lunedì 9 febbraio 2015

L'INCREDIBILE STORIA VERA DI SIMONE E DEL SUO NUOVO LAVORO [Parte 2]



  Ah! Amici & Amiche, che gran giorno! Che incredibile avvenimento! Il mio coinquilino, l’irascibile Simone, ha finalmente trovato lavoro!
  «Diglielo».
  «Zitto Criceto».
Il problema, come molti di voi sapranno, è che il lavoro l’ha pure perso.
  «Diglielo su».
Ma non importa! Ci ha almeno provato! Si è alzato dal letto sfatto e, armato di santa pazienza, ha affrontato il suo giorno di prova!
  «Elia…»
  «Huff, okay. Va bene.»
Qua il Criceto dice di dirvi che questa è la seconda parte del raccontino che è cominciato una settimana fa. Il riassunto ve lo faccio lo stesso, ma decenza ed educazione vorrebbe che voi, Lettori & Lettrici, andaste a spulciarvi quel che io…
  «E io!», dice il Criceto.
  «E io!», urla Grande Puffo.
  «Anche io!», biascica La Voce di Dio
…Quel che noi abbiamo scritto martedì scorso.
  Ma se non ne avete voglia ecco un sunto rapido rapido splendidamente enunciato da Immanuel Kant.
IMMANUEL KANT: Buongiorno a tutti. Sarò rapido, breve e indolore. Mi appresto dunque a narrarvi le vicende del coinquilino, il buon Simone, amico fidato del Mangiaboschi. Ordunque.
UNA MOSCA: Veloce.
IMMANUEL KANT: Scusate, non me ne vogliate. Non capita spesso, ad un intellettuale come me, di esporre fatti di così bassa importanza. Ma tant’è, se sono stato chiamato qui, tra le pieghe di questo racconto, un motivo ci sarà. Certo sfugge alla mente mia ma, come non mi stuferò mai di ripetere, è la ragione, imperscrutabile sotto tutti i punti di vista, a dettare leggi che non può essa stessa interpretare.
GRANDE PUFFO: Taglia e passa la boccia.
IMMANUEL KANT: Benissimo. Eccomi qui pronto, in una rapida sintesi, per raccontarvi le gesta di Simone S.; è una fredda mattina d’inverno, stormi di pappagalli si librano nell’aria, come…
ORSETTO DEL CUORE: Vabbè, faccio io dai, sennò affittiamo domani. A Simone arriva una mail, gli dicono di presentarsi a MalefiX, nota multinazionale della telefonia. Simone è felice, dopo mille curriculum inviati qualcuno ha risposto… così corre all’appuntamento con tale Deborah U., la incontra proprio nell’ufficio della tipa, ‘na cosa asettica tutta bianca (per inteso, pure il palazzo di MalefiX è ‘na cosa asettica e tutto bianco), tipo il futuro no? Cioè, fantascienza. Com’è che si chiama quel film? THX 1138 mi pare, ecco ‘na cosa tipo quella. Tutto levigato, molto cibernetico. Incontra ‘sta tipa che propone mari e monti. Pubblicità, dice. Simone non ci ha mai pensato, fare il pubblicitario potrebbe essere una buona idea. Tra l’altro, diciamoci la verità, Deborah al coinquilino l’ha lusingato. Ché dice che la laurea in cinema serve.
IMMANUEL KANT: Il racconto si conclude quindi con Simone davanti alla grande porta del futuro, curioso al punto giusto di sapere cosa lo attende dall’altra parte.
ORSETTO DEL CUORE: La porta sì è appena aperta e la luce, per un attimo solo, l’ha accecato.
LA VOCE DI DIO: Oh, tipo undici pagine per descrivere ‘ste due stronzate.
CHRISTOPHER VOGLER: Vi perdete, non rispettate gli schemi. Il primo, il secondo e il terzo atto!
GRANDE PUFFO: Ecco, è arrivato. Non ci far perdere tempo. Diciamo che più o meno eravamo giunti qui, con la storia dico. Però se non ricordo male noialtri avevamo una boccia di rum, se non ricordo male…

IL GIORNO DI PROVA
  Noi ci reinventiamo ogni volta. Siamo stati spazzini, baristi, ludotecari. Abbiamo lavato i piatti, pulito le stanze, passato ore davanti al computer a premere sui tasti.
