lunedì 17 novembre 2014

IL TACCO DI LOLA



  Ogni sera alle nove e trentaquattro (puntuali) Lola esce di casa. Cammina furtiva, guarda a destra e a sinistra e poi procede, picchiettando sui tacchi a spillo 15 cm.
  Io la spio, alle nove e trenta mi affaccio alla finestra del mio appartamento e aspetto. Guardo l’orologio e mi accendo una sigaretta.
  Tick
  Tack
Alle nove e trentaquattro Lola esce dal grande portone del palazzo. La osservo in silenzio, lo sguardo fino. Mi piace vederla sgattaiolare via tra le strade scure di Trigoria, ridente quartiere dormitorio dell’estrema periferia romana. Poi rientro, sorrido e stappo una birra.
  Il giorno dopo busso a Lola. «Non è che avresti un po’ di zucchero?», le chiedo, «Sto provando a fare un dolce, il mio coinquilino passa un periodaccio… casomai lo tiro su… casomai.»
  «So io cosa ci vorrebbe a Simone. Una pistola», mi risponde sorridendo.
  Lola è molto gentile, del vicinato è una delle migliori. Riservata, per nulla molesta, disponibile e altruista. A noi ci passa sempre tutto, dal sale al caffè. È un po’ il nostro alimentari personale. A lei fa piacere, a noi fa comodo. Simone ed io non abbiamo grandi rapporti con gli abitanti del palazzo, però con Lola è diverso, ogni tanto ci invita pure a guardare un film d’azione a casa sua, alle volte la invitiamo noi. Una notte siamo andati a ballare tutti e tre insieme, ma i locali che frequenta la nostra vicina non ci fanno impazzire, con tutte quelle luci e le zeppe e la gente che danza sui tavoli mezza nuda.
  Lola mi chiede sempre il tabacco, ha le unghie molto lunghe e le piace sentire la cartina che si drizza tra le dita; sorride mentre rolla la sigaretta e fa di tutto per mostrare il nuovo smalto e la combinazione di colori e puntini e cuoricini disegnati.
  Tutte le sere, ogni sera, alle nove e trentaquattro esce di casa, il cappotto rosso lungo che le arriva alle ginocchia e le calze a rete, scure.
  «Dove andrà?», chiedo a Simone.
  «E dove vuoi che vada?», ammicca.
Lola lavora in un bar al centro, vicino al Colosseo. Trovare lavoro è stato difficile e nessuno voleva prenderla, eppure, a detta di molti, come fa il caffè Lola non lo fa nessuno. Adesso sta al bancone e serve tramezzini cornetti brioche cioccolatini. I suoi clienti sono molto esigenti e anche il suo datore di lavoro, lui è esigentissimo. D’altra parte Lola sa cos’è la fame e la paura, quindi accetta il ricatto senza fare storie (per inciso, il ricatto è: «Tre euro l’ora per nove ore al giorno, in nero, poi forse ti assumo»).
  «Perché ci stai?», le ho chiesto un giorno.
  «Ho ancora tempo prima che scada il permesso di soggiorno, casomai il padrone mi prende, sai che casino se me lo tolgono, il permesso eh, non il padrone. No no, meglio stare buona, vedrai che ce la faccio. Poi sì che lo mando ‘affanculo…»
   Come Lola dice «‘Affanculo» mi fa impazzire, con il suo perfetto accento romano/brasiliano. Quel che mi piace di meno è quando chiama il suo capo “Padrone”, non lo tollero. D’altra parte Lola ha vissuto in clandestinità per molto molto tempo, è straniera ed è arrivata qui con un permesso per turismo. Poi quando è scaduto è rimasta in Italia.
  «Perché in Italia?», le chiedo.
  «C’è il lavoro e gli italiani sono bravi a letto», mi risponde per nulla ironica.
Senza permesso di soggiorno si è fatta sfruttare a dovere, dai vecchi stronzi bavosi che avevano bisogno di una badante sottopagata e dai magnaccia della strada che avevano bisogno di una prostituta nel localino di striptease. Il lavoro al bar quindi è la migliore cosa che le sia capitata da quando è venuta qui.
  Lola ogni tanto viene a giocare alla Play con noi, è la più brava tra i tre e ci lascia sempre a zero. Alle volte porta del fumo e le serate acquistano una certa magia (Lola ha sempre un fumo che è una roba pazzesca).
