C’ho in testa ‘sta canzoncina che non vuole andar via, quella delle
Fiabe sonore, avete presente no?
A mille ce n’è
nel mio cuore di
fiabe da narrar
da narrar.
Venite con me
nel mio mondo
fatato per sognar
per sognar.
Sono tipo formule ipnotiche.
«Con queste parole magiche», urlano Gargamella, e Grande Puffo (da
sempre in combutta), «pufferemo tutto il mondo!»
Se sei nato negli anni ottanta sicuro le conosci, le storielle parlate
dico, come le Buste Gran Sorpresa. Qualunque bambino sano di mente ha chiesto,
almeno una volta nella vita, una Busta Gran Sorpresa.
«Volevi il gioco Mangiaboschi, come fosse un tesssoro. Brama di potere. Consumismo. Lussuria. Egoismo. Sei nostro
Mangiaboschi, solo nostro», ghigna Grande Puffo.
Eh, però dalle Buste uscivano tutti quei
giocattoli che, un bimbetto come me, mica poteva non avere.
«Il mio nuovo amico…»
«Per sempre con te, Elia Mangiaboschi», mi sorrideva il soldatino di
piombo.
Mettevo il termometro sul termosifone io
pur di non andare a scuola e i miei, se c’avevo la febbre, mi portavano le
Buste Gran Sorpresa, quelle per i maschi, quelle blu.
«Che in quelle delle femmine ci sono solo le schifezze da femmine. E io
odio le schifezze da femmine».
A me le schifezze da femmine facevano proprio schifo: bambole, Barbie,
cuoricini, smaltini, teiere e Mini Pony.
«A morte il Mini Pony!», urlava Lion-O dei Thundercats sfoderando la
potente spada Omens, dove è incastrato l’occhio di Thundera. «Distruggete i
villaggi, uccidete donne e bambini!»
«Al rogo al rogo!»
Era una guerra, sempre e comunque, pure
con la mia vicina di casa. Io i Mini Pony li bruciavo tutti e lei, per ripicca,
strappava le braccia al mio Popples, l’unico peluche che mi piaceva, quello che
diventava una palla, con la tasca marsupio sulla schiena insomma.
«Mamma! La vedi Francesca?»
«Chi fa la spia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù, all’inferno
ci vai tu!»
«Sono stupide le femmine», dicevo ai miei amici il giorno dopo, «giocano
con le cose stupide. Mica come noi che siamo investigatori privati e pure
acchiappa fantasmi. Loro hanno Poochie e il Dolce Forno e anche i Paciocchini.
A me i Paciocchini mi fanno vomitare. Facciamo che eravamo gli zombie che
uccidono I Paciocchini?»
Comunque, scusate la digressione, torniamo a noi: ho in testa il
ritornello delle Fiabe sonore quando entro in casa.
«Simone», chiamo. «Sono a casa».
«Che», mi dice Grande Puffo, «speri davvero che il tuo coinquilino abbia
preparato il pranzo? Pensi veramente che il povero diavolo si sia messo a
cucinare qualcosa? Per te? Ma non essere stupido… per tutti i puffi, cresci una
buona volta».
«Io ti ignoro Grande Puffo, come ho sempre fatto».
Giro per casa, in camera, in cucina ma
del mio amico non c’è traccia.
BREVE
DIBATTITO CHE HA LUOGO (ATTORNO AD UN TAVOLO TONDO) NELLA MIA TESTA:
GANESH: Vi ho qui riuniti tutti per
capire assieme che fine ha fatto il coinquilino del nostro corpo.
UNA MOSCA: Pensi dunque che il
Mangiaboschi sia solo un corpo? E noi l’anima che lo popola? Credi quindi
nell’inconsistenza della carne in un mondo fatto di materia? O forse, cosa ben
più grave, pensi che Elia altro non sia che un burattino nelle nostre mani?
GRANDE PUFFO: Dov’è il whisky…
facciamoci un sorsetto e poi ne parliamo, okay?
CRICETO: Scusa un po’, ma la mosca da
dove esce?
