lunedì 26 gennaio 2015

AMNESIA



  Nero.
Muscoli intorpiditi.
  Piano.
Dove mi trovo?
  Fitta.
Un martello.
  Rumori.
  Voci lontane.
  Soffuse.
  Ovattate.
Sinistra.
Destra.
  Buio.
Il cervello.
Pulsa.
  Tempie.
  Un’altra botta.
Per un attimo solo.
Mi domando.
Chi sono?
  Un suono, più vicino.
Mi volto.
  C’è un corpo accanto a me.
Lo tocco.
  Morbido.
Sbuffa.
Sta dormendo.
  Mi giro.
  Okay, sono sdraiato.
Il letto è soffice.
  Odori.
  Sesso.
La testa mi scoppia, mi tocco gli occhi, provo a mettere a fuoco.
  Il nero è ovunque.
Ricapitoliamo.
  Non. Riesco.
Alzarmi, senza far rumore. Non svegliare il corpo che giace accanto al tuo.
  Dove mi trovo?
Ieri. Una festa. No. Non in una casa. Un locale. Luci. Musica elettronica. Un dj. È una donna. Non è italiana, viene da lontano, così dicono. Non puoi mancare Elia.
  Io non manco mai.
Le braccia si alzano. In mille a ballare.
Gambe e occhi e capelli che
                                            danzano al vento.
Odore di sigarette.
Nero.
  Il corpo si gira. Mi guarda. Ha un viso. È una ragazza, sorride, chiude di nuovo gli occhi.
  Qualcosa mi tocca, mi afferra, mi graffia.
Trattengo un urlo, la caccio.
  Un gatto.
Devo alzarmi.
  Le ossa fanno male.
Tocco il corpo.
È nudo.
  Messa a fuoco.
  La vista si abitua all’oscurità.
Una donna. Capelli corti, biondi, rasati da un lato. Un lungo tatuaggio le contorna la schiena, è un drago, di quelli giapponesi. Ha un piercing sul capezzolo. Le guardo il viso, dodici orecchini sull’orecchio sinistro.
  Chi è?
Scosto le coperte, mi muovo piano.
  Sono in piedi.
  Una gamba cede.
La ragazza si volta. Russa un pochino.
  Nudo.
  Cerco i vestiti. Trovo solo le mutande e i calzini.
Che ore sono?
  La porta, inciampo.
Fuori. La luce mi acceca.
  Un corridoio. Devo trovare i pantaloni.
Stanze.
Entro, materassi a terra.
Persone che dormono.
  Freddo.
Il bagno.
  Una faccia da far schifo. Ho il volto disegnato, il tratto è incerto, penso sia un pennarello. C’è un elefante, si tratta di Ganesh.
  I miei pantaloni.
  La felpa.
Mi sciacquo il viso e mi vesto. Il disegno non va via.
  Scendo delle scale a chiocciola.
La cucina, un ragazzo prepara un caffè.
  «Elia», mi saluta, «seratona ieri eh?»
Annuisco.
Chi è?
  Ieri.
  La musica schizza dalle casse.
  Muovermi. Adoro ballare. Adoro tutto, ogni cosa, ogni persona. I  miei amici ridono, danziamo in cerchio. Simone mi guarda, ha gli occhi a palla, stralunati. «Fantastico», mi dice.
  Sotto cassa.
  Alzo le braccia, poi le gambe. Amo la musica. S’insinua.
Non penso a niente.
Penso a tutto.
  I pensieri.
  I pensieri fuggono via e ritornano e mangiano e ruttano e piroettano.
Li seguo. Chiudo gli occhi.
  Bevo.
Un unico essere, mille persone che non si conoscono, uniti dal battito del cuore, dalla techno sparata a tutto volume.
  Non posso fare a meno di questo.
Io. Sono.
  Non serve sapere i passi, conoscere il giusto movimento, l’importante è seguire il ritmo, lasciarsi andare, ipnotizzati dalla musica.
  È un sorriso collettivo.