  I tacchi di Lola tintinnano nella notte.
Alcuni nel palazzo la guardano male, forse perché è brasiliana, forse a causa dei suoi vestiti vistosi. Anda la portinaia però ci parla tranquillamente, insieme sembrano le comari del paese, tutto il tempo a sfottere Gino Pino e Pilotino. Il Vecchio (il bastardo che tutti i mesi riscuote l’affitto a noi poveri cristi) non la tollera. Ogni tanto lo vedo, accucciato nell’androne del palazzo, assieme ad un altro paio di uomini, a sparlare della poveretta. Sparlano e le guardano il culo.
  Lei, il culo, lo tira su, consapevole degli sguardi; lo fa in segno di sfida.
  «Non sei curioso di sapere dove va?», dico a Simone.
  «Elia ascoltami perché te lo dirò solo una volta. No, non me ne frega niente. C’ho i cazzi miei in questo periodo e non mi va, non mi va, di gettarmi a capofitto in un’altra delle tue indagini».
Le mie indagini.
A me, effettivamente, è sempre piaciuto indagare. Quando ero piccolo adoravo le indagini, indagavo su tutto e, per un breve periodo, avevo deciso di mollare la futura carriera operaia e di intraprendere quella di investigatore privato. Non conoscevo ancora Tony Ponzi, noto indagatore romano, e per me i detective erano tutti come Dylan Dog. «Voglio essere un investigatore comunista! Un investigatore comunista dell’incubo!», urlavo felice nelle orecchie di mio papà. Poi a scuola, il giorno dopo, a ricreazione, assieme alla mia banda, spiavamo le femmine, oscure nemiche detentrici di un segreto grande e ignoto. Ci accostavamo sotto ai cespugli e, armati di binocoli giocattolo, scrutavamo i loro movimenti. Io stavo in fissa con le attrezzature da detective. Tutti quegli aggeggi che andavano di moda negli anni ottanta, venduti su commissione, quelli pubblicizzati sulle riviste. Gli occhiali a infrarossi, le molle invisibili, il rilevatore di metalli, l’aggeggio per spiare le conversazioni anche a centro metri di distanza, la macchinetta fotografica nascosta in una penna. Volevo tutto, ogni cosa. Ci eravamo dati anche i nomi, i miei amichetti ed io, nomi in codice che né le maestre né le femmine avrebbero mai potuto scoprire. Io ero “00”, come la farina, poi c’era “01”, “02” e così via. Inoltre, visto che eravamo veri investigatori, avevamo preparato dei tesserini speciali di riconoscimento, fatti su cartoncino nero e scritti con il limone con un alfabeto da noi inventato.
  «Sicuro sicuro? La potremmo seguire. Senza farci scoprire. Sono bravo a pedinare io».
Ma niente, Simone è irremovibile. Me l’hanno distrutto ‘sto ragazzo, da quando è rimasto senza impiego non sembra più lui. E sì che teorizzava il diritto al non lavoro.
  «Teorizzavi il diritto al non lavoro!», gli dico.
  «Ma non la disoccupazione cazzo.»
Ecco, all’inizio mi viene da mandarlo a quel paese, poi però di preparargli qualcosina che lo tiri su.
  L’indecisione è tra:
- Una torta al cioccolato 
Un purino d’erba
- Un cocktail
      -Tre camomille
- Un cicchetto d’amaro.
Opto per la torta al cioccolato.
  «Cazzo lo zucchero».
Lola ci serve sempre.

  Quando torno dal lavoro, stanco al punto giusto, Simone è lì, fermo sul divano. Non si muove e le pupille sembrano cascargli a terra.
  «Ehi…», sussurro.
  «Simone», ripeto.
  «Aho! Simo’!»
Ma niente, non si alza.
Oddio oddio oddio! Me l’hanno ammazzato! Il mio migliore amico si è tolto la vita a causa di questo sistema degenerato! Un’altra vittima del lavoro!
  Corro su di lui, «Amico mio!», urlo scuotendolo.
Già immagino il grande corteo di protesta organizzato dai movimenti romani in onore di Simone. In fila, davanti a tutti, Elia Mangiaboschi, la bandiera rossa in mano, il megafono nell’altra. «Compagni! Che il sacrificio di Simone ci serva da esempio! Sarà l’ultimo a morire! Disoccupati di tutto il mondo unitevi!», e le folle urlanti dietro. Ah! La morte del mio amico fungerà da faro! La rivoluzione è vicina!