UNA MOSCA: Oh, piccolo criceto, gira
sulla tua ruota. Entrai molto tempo fa, dall’orecchio dell’ignaro, e qui
rimasi, sempre più felice, in un mondo fatato.
ORSETTO DEL CUORE: Vabbè, allora ci sto
pure io. Sempre dall’orecchio eh.
IMMANUEL KANT: D’altra parte amici la
ragione umana è afflitta da domande che suo malgrado non può respingere, perché
le sono assegnate dalla natura della ragione stessa…
UNA MOSCA: Ne converrai quindi che il
concetto di intelletto è quanto meno errato.
IMMANUEL KANT: Vedi, strano essere dai
mille occhi, come si può rispondere a domande che superano ogni capacità della
ragione?
ORSETTO DEL CUORE: ‘Nsomma è un
rompicapo.
GRANDE PUFFO: Pufferbacco, non ci avevo
mai pensato.
GANESH: Compagni, concentriamoci sul dove. Dov’è Simone?
Uno screeek improvviso e la
porta di casa si apre.
«Sei tu, mi avevi fatto preoccupare, dove sei stato?»
«Sono distrutto».
«Oddio, che è successo?»
«Non ci crederai. Ho lavorato».
E qui, Fratelli
& Sorelle, anche gli angeli del paradiso scendono a far festa.
«Davvero davvero?», chiede San Pietro.
«C’avete invitato?», gli fa eco San Giuseppe.
«Eddai, posso venire pure io?», domanda Padre
Pio parecchi piani più in basso. «Giusto due salti, un balletto e poi me ne
ritorno giù buono buono. Vi prego».
«E che lavoro?», domando.
Simone si
accascia sul divano. «Un lavoro. Il problema è un altro Elia. Mi hanno
licenziato.»
«Come licenziato, ma hai cominciato oggi…»
«Pranzo, ti supplico».
«Cioè, devo cucinare io?»
«Mi sono fatto un culo grosso come una
capanna, e scusa il francesismo. Sono mesi che non lavoro, tu lavori sempre,
che ne vuoi sapere? Sono a pezzi».
«Figliolo», mi dice Gesù Bambino, «anche se
bestemmia, anche se è stanco, perdonalo. Prepara per lui un piatto prelibato,
ma mi raccomando, fallo con amore…»
«Però mi racconti? Cioè, se cucino dico».
«Certo. Ti narrerò ogni cosa…»
LA STORIA DI SIMONE E DEL SUO NUOVO
LAVORO
GANESH: Nel
narrarvi la storia però ve la romanziamo un po’, altrimenti non c’è gusto e
dobbiamo riportare tutti particolari insignificanti e noiosi e tipo che Simone
apre la porta, fa un passo, abbassa gli occhi, poi li rialza, va al bagno, si
tira giù la cerniera, fischietta un attimo, aspetta, piscia, si pulisce, si
chiude i pantaloni, esce posando prima il piede sinistro e poi il destro, si
siede (dopo essersi grattato il sedere), pensa al nulla, pensa ai fiori, pensa
alla primavera, digita due nomi sulla tastiera e così via…
CHRISTOPHER
VOLGER: Cioè, capite pure voi che una storia così raccontata è parecchio
noiosa. Meglio evitare le parti morte, o no?
UNA MOSCA: A me
le parti morte piacciono, cioè, io me le mangio. Con un pizzico di sale non
sono male.
ELIA: Vabbè,
possiamo cominciare o no? Riprendiamo dal titolo:
LA STORIA DI SIMONE E DEL SUO NUOVO LAVORO
[ciak 2]
GANESH: Che poi
riflettendo stiamo a pagina tre e ancora non abbiamo detto niente.
IL CRICETO: E’
che ci perdiamo sulle cazzate.
GRANDE PUFFO:
Oh, tra amici si sa. È così. Un cicchetto tira l’altro e si sono già fatte le
due del mattino…
ELIA: Mica la
dobbiamo raccontare per forza ‘sta storia eh. Chiudiamola qua e basta.
