella è spesa proletaria. Mica solo le caramelle, pure i pacchi di
pasta e di sugo e di sale».
Le vecchine stravedono per lui. Le mamme delle fidanzate anche. Perché
lui sì, toglie dalle palle i poveracci. Non te li mostra, li porta via per un
po’. Non c’ha retorica ‘sta cosa. Gli sfigati di mezzo mondo sonno sfigati di
mezzo mondo, inutile raccontar balle, come portare al cinema un cieco, stessa
storia, para para.
Il problema, Compagni & Compagne, è che passato il primo mese Simone
non viene pagato. Non ci sono i soldi, dicono. I soldi per il sociale
diminuiscono ogni giorno di più, urlano.
La cooperativa non paga i dipendenti da una vita e manco fa un
contratto.
«Come», domando, «non t’hanno fatto un contratto? E se qualcuno si fa
male? E se tu ti fai male?»
Simone rimane in silenzio.
Poi, il giorno dopo, si attacca al telefono.
Lo guardo di nascosto, coperto dalla
porta della camera, scusarsi in tutti i modi con il suo datore di lavoro.
Si sente in colpa il ragazzo.
Si sente in colpa di chiedere due spicci (perché il coinquilino guadagna
due spicci, non riceve un grande stipendio, cinquecento euro al mese, più o
meno).
E la rabbia di nuovo sale.
È forte la rabbia, ancora più forte a causa del senso di colpa.
Ci hanno educato così. Siamo una
generazione piena di sensi di colpa. Siamo così tanto corrotti dentro da aver
paura di chiedere un contratto e qualche soldo.
Siamo noi in torto, sempre e comunque.
Simone guarda il telefono, poi guarda
me. Anche io lo osservo e non riesco a trovare due parole, niente, ché forse
almeno una pacca sulla spalla dovrei dargliela.
Sono i suoi occhi a colpirmi, ogni volta è così. Come un maratoneta,
manca poco al traguardo, già vedi il nastro, ansimi, gli occhi ti luccicano, il
sudore si spande e poi, d’improvviso, ti sloghi la caviglia. Stessa cosa: manca
poco e ti ributtano giù. Non hanno pietà, non c’è giustizia.
Passano i giorni e Simone va ogni mattina al lavoro, ora non racconta
più le storie, adesso mi descrive la collera. È una narrazione diversa, piena
di parolacce e di cose non dette. È forte e ogni cosa passa in secondo piano.
Non mi dice più di Federico o di Sandro o di Alessia, non mi fa andare indietro
nel tempo, quando i manicomi erano aperti e la gente era legata con la camicia
di forza, no. Torna a chiudersi e i suoi occhi si stringono, due piccole
fessure colme di risentimento.
Amerigo,
il suo capo, lo prende in giro. Si arrabbia, Amerigo, se Simone non sa dove
siano le forbici (nonostante nessuno glielo abbia mai detto) o se non ha capito
da solo da cosa è affetta Antonietta (nonostante Simone non abbia accesso alle
schede dei pazienti); se Simone rimane solo la colpa è sua, ché non ha
organizzato bene i turni, nonostante sia compito del coordinatore (sempre
Amerigo) fare la turnazione. Gli telefona la sera e comincia a sputar sentenze.
Pretende, il buon Amerigo, ma non dà niente. Lui è il capo, può tutto, nessuno
lo manda mai ‘affanculo. Così Simone va al centro ogni giorno e ogni giorno la
sua schiena si incurva un po’ di più. Di nuovo, lo stanno distruggendo.
Ci hanno insegnato a dire grazie, sempre e comunque. Siamo una
generazione di falliti, dobbiamo esprimere gratitudine e prostrarci, felici di
avere un lavoro, anche se è un lavoro dimmerda. Che è un lavoro dimmerda non
possiamo dirlo mai. Gridare al mondo intero: «Il mio lavoro fa schifo!» è
vietato. Siamo pagati una miseria o non siamo pagati proprio e quando chiediamo
ciò che ci spetta di diritto dobbiamo farlo a bassa voce, con reverenza, come
se fossimo in difetto. Sempre in difetto, ogni giorno in difetto, ogni minuto
in difetto. Noi muoviamo il mondo, loro
mangiano sui nostri corpi. Siamo una maggioranza immensa, loro sono pochi. Li
puoi vedere beati e tranquilli a godersi il sole, a bere cocktail e a parlare
al cellulare. Mangiano cose buone, quelle che fanno bene e fanno una capatina
all’Expo; oppure leggono il Manifesto e si indignano per i mali del mondo, per
lo sfruttamento, per la povertà e intanto si ingozzano di precari e
sottopagati. Sono i peggiori.