  «Oh».
  «Ma sei vivo?»
  «Eh. Dormivo. E staccati un po’».
  «Peccato», dico, «se fossi morto saresti potuto diventare un simbolo. Questo mondo ha bisogno di simboli, la nostra generazione ha bisogno di simboli. Sacrificati.»
  «Shhh».
  «Che è?»
  «Lo senti?»
  «Cosa, il profumo della rivolta?»
  «No».
  «L’odore del sangue?»
  «No»
  «Il sudore dei compagni?»
  «Il tacco di Lola».
Ci affacciamo entrambi alla finestra. È più presto del solito, dove va? La seguiamo con lo sguardo, la vediamo superare i tre maschi che le fischiano dietro, le due donne che tirano su con il naso e i bambini che sorridono. La guardiamo aprire il portone, la gonna corta ben sopra le ginocchia, il lungo impermeabile rosso che le colora il corpo.
  I capelli di Lola, di un castano indefinito, si intrecciano con il vento in un caotico groviglio di foglie e fibre.
  «Dove va?»
  «Dovremmo seguirla».
  «Tu sei pazzo, non è sicuro».
  «Ma cosa dici?»
  «C’ha giri loschi quella».
  «Oh, ci passa sempre il sale, che giri loschi e giri loschi».
  «Ormai è andata, accendi la Play dai e prepara qualcosa, ho una fame da lupi».
-Dire che mi sento sfruttato è dir poco-.

  Il giorno dopo decido di seguirla.
Al lavoro rimango in silenzio tutto il tempo (non che abbia tanto da dire) e nella mia testa pianifico il Malefico Piano dell’Investigatore Privato.
  Mentre bevo il caffè davanti alla macchinetta non ascolto quel che dice l’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante, nonostante, a quanto pare, mi stia dando un’informazione vitale per la buona riuscita dell’ultimo contratto stipulato con la casa tedesca.
  In pausa pranzo non ascolto le chiacchiere dei miei colleghi, troppo concentrato sul pedinamento.
  Le regole del pedinamento:
1) Vedere e ascoltare ove se ne presenti l’occasione 
2)  Guardare dove si dirige il soggetto pedinato 
3) Annotare le caratteristiche degli individui incontrati dal suddetto 
4) Appuntare atteggiamenti anomali.
Lo sguardo si inarca, le tempie si stringono, la forza di mille detective converge sulla nuca.
  «Mr. M».
  «Uh?», mi domanda l’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante.
  «Niente niente, scusa, continua a far quello che stavi facendo. Cioè insomma, a lavorare ecco».
  «Mr. M».
  «Eh, lo dicevo io. Ancora non eri arrivato…»
  «Concentrati Mr. M, concentrati. Non ti far scoprire dal primo che capita. Ricordi le tre regole del buon indagatore? ‘Onore, Rispetto, Segretezza’!», dice Ganesh, il mio amico dio testa d’elefante.
  «Top Secret!», annuisco, gli occhi a cuoricino.
Fuori dal lavoro sgattaiolo in bicicletta, correndo a più non posso. Mi guardo intorno, Ganesh sulle spalle.
  «Dici che ci stanno seguendo?», chiedo.
  «Chi?»
  «Gli Altri…»
Mi sento osservato, accelero la pedalata.
  Ecco Trigoria, corro sulla pista ciclabile e supero villini e ospedali. Il cielo si oscura.
  Apro il portone.
  «Anda buongiorno».
  «Elia, buongiorno a te».
Mi guarda.
  «Ti sta guardando!», dice Ganesh.
  «E insomma, che si dice?», domando, cercando di simulare una finta tranquillità.
  Regola 48 del vero investigatore: star sempre sul chi va là.
  Regola 49: non fidarsi di nessuno.
  Detto popolare: Fidarsi è bene non fidarsi è meglio.
Anda mi studia, ha uno sguardo strano; nonostante le mie doti medianiche non riesco a capire la sua espressione, che sappia del mio futuro pedinamento?
«Il solito giro Elia. È passato l’amministratore. Ah, la famiglia, quella nuova, quella da poco trasferita, hai presente no? Dice che ha perso la tovaglia della cucina, tu non ne sai niente?»