ORSETTO DEL
CUORE: Macché sei matto? Abbiamo preso un impegno. Dobbiamo cominciare. Ecco
dai, faccio io:
LA STORIA DI
SIMONE E DEL SUO NUOVO LAVORO [ciak 3]
CHRISTOPHER VOLGER:
Però oh, quanto ci piacciono le divagazioni è? Andare fuori tema, perderci nel
testo, parlare per tre ore, non rispettare il primo o il secondo atto. Neanche
gli archetipi… dove sono il mentore, il guardiano della soglia, il messaggero?
Che fine ha fatto la linearità del racconto?!? Non siamo forse…
ELIA: Li usiamo
tutti, tranquillo. Basta che ci fai cominciare…
LA STORIA DI
SIMONE E DEL SUO NUOVO LAVORO [ciak 4]
GANESH: Tanto lo
dividiamo in due no?
CRICETO: Che?
GANESH: Il
racconto.
CRICETO: Dici?
GANESH: Dico
dico, la prima parte ‘sto martedì, la seconda la settimana prossima.
CRICETO: Tipo
‘na roba a puntate?
GANESH: Eh.
Creiamo il pathos…
LA STORIA DI SIMONE E DEL SUO NUOVO
LAVORO [ciak 5]
Uno pensa che il disoccupato non faccia
niente, che passi tutto il giorno così, spaparanzato sul divano.
Beh, a dirla tutta è quello che penso anche
io (in genere). Cioè, Amici & Amiche, quel che penso del mio povero
coinquilino. Anche perché, non me ne voglia, io Simone lo vedo proprio così:
sbracato sul divano fellato, la tuta nera, le ciabatte, la birra mezza vuota e
lo sguardo ebete.
Vedere?
A Simone manco
serve più un’agenda, per lui il tempo è tutto uguale e le giornate vengono
scandite dalle serie televisive e dalla febbre del sabato sera. L’agenda la
usava per appuntarsi le ore di lavoro, il fesso, e nel 2015, come vendetta, ha
deciso che no, l’agenda mica se la compra, «Oh, non posso regalare i soldi miei
a ‘sti sporchi capitalisti.»
«A finanziare le tasche di qualcun altro
quando qua la povertà mi sta strozzando».
Quel che però in molti non sanno (cioè noi lavoratori)
è che il disoccupato una vita ce l’ha, eccome se ce l’ha. È tipo i gatti no?
Che quando dormi vanno a caccia. Ecco il coinquilino, quando io non ci sono, fa
lo stesso.
«E che, va a caccia?»
«No Ganesh, però vive…»
Prima di tutto
la rabbia. La cova come un mostro feroce, soprattutto nelle notti di luna
piena, è tipo un rancore malvagio, forte, viscerale. Noi tutti -amici e
parentame vario dico- pensiamo che il ragazzo abbia perso le speranze e che
ormai, come molti della nostra generazione del resto, il fatto stesso di
cercare lavoro gli appaia cosa inutile e frustrante. Ma, Gente di malafede, non
è così.
Però ci torno più avanti.
«Eh… che intanto stanno tutti ad aspettare
te».
«Come mai, ma chi sarai, per fare questo a
me. Notti intere ad aspettarti, ad aspettare te».
«No Criceto no, gli 883 no».
«M’è scappata, scusate».
Tutte le mattine
Simone si alza, e, armato di profondo spirito mistico, si accovaccia in posizione
del loto, socchiude gli occhi, focalizzando tutta la concentrazione al centro
della fronte, abbassa un poco la testa e comincia: «Ong namo guru dev namo»,
che più o meno significa…
«Lo dico io dai, sono indiano cazzo!», urla
Ganesh, «‘Mi inchino all’energia creatrice che è dentro di me e chiamo il mio
guru interiore’… eh, visto sì?»
Poi, dopo la sua ora e mezza di yoga (che
finisce spesso con un canto terribile molto ma molto new age)…
«Eddai, ‘sta canzone è bella», dice Grande
Puffo.