Mi volto, anche lei sorride, ha gli occhi chiusi e sorride.
  Ballo.
Nero.
  Il tizio versa il caffè e mi offre una tazza.
  «Hai una sigaretta?», gli chiedo.
  «Tabacco», risponde.
La casa è grande, rustica, tipo casolare di campagna. Sui muri sono appese decine di foto di ragazzi e ragazze che lavorano la terra, di ragazzi e ragazze che annusano pomodori, di ragazzi e ragazze che se la ridono davanti ad un falò. Ci sono due bandiere attaccate, una è quella palestinese. Le pareti sono colorate di arancione e su qualcuna è tratteggiato un disegno, un paesaggio, un tram, l’ombra di un uomo. A terra decine di bottiglie di vino muoiono aperte.
  Un’altra porta. La apro.
  Il vento gelido mi colpisce il viso.
Guardo la campagna. Il giallo dell’inverno, le montagne innevate, i campi lasciati a morire, distrutti dal ghiaccio.
C’è un buon odore, un misto di legna bruciata e fiori invernali.
  Cammino sull’erba alta, si avvicina un cane bianco, struscia il muso sulla mia gamba, lo accarezzo.
  Come sono finito qui?
  Questa non è Roma.
Più in là delle macchine parcheggiate alla meno peggio si incastrano una con l’altra. Non ne riconosco nessuna.
  C’è una ragazza che dorme in un sacco a pelo.
Il verde mi avvolge, la natura è ovunque, in lontananza nasce un bosco fitto e rigoglioso.
  Brina.
  «I tuoi amici sono tutti andati via. Ti hanno cercato ovunque, ma tu non c’eri», mi dice una donna sulla cinquantina, una di quelle vecchie freak con i capelli tinti e le gonne a fiori.
  «Che posto è questo?»
  «È casa nostra, anche casa tua per oggi. Vuoi aiutarmi con l’orto?»
Annuisco, la donna mi passa una zappa.
  L’orto è grande, immenso, perfettamente geometrico.
  Nell’orto ci sono: barbabietola, broccoli, carciofi, carote, cavolfiore, verza, cicoria, cime di rapa, cipolle, finocchio, lattuga, porro, prezzemolo, puntarelle, radicchio, rape, ravanelli, sedano, spinaci e zucche.
  «È bellissimo», dico.
  «Mangiamo solo quel che coltiviamo… guarda, lì giù ci sono le galline».
  Afferro la zappa e scavo dove mi dice la donna.
Sudo.
  «Dove ci troviamo?»
  «Veramente non ricordi Elia, eppure ieri notte adoravi questo posto. Hai detto che ti saresti trasferito qui, che avresti…»
  “…Abbandonato tutto”, penso.
La terra scivola via.
  Immagini confuse.
  Sono ore che ballo. Le luci sono ovunque, gli amici vanno e vengono. Io giro, mi muovo, rido a tutti. Ogni tanto barcollo ma, lo giuro, non mi fermo mai. Anzi, sono un tutt’uno con la musica.
  Poi la vedo. Ha i capelli corti. Mi guarda ed io ricambio. Mi innamoro in un batter d’occhio. È lei ad avvicinarsi, mi sorride e mi bacia, poi mi prende per mano.
  Non ci capisco niente.
  «L’amaro è finito da un pezzo», dico.
  «Prendiamone un altro».
Al bar ordiniamo da bere.
  «Tutto d’un sorso», mi sfida.
  «L’amaro va gustato», rispondo.
Ci sorridiamo.
  «Ti piace ballare?», mi chiede.
La voce confusa.
  «Sì, a te?»
  «Adoro ballare».
Ora siamo in pista.
  È davanti a me.
La musica è viva, è un drago che ci avvolge tutti, che ci fa danzare come pazzi, adepti ecco. Ci trascina prendendo i nostri corpi, scuotendoli, quasi fossimo burattini. Ed è bellissimo, è una sensazione unica, collettiva, di fratellanza.