  «No, io no».
  «E il tuo amico?»
  «Neanche».
  «Non lo vedo più».
  «Non esce mai di casa».
  «Com’è?»
Le portinaie, sono le migliori investigatrici, sempre e comunque.
  «Il lavoro.»
  «Capisco, ah. È passata Lola prima, che strana ragazza…»
Abbasso lo sguardo e mi defilo con un rapido ciao.

  Infilo il vecchio eskimo (la cosa più vicina che ho ad un impermeabile grigio), il cappellaccio di feltro e sono pronto.
  «Le scarpe», mi dice Simone.
  «Ops».
  «Tu stai fuori».
  «Shhh, stupido.»
  «E gli occhiali da sole, cosa ci fai con gli occhiali da sole? È notte, non vedrai niente».
  «Non trovi che sia abbastanza camuffato così?»
  «Elia, ti prego. Cresci.»
Mi tolgo gli occhiali, guardo l’ora. Le nove e trentaquattro. Mi affaccio alla finestra. Ecco Lola.
  Esco da casa e la seguo. Cammina sicura, per nulla turbata, uno strano sorriso le si increspa sulla bocca. Mi acquatto dietro le colonne piene di scritte e scarabocchi, poi sotto ad una macchina. Un vecchio mi osserva spaventato, una signora corre in casa.
  Non faccio caso a loro.
  Devo sapere dove va Lola.
  In che guaio si sarà cacciata?
  Cosa la costringono a fare?
  «Solo tu puoi salvarla Elia, nessun altro. La sottrarrai dalle grinfie dell’uomo e porterai, come il cavaliere oscuro, dignità nella sua vita. Vai adesso!», mi sprona Ganesh.
  Lola tamburella sulle zeppe sculettando a più non posso, il vestito corto ben stretto sul corpo forte, grande. Il petto formoso le balla qua e là e il décolleté le evidenzia le forme. Un uomo fischia al suo passaggio, lei alza il dito medio su e giù, lo sguardo cattivo, truccato, esperto.
  Il cuore pulsa mentre il buio ci avvolge. I lampioni scompaiono e la strada si fa sempre più nera.
  Un cane ulula in lontananza.
Sono dietro di lei, a pochi metri. Lola si volta, guarda la via, una cartaccia sporca di piscio vola lenta.
  Solo il ticchettio a tenerci compagnia.
I palazzi sembrano osservarci, mille occhi famelici pronti a divorarci. Dalla finestra più in alto un uomo urla due parolacce.
  Lola non si ferma, le labbra pitturate di rossetto rosso sangue, la matita nera a contornare gli occhi scivolosi, grandi, scuri.
  Le tenebre ci avvolgono.
Nel nero cammino impacciato, cercando di non farmi scoprire. Un topo mi passa davanti improvviso, è grande quasi quanto un gatto e per un attimo i nostri sguardi si incrociano, ancora poco e ci divoreranno tutti.
  Ora siamo fermi, Lola alza di poco la gonna. Un pelo prepotente spunta dalla calza trasparente.
  Mi aggomitolo su me stesso ascoltando il respiro.
  L’aria.
  L’aria si è fatta pesante e densa, potrei tagliarla se solo avessi un coltello.
  Di nuovo Lola cammina, adesso più veloce, come se si fosse resa conto di qualcosa. Superiamo due vie e ci inabissiamo in una strada buia, sudicia, dal lontano sapore di legno marcio. Un uomo è accartocciato a terra, guarda prima Lola e poi guarda me subito dietro. Sorride un attimo mostrandomi l’unico dente supersite, un dente d’oro bucato al centro. Afferra il cartone di vino bianco e beve un lungo sorso. Rutta cercando di alzarsi.
  Siamo fuori dalla via e ne prendiamo subito altre, un cunicolo di stradine, un labirinto tortuoso e impossibile.
  Odore di muffa.
Credo di aver commesso un errore.
Dovevo restare a casa, aveva ragione Simone.
  Lola si blocca, cerca qualcosa nella borsetta in finta pelle di pitone ed estrae un pacchetto mezzo bruciacchiato di sigarette, quelle fine e lunghe. Ne mette in bocca una e riprende a camminare.
  Fuoco.
Le saracinesche dei negozi sono tutte abbassate e dalle case non proviene una luce, solo la luna ad illuminare i nostri passi.