IL CANTO TERRIBILE MOLTO MA MOLTO NEW
AGE
Che
il sole ti illumini sempre
L’amore
ti circondi
E
la pura luce che è dentro di te
Guidi
il tuo cammino
Guidi
il tuo cammino
Guidi
il tuo camminoooooooooooooooo
«Ah! Blasfemi del cazzo! C’avete poco da
prendere per il culo, è un mantra… è tipo l’Ave Maria deficienti!», ci sgrida
Ganesh.
«Oh, quella la so!» gioisce Gesù Bambino.
«Eddai, fatemi continuare la storia».
…Poi, dopo la
sua ora e mezza di yoga, Simone esce di casa, slega la Vespa e va in
biblioteca.
«Che c’ha tanti abitanti», dice Firmino, il
topo che divora i libri.
«Facciamo la lista degli abitanti?»
«E facciamo la lista».
LA BREVE LISTA DEGLI ABITANTI DELLA
BIBLIOTECA
- Gli studenti
(che vengono a studiare);
- I pensionati
(che vengono a leggere i quotidiani);
- I disoccupati
(che vengono a passare il tempo).
«In comune», dice Immanuel Kant, «hanno molti
aspetti. Tutte e tre le categorie rappresentano il passato, il presente e il
futuro. Uniti da un filo invisibile che li lega gli abitanti non possono fare a
meno l’uno dell’altro. Il pensionato gareggia con il giovane per la lettura del
giornale, il disoccupato osserva il pensionato con invidia e infine lo studente
guarda i due e vede il futuro, cercando la speranza che, come tutti saprete, è
l’ultima a morire».
‘Nsomma, ogni mattina Simone va in
biblioteca, si siede al suo posto preferito (quello vicino alla grande finestra
che si affaccia sullo stradone grigio), accende il vecchio computer e cerca.
«E cosa cerca?», chiede Grande Puffo.
«Un lavoro no, mi pare ovvio».
Guardatelo
quindi come, armato di santa pazienza, spedisce curriculum. Non siate timidi,
sedetevi lì, accanto a lui e osservatelo. Non può vedervi, siete come fantasmi,
non abbiate paura.
Bravi.
Ci siete.
Vedete?
Trattenete il respiro.
Sì sì, spedisce
curriculum.
«Ancora?»
«Eh, ancora ancora, mica si arrende il
ragazzo».
Ormai lo sapete,
non è vero? Da anni lavora per i disabili, è normale che cerchi lavoro in quel
campo, casomai per una cooperativa.
«So’ comunisti!», geme Orsetto del Cuore,
«Mangiano i bambini!»
«Macché, mio buon amico, quelli si cibano
solo di roba bio. Anzi, ti dirò di più, proprio perché dicono di essere di
sinistra ti sfruttano ancora meglio…»
«Eh, come no. Pure gli ideali c’hanno rubato,
‘sti borghesi mascherati da poveracci», interviene Lev Trotsky.
Andiamo avanti, posso?
I mesi passano e
Simone, seduto dietro al tavolo, invecchia. Ogni tanto si guarda allo specchio
e scopre, non senza un certo orrore, i primi capelli bianchi.
«Cazzo! Sono pieno di capelli bianchi! E
tutti sulla sinistra!»
«Beh, il fascino del brizzolato… tipo George
Clooney. Tipo.»
«George Clooney un accidente! Io qua sto a
diventa’ un vecchio Cristo!»
«Eddai, e che sarà mai».
«Oh, un ragazzino, c’avrà avuto quindici
anni, manco un bambino era, m’ha dato del Lei! Ti rendi conto?!? A prolacce
l’ho preso, ‘sto stronzetto fattone. ‘Ste generazioni non c’hanno più rispetto
per noialtri»
Simone ha trentatré anni e non ha uno straccio
di lavoro, che insomma, non è proprio una gran cosa. Così, ormai prossimo alla
disperazione, decide di tentare tutte le strade e manda curriculum ovunque: lavapiatti
in un ristorante bengalese, addestratore di leoni, guardiano dell’isola, tester
di odori, portiere di notte, scrittore di biglietti per biscotti e
cioccolatini, spruzzatore di formaggio per popcorn, assaggiatore di cibo per
cani, cercatore di palline da golf, clown in un circo, decoratore di pasticcini
transgenici, impollinatore di palme da dattero, cavia da laboratorio,
allevatore di lumache.