  Alcune volte i nostri lavori ci sono piaciuti, altre meno. Certi giorni abbiamo riso. Grazie al precariato le abbiamo provate tutte e abbiamo conosciuto tantissime persone. Abbiamo visto come i maestri insegnano nelle scuole, come gli animatori intrattengono i bambini, come i cuochi cucinano nei ristoranti; ci siamo schifati quando il cameriere ha raccolto il panino gettato a terra per darlo al cliente inconsapevole; abbiamo pianto spesso, quando l’autistico ci ha picchiato selvaggiamente.
  Simone l’ha fatto.
  Credeva di aver trovato il suo lavoro. Di essere bravo con i pazzi, un buon operatore, utile alla cooperativa. Come si sbagliava.
  «Illuso!», già urlano i più.
L’hanno buttato via come uno straccio consumato, ma prima di gettarlo nel secchio della raccolta differenziata ci si sono puliti le scarpe, le suole soprattutto.
  Ci ricreiamo ogni giorno. Tutti i giorni. Siamo una generazione di transformers. Sempre pronti per un nuovo lavoro, mai arrabbiati, in bilico tra un palazzo e l’altro.
  Ecco Simone, il perfetto esempio del trentenne senza speranze, illuso da una vita che non gli è stata concessa, ormai sottomesso al volere del sistema.
  Guardatelo, come aspetta di scoprire il futuro. Una bestia che attende i croccantini dalle mani del padrone. Nient’altro.
  «Che poi è ‘na cazzata eh», mi dice il Criceto. «Noi animali domestici viviamo di rendita. I veri padroni siamo noi, certo, questo vale soprattutto per i cani e per i gatti. Però t’assicuro che non ce la passiamo male… meglio del tuo coinquilino stiamo.»
  Deborah U. spalanca l’immensa porta e una luce si espande come fosse il paradiso. Simone gioisce.
Diventerà il più grande pubblicitario della storia della pubblicità! Immensi monumenti verranno eretti  in suo onore!
Sarà il primo a fare una pubblicità etica, rinunciando ai grandi compensi della Nike o di McDonald’s!
  Poi la luce cala.
  Il silenzio del corridoio cessa.
E le voci lo assalgono.
  È un inferno, un immenso inferno di fuoco e fiamme. Un luogo di tortura e morte.
  Ci reinventiamo sì. Ogni volta. Abbiamo grandi speranze, vogliamo fare gli astronauti da grandi o i registi o gli attori. Siamo i migliori, i più bravi. A noi nessuno può toglierci i sogni. Fino a che non ci scontriamo con la realtà, non sbattiamo la testa così forte da rimanere per un attimo paralizzati. Lo vediamo bene, il sangue che cola dalla fronte. E lo lecchiamo, perché questa è la nostra fine: veniamo stipati in un grande stanzone con le pareti bianco sporco, piene di muffa; ci schierano in file ordinate, una postazione dietro l’altra, le scrivanie blu piene zeppe di fogli; ci bloccano su una sedia scomoda ma non troppo e ci mettono davanti al computer. Poi ci infilano le cuffie e ci fanno parlare per ore al telefono, ore e ore. Ci controllano certo, seguono le conversazioni con i potenziali clienti annoiati, con le casalinghe in menopausa, con gli uomini depravati, con i giovani come noi. Ci suggeriscono le risposte tramite l’auricolare destro mentre con quello sinistro ci fanno riempire di insulti dal consumatore. Ci spiano anche dal vivo, tredici controllori in abiti firmati che girano avanti e indietro. Tutto questo per otto ore al giorno, ininterrottamente; le telefonate passate direttamente dal Cervellone, un immenso computer fatto di bit, plastica e cavi.
È la nostra fine.  
È il call center, oscuro terrore di qualunque giovane sano di mente.
  «Peggio del Call Center non c’è niente», dice La Voce di Dio.
  «Manco dal Burger King è così pesante», annuisce Grande Puffo.
Deborah sorride soddisfatta guardando Simone. «Come finisce una telefonata il Cervellone ne passa un’altra e un’altra e un’altra. Per otto ore. Otto ore di vendite e profitti. È questo che ci rende grandi, siete voi la nostra forza. Ora vai ragazzo, stendili».