  Mi lascio suggestionare e la paura prende il sopravvento.
Lola si ferma davanti ad una porta rossa, una piccola porticina in legno e ferro battuto, sopra c’è un’insegna al neon fulminata ma non riesco a leggere cosa ci sia scritto.
  Tre colpi, le nocche a sbattere contro il legno; poi un altro e infine altri due più decisi.
  Un codice.
  Screeek
La porta si apre e ne esce un omino piccolo, basso, alto quasi quanto un nano. Al collo ha un cravattino rosso di quelli che si usano nelle recite scolastiche e lunghi baffi dal sapore surrealista gli contornano la piccola bocca a spirale. «Prego», gracchia inchinandosi.
  Entra.
E adesso?
Torno indietro?
  Esco dal mio nascondiglio e mi faccio coraggio. Devo sapere.
Un passo dietro l’altro.
  Tock tock
Nessuno risponde.
Aspetto.
  Il cuore esplode in mille piccoli frammenti rossi.
Alzo lo sguardo a cercare le lettere dell’insegna. Riesco a decifrare solo una “K” sbiadita
  Il codice.
  Tock tock tock
  Tock
  Tock tock
La porta scricchiola.
Il nano sorride. «Prego».
  «Grazie», dico il più sicuro possibile.
Varco la soglia, risucchiato dalle fauci del mostro.
  Lunghe scale mi attendono.
L’omino aspetta all’ingresso, mi guarda solo un attimo, poi sorride.
  Scendo piano, illuminato dalle candele, i passi incerti e insicuri. Attorno le pareti sono nere e dal sapore impenetrabile; giù, dall’oscurità più scura, delle risate si odono rumorose.
  Mi appoggio alla ringhiera e scosto una grande tenda rossa.
Ci sono.
  È un bar. Un bar con un bancone. Davanti al bancone ci sono dodici persone, alcune anziane, altre no. C’è un signore con una gamba sola e l’occhio vispo che tracanna un cicchetto di rum, altri che si concedono una bicchierata veloce, il vino scadente e la lingua nera. Due donnone posate sullo sgabello vestite in abiti da sera e truccate fino all’inverosimile, le gambe accavallate in una posa grottesca e le braccia incrociate, come fossero pronte a scioperare. Una zingara seduta in disparte che legge i tarocchi ad una ragazza dall’aspetto insicuro, con grandi occhiali inforcati poco sopra il nasino alla francese. Due vecchi, uno bianco e un altro nero, vestiti allo stesso modo (cappello verde, camicia verde e pantaloni verdi) che discutono animatamente di corse di cavalli, la sigaretta spenta tra l’indice e il medio. Il barista, un uomo grande e grosso con una lunga stempiatura riparata alla meno peggio, il gilet e la camicia a coprirgli il corpo pieno zeppo di peli degno del miglior lupo mannaro hollywoodiano, che versa amari e serve liquori ridendo a più non posso. Una ragazza sola poco più che diciottenne con grandi tette e un culo piccolissimo che indossa una sciarpa di yak ricavata in un oscuro scantinato di una bettola tibetana. Una donna sui cinquant’anni con il rossetto sbafato e il trucco sfatto, reduce dall’ultimo banchetto di psicofarmaci. Un signore di mezza età vestito da lord inglese e un altro in frac, basso e tracagnotto, che si scambiano pacche sulle spalle e si abbracciano come farebbero due vecchi amici.
  Dov’è Lola?
Mi siedo ad un tavolo ed una donna di una certa età agghindata da gattina si avvicina. «Cosa vuoi giovanotto?»
  «Io… sono qui…»
  «Da bere dico, prendi qualcosa?»
  «Sì, una chiara. Doppio malto, cioè… se c’è».
  «Tra poco cominciamo, è la prima volta che vieni?»
  «Già…»
  «Non essere timido allora», sorride allontanandosi.
Rimango in silenzio. Dov’è finita la mia vicina?
Poi compare il nano e sale sul piccolo palco accanto al bancone. «Signori & Signore!», comincia, «Benvenuti! Siete pronti?»
  «Sì!», urlano tutti.
Le luci si abbassano, del fumo si spande nell’aria. Tanto fumo.
E dal fumo.
Esce lei.
  Uno schermo alle nostre spalle si illumina improvviso.