Nulla.
“Come farò?”, si domanda preoccupato. “Morirò
di stenti, dovrò farmi mantenere da Elia!”
«Questo non l’ha pensato!»
«Non importa Ganesh, lascia fare. Ché tra
qualche mese gli dobbiamo pagare anche gli alimenti».
Io lo vedo come cambia e so pure come si
procura le cose, il poveretto. Che ne so, per i saponi va in erboristeria e
ruba tutti i campioncini. «Ché pure se lavoravo uno shampoo così mica me lo
potevo permettere» -effettivamente entrambi sono mesi che c’abbiamo ‘na pelle
profumata e anti rughe e dei capelli morbidi al tatto tipo le pubblicità che
sono la fine del mondo-; fa la spesa proletaria, che mette un’arancia nella
busta e dopo averla pesata ne aggiunge altre tre, «Oh, da NaturaSì eh, mica
cazzi»; si riempie le tasche di merendine e bevande nei grandi supermercati
sgraffignando anche i DVD; legge il giornale in biblioteca, «Ché da quando sto
senza lavoro c’ho ‘na cultura d’attualità che è la fine del mondo. Mi faccio
proprio la rassegna stampa. Daje»; ma soprattutto, con miracolosa disinvoltura,
passa da un operatore telefonico all’altro, «Mi becco tutte le offerte Elia!
Sono arrivato a pagare cinque euro per internet, SMS e telefonate! Tutto
incluso!».
Sì, so a cosa state pensando.
«E non gli hai detto come fa a prendere i
libri gratis da Feltrinelli».
«Quello teniamocelo per noi, mi sa che è
meglio…»
Per farla breve…
«Eeeeeee, mo breve».
Per farla breve,
la vita del disoccupato non è che gli dispiace tanto.
«Vedi
Elia», mi spiega, «io ci sto pure bene così. Ho i miei ritmi, i miei tempi…
cioè, insomma, come dire, sto bene da solo. Mi gestisco le mie giornate… molti
mica la capiscono ‘sta cosa. Oh, se fossi ricco io non mi annoierei, veramente.
Ho tutto il giorno da fare, la vita del pensionato obbligato mica è ‘na cosa
semplice… il problema sono i soldi. Finiscono. C’ho il conto in rosso quasi.»
Il fatto è che nessuno ci vuole. Abbiamo
un’età che non ci si capisce niente, siamo tipo ancora adolescenti (almeno
dentro, nell’anima) e però da fuori sembriamo già adulti. Uno di trentatré anni
non è che lo assumono tanto facilmente. Ci spengiamo ogni giorno un po’ di più
e ci lasciamo travolgere dagli eventi e ci vengono pure i capelli grigi. La
storia che le cose prima o poi arrivano è ‘na cazzata (per quanto Simone ci
creda); le cose non arrivano, ce le
dobbiamo sudare e pure se ce le sudiamo non è detto che si realizzino. Il
rischio è quello di trovarci con l’unica maglietta rimasta madida di sudore e
senza niente in mano. È come se stai in un’isola deserta piena di persone senza
niente e tutt’attorno c’è gente che mangia e che beve. Tu li guardi, speri in
un gesto di carità, una coscia di pollo o un’insalata scondita (per i
vegetariani), però niente, quelli si abbuffano e tu c’hai la bava alla bocca. È
vero, non sei solo, ci stanno tutti i simili tuoi accanto a te e pure loro
pietiscono un pezzo di torta, però in verità non puoi contare su nessuno, o
almeno è quel che ti fanno credere i tizi che mangiano tutto, ti mettono contro
gli altri e intanto non ti danno niente. Ti osservano morire sull’isola deserta
e dopo ci girano pure un bel film e lo chiamano “I Sopravvissuti del pianeta
Terra”. Però mica ti pagano per fare l’attore.