  Eppure sono solo. Ma non è la solitudine della tristezza, è una solitudine bella, comune.
  Lei balla. In un secondo i nostri corpi si strusciano, un’ondata di profumo s’insinua tra le narici e scende giù a riempirmi i polmoni.
  Inspiro forte, ne voglio ancora.
Siamo attaccati adesso, solo la stoffa dei vestiti a dividerci, pochi millimetri di jeans.
  La tocco, lei posa le mani dietro, a stringermi i fianchi; io faccio lo stesso con i suoi.
  Inspiro ancora.
Apre la bocca, mi guarda di sfuggita, ha gli occhi scuri, glaciali quasi; accenna un sorriso, le si increspano gli zigomi.
  Inspiro.
La musica ci unisce.
Siamo un corpo, uno solo, fatto di sangue e carne e BPM.
  Ci stringiamo.
Polvere ovunque.
Polvere bianca.
È nell’aria, nei nasi, sui corpi, fin dentro al cervello.
  Infilo la zappa nella zolla fresca.
  «Dovresti venire a vivere qui, in campagna», mi dice la donna.
  «A me piace la città».
  «Troppo caos, troppa frenesia».
  «È viva».
  «Anche la terra lo è.»
Faccio cadere la zappa, cosa sto facendo?
  Cammino verso il bosco, il vento ulula tra gli alberi, come fosse un concerto di didgeridoo. Affondo sul terreno, otto centimetri di fango tra i calzini. Non ho le scarpe, me ne accorgo solo ora.
  Freddo.
  Domani avrò la febbre.
La vegetazione s’infittisce, un groviglio di rami e foglie.
Alzo lo sguardo in alto per guardare il cielo.
Il sole è scomparso, mangiato dagli alberi.
  In lontananza sento dei versi, le dita dei piedi affondano nell’erba. Cerco di farmi strada con le mani, mani morbide, mani da città. Il suono di un trattore disturba i miei pensieri. Un vecchio contadino mi saluta, il palmo bene aperto. Ha le dita callose e le rughe. Non ha denti. Abbasso lo sguardo.
  «Dovresti tornare a casa», mi dice, «scalzo ti prenderai un bel malanno».
  «Ha una sigaretta?», chiedo.
  «Tabacco».
  «Va bene lo stesso, grazie».
Rollo la cicca in un attimo, lo sguardo del vecchio puntato sulle mie dita. «Ai miei tempi le sigarette le vendevano sfuse».
  La musica mi assorda.
  Elia è ad un tratto da me.
  Seguo il corpo come se non fosse il mio, un centimetro di distanza.
  È sicuro, il corpo, con questa ragazza. La bacia, la tocca, la palpa. Anche lei appare sicura, sa cosa vuole.
  Ogni tanto gli amici mi raggiungono, pacche sulle spalle e grandi abbracci.
  Fa quest’effetto quella roba là. Ci piace.
Quanto tempo è passato?
Ore?
Minuti?
Secondi forse?
  Contiamo
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
  «Se solo potessi capire il concetto stesso del tempo sicuro un pensierino ce lo farei, sul tempo dico. Ma il tempo, in fondo, non esiste. Il passato è il presente e il presente è il futuro. Ora, adesso, in questo preciso istante, noi viviamo già nel passato. Le righe che hai appena letto appartengono ad altro. C’è solo il presente, sempre. O forse, Amico mio, non c’è neanche quello.»
  «Il Nulla è bellissimo».
  «Il Caos è bellissimo».
Io però danzo.
M’innalzo sopra i corpi.
E la amo.
  «Come ti chiami?», le chiedo.
Lei non risponde.
  «E tu?»
Cos’è questo sapore? Il dolce amaro che sa di detersivo?
Non importa Elia, non importa. Accetta tutto, ogni cosa. C’è la musica a proteggerti.
  Seguo gli altri, hanno conosciuto dei tizi, amici della ragazza con cui sto.
  «Abbiamo un casolare», dicono.
Urlo.
  Prima c’è il mare.
  È il mare d’inverno.