Simone si guarda le mani, ha un tremito veloce. Vorrebbe ucciderla o almeno sputargli contro; tirare fuori tutto il suo spirito ribelle. Ma la verità è che non può. Ha bisogno di soldi, un bisogno disperato di denaro.
  Osserva i suoi futuri colleghi, le camice sudate e gli occhi spalancati. Veramente vuole essere uno di loro? Potrebbe organizzare una rivolta, uno sciopero, una cosa qualunque. Ma chi vuole prendere in giro? Non farà niente, si siederà come tutti e accetterà mucchi di parolacce da ignari acquirenti.
  «È che non avete speranze. Vi hanno rubato tutto, ogni cosa, pure la voglia di lottare. I sindacati ormai non contano niente, la politica è deceduta e alle persone sta bene così. Siete morti dentro e non lo sapete», dice Lev Trotsky.
  Simone guarda Deborah. «Io non so come si fa», dice.
  «Ce l’hai nel sangue, ascolta i miei ordini, seguirò le tue telefonate. Fai quel che dico, come fossi un pappagallo. Tra cinque ore sarai pronto. Ambrogio?»
  «Sì signora?»
  «Porta Simone alla sua postazione».
  «Certo signora».
È tipo un supplizio, una condanna a morte. È come finire sul ponte dei pirati, attendendo di essere sbranato dagli squali.
  Il Cervellone, al centro di tutto, si illumina.
Alcuni lo venerano, altri si voltano a guardarlo, altri ancora lo seguono.
  «La nostra guida», sussurrano.
Ci riscopriamo ogni volta, cambiando parti della nostra personalità, come fossimo cyborg. Modifichiamo il nostro pensiero, le nostre azioni, i nostri desideri.
  Simone si siede osservando i volti dei suoi coetanei. Veramente vuole essere questo?
  I soldi.
  Non chiederà mai un prestito ai genitori.
Alza lo sguardo: una grande macchina diabolica, un ingranaggio perpetuo.
  Lo stanno studiando, ne è certo; lo osservano dall’immensa vetrata a specchio. Deborah. È lì. Lo scruta.
  Ora indossa le cuffie, la percezione spostata quel tanto più in là che serve a superare la giornata. Sente un battito lontano, forse il cuore, forse le speranze. Si scusa con loro e accetta la prima chiamata.
  «Bene.»
  «Oh, Deborah, salve.»
  «Sei pronto?»
  «Sì… credo».
  «Forza. Orecchio sinistro il Cervellone, orecchio destro la tua Deborah… e tre, due, uno. Sei in linea tesoro!»
  «Pronto…?»
Un nome dallo schermo.
  «Ehm, salve… io sono Simone S., il signor Sambuco?»
  «Sono io».
Orecchio destro: «Non perdere tempo. Pensa al prodotto, vendi. Altrimenti attacca.»
  «Sì».
  «Cosa?»
  «Non ce l’ho con lei».
  «Con chi…?»
La telefonata si interrompe.
  «Abbiamo agganciato Simone. Guarda il computer. Ecco. Leggi. Lì c’è quello che devi vendere. Sei pronto? Non mi deludere, ho puntato molto su di te. Ce la puoi fare.»
  «Buongiorno».
  «Sì?»
  «Salve, sono Simone S.  e la chiamo per conto di MalefiX.»
  «Ah. E Allora?»
  «Senta io…»
  «Ho fretta. Mio figlio mi aspetta per andare in palestra, il cane devo ancora portarlo a far la pipì, mia moglie è di là che dorme da ore; mi tocca pulire tutta casa, stirare i vestiti e fare un mucchio di cose che, glielo assicuro, non auguro neanche al mio…»
Orecchio destro: «Taglia.»
  «Okay signor… uh, ecco. Signor D’Agostino. Ah. Eh. Bene. Sarò veloce. Abbiamo qui un pacchetto per lei già pronto, adatto alle sue esigenze… ottimo per una situazione, sì, come la sua. Tanti impegni, mille cose da fare. Pensi, grazie a MalefiX, in un colpo solo, si porterà a casa: navigazione internet illimitata, modem Wi-fi incluso, a cui potrà collegare fino a… oh oh, duecentosettantatre apparecchi… tutte le chiamate verso rete fissa nazionale gratuite… e, ecco. Chiamate illimitate gratuite ai cellulari MalefiX».