«‘Mmazza che pessimismo cosmico», mi dice
Giacomo Leopardi (che ha la faccia di Elio Germano). «Su con la vita, schiena
dritta… guarda che Simone un lavoro alla fine l’ha trovato… continua la storia…
parti dalla mail. Aaah, amico mio,
gli uomini sarebbero felici se non avessero cercato e non cercassero d’esserlo».
Continuo la storia, c’hai ragione tu Giacomo
Leopardi, niente polemica, freddo, tipo sceneggiatura cinematografica:
SCENA UNO
Interno giorno.
Una biblioteca,
ragazzi e ragazze seduti, qualcuno studia, qualcuno si lancia i cartoccetti.
Simone è fisso
davanti al computer, lo accende. C’è una mail, la apre e il suo sguardo cambia.
VOCE OFF (la
mia): Come possono i perfidi comunisti avercela tanto con le compagnie telefoniche?
Non sono forse loro ad assumere milioni di disperati? Non sono forse le varie
Vodafone Wind Fastweb a salvare i giovani da un destino già segnato?
VOCE DI DIO: Non
deve essere così male. Basta sorridere, sorridere sempre, sempre e comunque.
VOCE OFF: Aho
Dio, ma che stai rosicando che la faccio io la voce fuori campo?
VOCE DI DIO:
Sciocco. Non essere ridicolo, sto solo in competizione con Ganesh.
VOCE OFF: ‘Fatti
è tanto che non si vede. Cioè, qualche riga almeno… dove l’hai messo?
VOCE DI DIO:
Leggi la mail Elia, prima che sia troppo tardi.
VOCE OFF: Ecco
qua. Vediamo. “Domani presentati in Via […] e chiedi di Deborah U. Che la forza
sia con te, giovane S.”
VOCE DI DIO:
Sarà mica Dart Fener?
Compagni & Compagne, quando succede ‘sta
cosa Simone non mi dice niente.
Io! Suo grande
amico! Miglior coinquilino che l’intera specie dei coinquilini possa
desiderare! Detentore di immensi segreti e del lato oscuro della forza! Proprio
io vengo lasciato in disparte, ignaro dei fatti. Anzi, continuo ad essere
utilizzato senza ritegno.
LE FRASI TIPICHE
DI SIMONE:
«Vai a fare tu la spesa?»
«Fai una canna ché mi fa male il pollice?»
«Oggi cucini?»
«La casa è un cesso, pulisci? ‘Na romanella
eh… una cosa veloce, più a dirsi che a farsi cioè».
«Tagli il pane?»
Le cose il mio
coinquilino se le tiene dentro.
Senza dire
niente esce di casa e senza dire niente arriva sotto ‘sto grande palazzone immenso
pieno di finestre che sembrano mille occhi arcigni.
Tira su col naso, si stropiccia gli occhi e,
con sguardo fiero, si addentra lungo il sentiero che conduce all’immensa torre
della nota compagnia telefonica MalefiX -beninteso, non esiste nessuna compagnia
con ‘sto nome, però io, che c’ho le paranoie, evito di citare il Male Assoluto
per somma precauzione-.
«Eh, la prudenza non è mai troppa», annuisce
La Voce di Dio.
«Cazzo davvero ma Ganesh dove l’hai messo?»
Simone non
pensa. Cammina solo dritto, superando le porte a vetri.
Musica da camera.
Una folata di vento potente.
Luci al neon,
pavimenti lucidi, specchi ovunque, un coccodrillo imbalsamato poco sopra la
reception.
«Io… sto cercando Deborah U.»
«Bene. Dodicesimo piano. Prendi l’ascensore.
Terza, no quarta porta a destra, dopo il lungo corridoio. Segui la via. Bussa.
Ora vai, ho da fare».
L’ascensore è un incubo.
«Che fa?»