Il bosco è ovunque attorno a me, sento freddo ai piedi. Il contadino è già un ricordo lontano. La mente è confusa.
  Torno indietro seguendo le mie orme.
Da lontano il casolare è grande. Pietra dura.
  «Come avete fatto a prenderlo?», chiedo ad un ragazzo della mia età.
  «L’abbiamo occupato, era un vecchio rudere abbandonato, noi l’abbiamo rimesso a posto e ristrutturato. Mi hai fatto la stessa domanda ieri, non ricordi?»
Memoria del cazzo.
  A quanto pare mi conoscono tutti.
Stanno preparando la brace, è quasi ora di pranzo. Ecco una bottiglia di vino.
  «Sei un grande», mi dice un ragazzino comparso dal nulla.
  «Ho la mia età», rispondo.
  «Però ieri sembravi un bambino».
  «Oggi sono una via di mezzo».
  «La vuoi una salsiccia Elia?», domanda una signora con i capelli bianchi.
  «Uh, no grazie. Io… non mangio carne».
  «Stiamo preparando le verdure grigliate…»
  «Bene».
Vorrei solo andare via. Tutta ‘sta fratellanza mi sta turbando. Ho bisogno di intimità.
Vorrei: una doccia calda, la mia camera, il mio letto, un film.
  «Ma tu sei scalzo».
  «…»
  «Tieni, indossa queste».
Prendo delle ciabatte di plastica con i cuoricini disegnati, mi stanno piccole.
  Il mare è immenso, s’ingrossa ad ogni soffio.
  A me sembra un sogno, ogni cosa, ogni azione, ogni momento.
  È il tempo forse.
  Non so.
La sabbia picchia.
Ho il viso marrone e giallo.
  Lei mi tiene per mano.
Mi volto, gli amici si stringono tra loro.
Siamo tanti.
  A riva combattiamo con le onde. Qualcuno si bagna.
La testa va in frantumi.
  «Cos’è quella?», biascico.
  «Grappa».
  «UN BRINDISI ALLA GRAPPA!»
Non sono io, ma non mi importa. Preferisco essere davanti a tutti, un passo più in là. Come se dovessi comandare.
Questo posto, cos’è?
  Mi stringe la mano.
Un brivido.
  Accendiamo un fuoco, è piccolo e pieno di cartacce, si spengerà subito.
  Il viso di Simone cambia illuminato dalle fiamme.
Qualcuno mi stringe. È Antonio.
Ci siete tutti amici miei.
  «Cosa fate?», urla il guardiano.
Lo affronto. Gli sputo la mia rabbia in faccia senza che ce ne sia bisogno, lo insulto. Qualcuno mi blocca. «È una festa», mi dicono, «non rovinarla».
  Le automobili rombano nel silenzio della notte.
  Un serpente?
  Un drago?
  Una carovana di metallo e plastica?
  «Dove andiamo?», chiedo al guidatore. «Ci conosciamo?»
  «Elia, sono io. Fabrizio. Ti ricordi di me?»
Rimango in silenzio, certo che mi ricordo.
  Abbasso il finestrino, adoro l’aria.
Mangio una bruschetta al pomodoro, poi un’altra. Siamo tutti in cerchio, seduti su vecchie coperte sgualcite, il sole a riscaldarci.
  Ahhh
Mi sento meglio. Devo solo trovare il modo di tornare a casa.
  «Veramente mi hanno lasciato qui?»
  «Sì, non ti trovavano…»
  «Come si fa a tornare a Roma?»
  «C’è il treno».
  «Dove siamo?»
  «In campagna, dopo la città».
  «È reale?»
  «Cosa?»
  «Niente, scusa…»
Dalla finestra più alta si affaccia lei. Mi saluta velocemente. È diversa da come la ricordavo. È più cicciottella ed è bianca cadaverica. Forse ieri notte era truccata, forse ero io ad essere completamente fuori. Mi guardo, sono sporco e pieno di fango. Mi puzza l’alito, devo aver vomitato, o forse no. Però non voglio vederla, in fondo non so chi sia.