  «Sì ma io…»
  «Signor D’Agostino, mi ascolti. È il mio primo giorno di lavoro, conviene a lei e conviene a me. Anzi, sa che le dico? Le farò avere dodici euro di sconto al mese. È la crisi, la viviamo tutti. Se non ci si aiuta tra noi…»
  «Posso… posso pensarci?»
  «Certo, la metto subito in contatto con il nostro centralino. Pratiche burocratiche e tutto il resto le sbrigherà con lui. Arrivederci e grazie ancora…»
  Ci destrutturano e ci riformulano, come fossimo una pozione magica, un calcolo sbagliato, una formula non riuscita.
  Eccolo quindi, il nostro Simone, piegato in due sulla scrivania, guardarsi a sinistra e a destra e osservare i suoi simili, chini come lui sul computer, lo sguardo perso del morto vivente. Non hanno tempo di parlare, di scambiarsi due parole, di fare una battuta.
  Sono macchine.
  Macchine programmate per uccidere.
Osservate Deborah invece, non è troppo diversa da Simone; ha iniziato anche lei parlando al telefono, ma ha fatto carriera. Certo, può essere sostituita, come tutti del resto. Il suo contratto non le da garanzie di nessun tipo, ma non importa, vive il presente. Oggi è felice. Oggi è lei che comanda, ha potere.
  «Bravo Simone», dice, «è andata. Sapevo di poter contare su di te. Ma non distrarti, arriva un’altra telefonata».
  E così via.
  Ore e ore e ore.
Simone riceve parolacce, battute, proposte indecenti. Molti gli attaccano il telefono in faccia, pochi accettano le sue offerte. Il Cervellone nel frattempo smista le chiamate.
  Qualcuno piange, viene da dietro. Potrà voltarsi? Rimane fermo, immobile, terrorizzato. Cosa gli hanno fatto? Ci vogliono così poche ore per cambiare una persona? Perché non si gira? E se avessero bisogno di aiuto?
  Potrebbe perdere la telefonata.
Quindi rimane fermo. «Pronto?», dice.
  «Però scusa, io vi ho dato pure la rabbia, la collera», dice La Voce di Dio.
  «Io non credo in te, sono tipo ateo… o agnostico, ancora non so. Che ci posso fare? E poi ascolta, Ganesh dov’è?», rispondo.
  «In un posto sicuro. Fai qualcosa».
  «Cosa posso fare?»
  «È Simone, mica uno qualunque. È un tuo fratello, forse il tuo migliore amico. Vuoi lasciarlo così?»
  «Voce di Dio, io non posso far niente. Mica modifico gli eventi. Cerco solo di riportare gli avvenimenti, le cose che mi capitano intorno».
  «Questo lo so. Però romanzi parecchio quando racconti le tue storielle, potresti farlo anche adesso».
  «Ti assicuro che ho già romanzato abbastanza… piuttosto, fai qualcosa tu no?»
  «Ma io vi ho concesso il libero arbitrio, non posso interferire».
  «Cazzate, guarda che hai fatto in Egitto al tempo di Mosè…»
  «Quella è un’altra storia».
  «Se vuoi… puoi…»
Ci riassettano. Ci obbligano a seguire le loro regole, a vivere nel loro mondo. Non importa cosa tu abbia fatto, chi sia stato. L’importante è qui, è l’ora, l’adesso.
  Ma Simone non può.
  Non lui.
Deborah parla, il timpano dell’orecchio destro sembra quasi esplodere. La voce gli entra dentro, correndo lungo i canali di scolo del cervello, insinuandosi prepotente fin dentro il midollo osseo, scendendo giù,  nella colonna vertebrale, vertebra dopo vertebra dopo vertebra. Lo riempie, lo annienta, si impossessa di lui. È squillante. «Telefonata telefonata telefonata».
  È il mondo del domani. Sono gli uomini robot. Siamo tutti noi. Ammiratelo. È laggiù. È il Cervellone a comandarci.