«Gli si blocca».
«Come gli si blocca?»
«Già, tra l’undicesimo e il dodicesimo
piano.»
«E come fa?»
«La apre a forza».
«Che?»
«La porta».
Quindi sì, la
apre a forza, non prima però di aver visto strane scritte sulla parete
nascosta. Un alfabeto sconosciuto, simboli magici dal tratto incerto.
«Se solo potessi», dice Indiana Jones
estraendo la frusta, «verrei ad indagare».
«E se MalefiX non fosse altro che una
potentissima setta segreta?», gli fa eco Orsetto del Cuore.
«E, ancora peggio, se questa setta segreta
composta da massoni e serial killer che mangiano il cervello dei precari
volesse proprio Simone come adepto?», dice Grande Puffo.
«O forse come carne da macello»., annuisce il
Criceto.
Il coinquilino,
che si è vestito bene per l’occasione, cammina piano, le ascelle già sudate e
lo sguardo preoccupato.
Non capisce. C’è un silenzio innaturale e il
corridoio è troppo lungo, come se non finisse mai. Prova ad asciugarsi
l’ascella ma la sua attenzione è concentrata tutta sul pavimento trasparente,
dove nuotano squali e pesci tropicali. Li vede muoversi, nuotare, boccheggiare.
«C’è nessuno?», domanda.
La camminata si
fa ancora più lenta mentre osserva le figure antiche dipinte sulle pareti
bianche. Un paio di vetri a specchio si susseguono a intermittenza senza
un’apparente continuità. Il soffitto è sormontato da lunghi tubi d’acciaio e un
piccolo fischio echeggia in lontananza, sembra il borbottio di una teiera.
In fondo.
C’è una telecamera.
Lo spia.
“Forse è meglio che me ne vada”, pensa.
Un grande
telefono troneggia sul fondo. È rosso.
«S.»,
gracchia una voce metallica.
Da dove
proviene?
È tutta intorno.
Odore di pulito.
Un altro suono,
questa volta più distinto. Un zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz
lungo e continuo.
«S.»,
ripete la voce.
«S… sì?»
«Segua
il corridoio. Troverà ciò che cerca».
«Dovrei vedere Deborah, la terza o la quarta
porta credo».
Già, era la
terza o la quarta?
«Vede
porte per caso? Arrivi in fondo, la prego».
Un grande
portone.
“Un attimo fa non c’era, ne sono sicuro”,
pensa.
Respira piano, ascoltando il suono dell’aria.
La porta è rossa
e sopra la porta è stampato a lettere cubitali un manifesto con scritto: “TU
SEI LA TUA FORZA”.
La porta si apre.
È dentro.
Il cuore geme.
La fronte suda.
Il battito è
accelerato.
Un altro corridoio pieno di piccole sale. In
ogni stanza, coperta solo da spesse finestre, gli uomini chini lavorano senza
sosta. Sembrano non avere un volto, così vestiti tutti uguali.
Ma urlano.
Sbraitano.
Schiacciano telefoni.
Spingono bottoni.
Solo che non si
sentono.
Per un attimo, un attimo lo giuro, Simone li
scruta dentro e ha paura. È una paura atavica, forte, con un peso.
«È lei il signor S.?»
«Sì, sono io».
«Non faccia caso al silenzio. Lavoriamo nella
telefonia. Dove andrà lei rimpiangerà tutto questo. Ora venga, io sono Deborah
U.»
Stratta di mani.
Deborah è una
donna grande e grossa con un vestitino nero a fiori gialli, scollato e
aderente. Sorride affabile mostrando denti perfetti e levigati.
«Si sieda prego».
Le pareti sono
bianche, il pavimento è bianco, le sedie sono bianche. Non c’è una libreria,
non c’è niente. Solo una vetrata che si affaccia sul corridoio e una scrivania
lucida, anche questa bianca. Sulla scrivania ci sono tre fogli, due penne, un
computer e un telefono rosso.
«Ti darò del Tu Simone. Mi risulta più
facile».