E Simone rimane in silenzio. Perché siamo così tanto putridi da credere
sempre e comunque di essere nel torto.
Guardatelo, il coinquilino mio, il mio migliore amico, ammiratelo gobbo
sul divano, mentre urla e si incazza e scalpita. Mentre prende a parolacce il suo
capo senza essere sentito, il cuscino usato come sacco da botte e come poi
d’improvviso, nel silenzio più totale, la sua voce cambi riducendosi ad un
sussurro quieto. Ci hanno così tanto ipnotizzato da farci credere che il
contratto sia un’eccezione e non la normalità. Ci sentiamo fortunati se un
contratto ce lo fanno, ringraziamo e guardiamo il mondo con occhi a cuoricino.
Ma Cristo non è così. Il pezzo di carta firmato è un diritto nostro, il datore
di lavoro ce lo deve fare. Non
esistono periodi di prova, tirocini, stage, non esiste un cazzo. Hanno il dovere di stipularlo. E invece no, se la
ridono sotto i baffi, ‘ste merde. E noi zitti. Sempre zitti. Io lo vedo il mio
amico, lo vedo e sto male per lui. E poi penso a me, che non posso neanche più dire
che il mio lavoro è brutto, che non voglio fare l’impiegato per tutta la vita,
che c’ho fantasia da vendere. E poi anche ai miei fratelli e alle mie sorelle,
ai disoccupati, a chi fa un lavoro orribile, a chi viene sfruttato tutto il
giorno, agli immigrati pagati un euro l’ora, ai ventenni in perenne stage, ai
volontari dell’Expo, ai tirocinanti per sempre, agli insegnanti fuori sede, ai
giornalisti-che-lavorano-gratis-e-non-potranno-mai-diventare-giornalisti, ai
peluche giganti, ai camerieri nei fast food, ai lavavetri, ai quarantenni
sempre in bilico, agli studenti pieni di sogni già infranti, a quelli come me.
E quando ci penso io mi incazzo, ché si lamentano tanto di due vetrine distrutte,
che ci prendono in giro, che dicono «Il lavoro c’è, eccome se c’è», che ci
pisciano addosso, che ci umiliano ci massacrano ci offendono. E poi torno a
Simone e al suo impiego, ché lo ama il suo impiego, adora il suo impiego. Allora
vorrei urlare, vorrei sovvertire sabotare distruggere. Altro che macchine
bruciate. Vorrei venire sotto casa vostra, riccastri da strapazzo, e cancellare
tutto, ogni cosa.
Però non lo facciamo, non lo faccio io e non lo fate voi, che state
leggendo. Preferiamo tenere la testa bassa, prendercela con chi sta peggio e
annuire sempre e comunque. Il coltello dalla parte del manico ce l’hanno loro,
mica noi. Noi siamo nulla. Noi siamo decine di Simoni pronti a chiedere scusa
sissignore scusa ancora. Diciamoci la verità, siamo perduti.
Quanto ancora dovremmo subire prima di incazzarci? Quanto dovremmo
patire?
Non lo capite, voi che possedete la bella automobile, che state
spezzando la corda? Che la pentola bolle? Che la rabbia è tanta? Che prima o
poi gente come il mio coinquilino, gente come me, sbroccherà? Che presto,
quando anche l’ultima sicurezza l’ultimo spiccio l’ultima speranza ci verrà
tolta, non avremo più niente da perdere? E che allora, solo allora, arriveremo
davanti alle vostre ville e ai vostri appartamenti e alle vostre case
minimaliste per riprenderci tutto. Tutto quel che ci spetta.
Allora sì.
Allora sì che avrete paura.
E' una storia talmente reale e forte che lascia a bocca aperta..Siamo una generazione che vive nell'incertezza. La nostra vita, però, e' preziosa e come tale dobbiamo trattarla.
RispondiElimina