  Qualcuno crolla a terra, forse il suo vicino di postazione. Lo trascinano via degli uomini vestiti di bianco.
  Qualcun altro urla.
Schizzi di sangue.
  Deborah continua a sbraitare ordini. Simone esegue, il cuore sempre più veloce, la milza che sembra scoppiare.
  È questo il futuro che vuole?
  «Cosa vuoi fare da grande?», gli chiedeva il papà la sera prima di andare a dormire.
  «Il regista», rispondeva sorridendo.
  «Oppure?»
  «Il creativo».
Il creativo. Simone voleva creare. Forse è anche questo ad unirci, il bisogno di narrare storie, di farci guidare dalla fantasia, di non perdere il nostro spirito bambino.
  «I bambini sono ribelli. Sempre», mi fa notare Pierpaolo Pasolini.
Ha ragione.
È questo che ci differenzia.
Simone alza lo sguardo, la voce del padre in testa, la domanda ripetuta dieci cento mille volte.
  A noi piace giocare.
Guarda i suoi colleghi.
Ora hanno la sua età, domani saranno già vecchi.
Non ce la fa.
Non può farcela.
  Simone non ha vent’anni. Deve trovare qualcosa che lo faccia star bene, o che almeno gli dia la possibilità di pensare che non si licenzierà dopodomani. Non vuole svegliarsi tutte le mattine con l’ansia. Non chiede molto.
  Ci riscopriamo ogni giorno. Ci piace. Loro provano a cambiarci, tentano in tutti i modi e sicuramente un pochino ce la fanno. Ma ci sono cose, anche piccole, che non cambiano. Ci sono parti nostre che rimangono così, ancorate per sempre all’anima. È il nostro spirito infantile, la voglia di rivalsa. Credere. Nonostante tutto, sopra ogni cosa, non perdere la speranza.
  Noi ci nutriamo di speranza.
Quindi Simone si alza, strappandosi le cuffie dalle orecchie, si alza e si incammina verso il grande portone, fischiettando solo un poco. Guarda i ragazzi che per un attimo solo incrociano il suo sguardo.
  «Simone, cosa fai?», urla Deborah spuntando dal nulla. «Se esci da quella porta hai chiuso, HAI CHIUSO HAI CAPITO?!?»
  Il sogno nel cassetto cazzo.
Ammiratelo Amici & Amiche, guardatelo. È bellissimo. Sembra quasi… luminoso ecco. Certo, gli altri non si voltano neanche un attimo, se lo facessero sicuro lo seguirebbero.
  «Non osare mancarmi di rispetto! Non uscire, non-uscire! Ehi, mi senti?!?»
  L’illusione.
  Ci sfamiamo di illusione.
  Non siamo mai sazi e questa fame ci tiene in vita. Ci fa sorridere ogni mattina, nella certezza che qualcosa prima o poi cambierà.
  Noi, Precari & Precarie, semplicemente non ci arrendiamo. Non fa al caso nostro.
  Simone esce, fiero e bellissimo, baciato dal sole.
  Un sorriso gli nasce dalle labbra e si espande su tutto il volto.
È splendente.
È l’amico mio.
E ha perso il lavoro.

VOCE DI DIO: Giuro, giusto un pizzico di aiuto ho dato. D’altra parte non c’era Ganesh…
ELIA: Eh, ma dov’è che è andato?
VOCE DI DIO: Beh, non è che un dio non ha desideri… guarda:
C’è un’isoletta.
C’è un’isoletta piena di palme.
C’è un’isoletta piena di palme con una sabbia fina fina e tutta bianca.
C’è un’isoletta piena di palme con una sabbia fina fina e tutta bianca e con il mare cristallino.
  Nell’isoletta c’è Ganesh, metà uomo metà elefante, che prende il sole. Ha in mano un cocktail alla fragola e beve beve dalla cannuccia, ogni tanto un granchio fa capolino tra i suoi piedi.
  Ci fa un sorriso, felicemente adagiato sulla sdraio. «A ognuno i suoi sogni», dice sorridendo.
  «A ognuno i suoi sogni», rispondo, guardandovi.

Se vuoi leggere la prima parte del racconto vai su: http://eliamangiaboschi.blogspot.it/2015/02/lincredibile-storia-vera-di-simone-e.html

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