Deborah
ticchetta la penna (rossa) sul tavolo.
«Ma tu continuerai a darmi del Lei. Per
sempre.»
Un sorso di
sangue improvviso le cola dal naso.
«Questa, come saprai, è MalefiX, l’azienda
leader nella telefonia. Noi facciamo contratti, stipuliamo accordi, vendiamo
offerte».
Simone si mette
comodo, la donna spalanca le braccia, poi le richiude immediatamente.
Sopra la sua
testa si apre un cassetto.
«È il cliente ad interessarci. Quando vuoi,
come vuoi, noi siamo sempre con te».
Dal cassetto
escono dei piccoli robot metallici, si muovono piano, in cerchio, come se
stessero seguendo una macabra danza cibernetica.
«Ti scortiamo fin dalla nascita. Abbiamo
connessioni internet per neonati, offerte per bambini, cellulari per
adolescenti. Prendi mai la metropolitana? I bimbi oggi desiderano il telefono
di marca, non il pupazzo o la bambola. Noi comandiamo la loro fantasia».
I robot alzano
le braccia, tutti insieme.
«Siamo il futuro. E il futuro è qui».
Dal centro, tra
gli automi, esce un piccolo pettirosso metallico. Cucù, echeggia. Deborah alza lo sguardo, «Il mio orologio», dice.
«…»
«Sai perché ti abbiamo voluto tra noi? Sei un
creativo e a noi piacciono i creativi. Ho letto il tuo curriculum. Hai studiato,
laureato in cinema. DAMS. Bene. Il lavoro che ti offriamo fa al caso tuo. Altri
come te sono venuti, alcuni sono rimasti, altri andati via. Non erano in grado
forse. Ma tu Simone hai il fuoco negli occhi. Io lo vedo. Cosa vogliamo da te?
Semplice. Pubblicità. È questo che devi fare. Vendere. Noi vendiamo sogni mio
caro e li spacciamo per solide realtà».
«Io non so se…»
«Non esiste il ‘Non so’, non qui, non a
MalefiX. Simone, sarò franca con te: le nostre offerte fanno schifo, smerciamo
nebbia e connessioni lente. Imbrogliamo. Con noi paghi sempre di più. È il
centesimo nell’abbonamento mensile per il cellulare a fregarti. Però rifletti
bene, a voi piace. Vi lasciate prendere e godete godete godete.»
«Ma…»
«È una vita che ti imbrogliano. Comincia a
farlo tu. Sarai il migliore, ne sono sicura. Il mondo gira intorno alla
telefonia. Al giorno d’oggi nessuno può stare senza la connessione ventiquattro
ore su ventiquattro. Al mondo serve Whatsapp, Instagram, Telegram. Ti sei mai
domandato di cosa ha bisogno l’essere umano?»
«Di… cibo?»
«Del selfie, del tweet veloce, del navigatore
portatile, del videogioco con una grafica indecente. L’uomo vive la realtà da
un telefonino.»
Lo sguardo di
Simone d’improvviso cambia, un mocciolo di bava gli cola dalla bocca, gli occhi
si spalancano. «Io», dice metallico, «voglio essere dei vostri».
«Bravo. Sei pronto. Seguimi.»
«E… e il contratto?»
«Simone, non essere sciocco, questo è il
giorno di prova…»
Ora, mentre
segue Deborah lungo il corridoio, quando si trova proprio davanti all’ennesima
porta, il passo si fa incerto, insicuro quasi.
“Cosa mi attende?”, pensa con un pizzico di
emozione.
Già, cosa lo
attende? Quale radioso futuro l’aspetta una volta varcata la soglia? Chi
diventerà? Forse, come ha sempre desiderato (almeno da un’ora a questa parte)
muterà in un grande, ma che dico, grandissimo pubblicitario?
Si tratta solo di vedere; di vedere, capire e
aspettare. Manca poco ormai, sempre meno, una manciata di secondi forse.
La porta si apre, un raggio di luce lo
investe accecandolo.
Questo. È . Il.
Futuro.
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