Mi volto.
  Lola comincia a cantare. Ticchetta con la punta del piede seguendo il ritmo e la voce si ingrossa in un attimo. È un susseguirsi improvviso di alti e bassi, bassi e alti. È un’armonica la sua voce e scorta le onde del suono in un crescendo incredibile che esplode in un acuto spaccavetri. In men che non si dica tutti ballano, alzandosi e abbassandosi dalle sedie. L’uomo in frac si scaglia in una danza concentrica, quasi un tip tap ribelle. I bicchieri si alzano e tutti seguono ipnotizzati le parole di Lola. È come se la sua voce avesse dato il via ad un qualcosa di indefinito, energetico, delirante; non sembravano aspettare altro. L’uomo in frac è adesso sul bancone e il suono che proviene dai suoi tacchi manda tutti in visibilio, poi Lola passa il microfono alla cinquantenne con il trucco sfatto che urla un urlo immenso e quasi animale. I vecchi applaudono e ridono indicando le donne, seguono il ritmo mentre dallo schermo le parole continuano a sgorgare magnetiche. Tutti cantano e gridano. La donna lancia il microfono alla vecchia zingara che lo afferra al volo e si alza il lungo gonnone fino alle caviglie, poi sale sul tavolo e con una pedata poderosa getta via i tarocchi che finiscono sul viso della ragazza con gli occhiali. Sono in due a cantare adesso, la zingara e la giovane e le loro voci sono così stonate da far scoppiare il cuore. Ma non si fermano, non importa della figura che faranno. Il nano indica le persone e il microfono viene lanciato ovunque. È il turno della diciottenne che inforca il microfono e ci va giù pesante con un gorgheggio non indifferente. Lo schermo scaraventa parole, seguite dai più con devozione quasi religiosa.
“Il cobra non è un serpente
ma un pensiero frequente che diventa indecente
quando vedo te, quando vedo te, quando vedo te.
Il cobra non è una biscia
ma un vapore che striscia con la traccia che lascia
dove passi tu, dove passi tu, dove passi tu…
  «Ehi ragazzo, la tua birra», mi dice la cameriera.
Faccio un sorso, poi Lola mi vede. «E tu cosa ci fai qui?», mi chiede.
  «Io… sì insomma».
E adesso che dico?
  «Menti Elia!», mi suggerisce Ganesh.
  «Ti ho seguita».
  «Cosa?»
  «Sì ecco, ero preoccupato per te. Ti vedevo uscire tutte le sere e…»
  «E…?»
  «E non volevo ti succedesse niente di male. Cioè, dovevo capire dove andavi. Ne ho parlato anche con Simone ma lui…»
  «Elia, ascoltami. Non è che se sono una trans devo essere per forza anche puttana. Cazzo, tutti con ‘st’idea…»
  «Scusa… oh, d’altra parte il luogo comune è sempre in agguato».
  «E poi non potevi chiedermelo?»
Cristo che imbarazzo. «Eh… infatti». Stupido. «Ma poi», domando, «che posto è questo?»
  «Non l’hai ancora capito? Un karaoke, hai presente? Si canta, si beve.... vabbè insomma, ti fai due risate tra amici no?»
  «Ma… mica è un karaoke qualunque…»
  «E infatti. Questo è il miglior karaoke di Roma. L’hai fatta la tessera?»
  «Dopo, la faccio dopo eh…»
È un caos: vecchi, donne, nani e uomini in giacca e cravatta urlano a più non posso, lasciandosi dietro ogni cosa. Bevono dallo stesso bicchiere, si scolano gli stessi alcolici, ridono delle stesse parole. Non hanno pensieri, sono momentaneamente liberi. Le brutte cose le lasciano a casa. Il lavoro, il non lavoro, il precariato, la sfortuna, la paura, la disoccupazione, la famiglia, i tradimenti, il domani. Qui non conta più niente. Bisogna solo seguire le parole del monitor. Ed è una bella cosa. Lola mi offre tre grappe, una di seguito all’altra. Mi piace questa bolgia, un concentrato di umanità varia, un luogo notturno di sfigati. Proprio come me. Mi lancio anche io, il microfono in mano, l’alcol che mi annebbia il cervello e la voce più potente del mondo.
  Ecco dove devo portare Simone.

Io penso che il divertimento sia una cosa seria”.
Italo Calvino

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