  Mi alzo. Qualcuno mi guarda, una bambina mi indica. «L’elefante!», dice. Cammino facendo finta di niente. Se riesco a trovare le mie cose è fatta. Lì giù, le mie scarpe.
  Parcheggiamo le automobili alla meno peggio.
  «È questo il casale?», chiedo indicando il buio.
  «Sì, ora guarda in alto», mi risponde la ragazza.
Alzo gli occhi al cielo, miliardi di stelle mi assalgono.
  «È un quadro».
La luna sorride.
  Corriamo tra la natura, nella notte più profonda, lungo paesaggi non nostri.
  Qualcuno mette la musica, due casse e il gioco è fatto.
Balliamo di nuovo tutti quanti insieme, i miei amici e ‘sta gente che manco conosciamo.
  Io sono davanti a tutti. Mi agito come fossi posseduto, come se la tarantola stessa mi avesse morso, inondando il mio corpo di veleno.
  Rido con tutti, scherzo con tutti.
Beviamo dalla stessa bottiglia, fumiamo le stesse cose.
  Facciamo un totem con gli scolapasta e i resti di un arpia cibernetica. Fili elettrici & cavi metallici. È un mostro e ci piace. Lo veneriamo. Gli danziamo attorno. Ogni tanto il tipo che mette la musica cambia pezzo per farci andare ancora più veloce.
  Ruzzolo a terra.
  Un uomo mi disegna il volto. «Un elefante», dice.
La ragazza mi raccoglie, come fossi un foglio caduto per sbaglio. «Guarda cosa ti hanno fatto. Prendi questa».
  Ingoio senza pensarci.
I colori sono nitidi, puri, sinceri.
La natura mi avvolge.
Il verde è smeraldo.
La luna è avorio.
Le stelle sono oro.
  A tutti.
Simone mi abbraccia.
  In piedi.
Ci sono.
Sono.
Io.
  «Testa d’elefante», mi dice.
Amici, dove siete?
  Mano per mano.
Scale a chiocciola.
  «Camera mia», indica la ragazza.
Mi guardo, sono già nudo. Ho solo i calzini e le mutande addosso.
  Mangio un altro po’. Altre verdure grigliate per riprendermi. È tutto più chiaro adesso, confuso ma chiaro. Mi sento depresso, tipico down da giorno dopo, una scimmia bastarda che ti si attacca alla capoccia. Era tanto che non mi capitava di stare così. Altri tempi, altre storie. Saluto tutti.
  «Dove vai Elia?»
  «Torno a casa».
  «Se aspetti ti diamo un passaggio fino alla stazione».
  «No grazie, ho bisogno di camminare. Posso arrivarci a piedi?»
  «Sì, la strada è sempre dritta. Ma è lunga, ti ci vorrà un bel po’… una mezzoretta minimo…»
  «Meglio, così smaltisco…»
  «Torna a trovarci».
Un ultimo sguardo alla finestra più in alto, lei è lì e mi guarda. Le sorrido, cercando di accennare un saluto malriuscito. Non ricambia. Ha ragione.
  La camera è buia, la testa gira, la vista si sdoppia.
  «Ti amo», le dico.
  «Shhh», risponde posandomi un dito sulle labbra.
Si spoglia, la guardo. È un drago. Ha la pelle verde.
  La bacio piano, scostandole le mutandine. La cerco con la lingua insinuandomi tra le grandi labbra. Bevo. È bagnata. Poi premo, entrando con delicatezza. Voglio trovarla, adoro baciare.
  Nel sole che già tramonta mi allontano via, come uno di quegli eroi un po’ sfigati che si leggono nei libri. Mi volto un’ultima volta, quasi sperando che lei mi stia seguendo, che chiami «ELIA ELIA!», ‘na roba da film insomma. Ma sono solo, dietro di me non c’è nessuno, solo l’ultimo sprazzo di luce a illuminare i miei passi.

Nessun commento:

Posta un commento