Buongiorno Ciclisti metropolitani. Buongiorno a voi, che come me ogni
mattina afferrate la vostra vecchia bicicletta e, sparvieri, vi immettete nel
traffico cittadino. Vi vedo sgattaiolare tra le automobili, bellissimi e
invincibili; vi ammiro mentre superate la barriera del suono e poi giù, verso l’infinito
e oltre, alla ricerca della zona d’ombra, via dal marciapiede, il campanello
già pronto per suonare. Conosco le vostre schiene sudate, lo zaino che si
appiccica alla pelle, il calore sulle mani, il sole che picchia in testa. Venero
la vostra perfezione, il moto circolare delle gambe e lo sguardo puntato sul
contachilometri. Andate oltre, Amici miei, oltre lo stress. Sapete perfettamente
quanto tempo impiegherete per arrivare al lavoro o a scuola, la vostra benzina
sarà lo sforzo fisico e la musica nelle orecchie l’unica compagna. Siete tanti,
siamo tanti. Per questo i Ladri di Biciclette aumentano. Si nascondono
quatti quatti dietro al muro di cartapesta, aspettano che l’ignaro ciclista
leghi la sua bicicletta e poi, armati di sottili tenaglie, rubano l’adorato
mezzo senza lasciar traccia. Io li odio. Ma, ahimè, anche questa volta la sorte
mi ha giocato un brutto scherzo trasformandomi mio malgrado in un…
Ladro
di Biciclette.
Ma
andiamo a cominciare. Mettetevi comodi, rollatevi la sigaretta tanto agognata,
sdraiatevi sull’erba, inforcate gli occhiali e via, seguitemi un pochino.
Fa caldo. Un caldo cane, un caldo che quasi ti inebria.
Pedalo seguendo la pista ciclabile che,
accanto al Tevere, si dirama per chilometri e chilometri.
Oggi è il mio giorno libero e come tutti i miei giorni liberi mi piace
andare al cinema a vedere un grande film americano, nello specifico “X-Men”,
che insomma, secondo me ha il suo perché. Quindi pedalo fischiettando bello
felice senza badare a niente, osservando solo ogni tanto il fiume che scorre
impetuoso. Non ho pensieri, non lavoro, ho dormito e stranamente non ho mal di
testa. Quindi -finalmente- è una bella giornata.
Ci
sono parecchi cinema a Roma, io li divido per categorie, cioè, se voglio andare
a vedere il film intellettuale vado al cinema di Nanni Moretti, se voglio stare
da solo mi rifugio all’Ambassade o ad un cinemino di periferia, se invece
voglio vedere il lungometraggio pieno di effetti speciali me ne vado all’Adriano,
che a me piace e lo raggiungo pure in bicicletta. L’Adriano è una grande multisala
tutta bianca in un bel quartiere di Roma; una cosa da ricchi, mica come le zone
che frequento io; pensate, c’è pure il semaforo per le biciclette, che nella
capitale si trova solo lì e ogni volta che lo vedo rimango allibito. Vicino all’Adriano
c’è una caserma, è brutta, come tutte le caserme, un grande palazzone che
sembra non avere finestre da cui escono loschi figuri e dove il sole non batte
mai. È la Zona Oscura, ritrovo di sbirri e contrabbandieri, di politici e alti
funzionari. Ed è proprio lì che il vostro affezionato sceglie di parcheggiare
la bicicletta.
Afferro
la catena, adocchio il palo, proprio sotto la telecamera che ogni cosa guarda,
e lego la bici. Ho due catene io, una per la ruota davanti e una per quella di
dietro.
“La
sicurezza non è mai troppa!”, penso, guardando ammirato la centrale, “La
polizia vigilerà sul mio mezzo!”.
Faccio
per andarmene ma d’improvviso mi volto.
«Hai controllato la catena?», mi domanda il Criceto che mi frulla in
testa.
«Due volte», rispondo già sbuffando.
«Sicuro? Io riguarderei al posto tuo».
Una rapida occhiata all’orologio e via,
di nuovo a esaminare la bici. Ora, il controllo della catena è per i più cosa
facile, roba di un minuto, questione di pochi secondi. Ma non per me. Io, qui
lo dico e qui lo nego (e lo ripeto) sono paranoico, cioè, a me sale l’ansia e
con l’ansia non mi gusto il film.
Il controllo della catena funziona più o
meno così:
1.Assicurarsi per tre volte che il catenaccio
sia ben chiuso (prima premendo verso l’interno, poi verso l’esterno); ripetere
l’operazione altre tre volte.
2.Controllare che la catena giri bene attorno
al palo e sulla ruota della bicicletta.
3.Verificare che il palo non possa staccarsi
dal terreno.
4.Ricominciare di nuovo, per maggiore
sicurezza.
Dopodiché ripeto il tutto con l’altra
catena.
«Ho fatto», sorrido al Criceto.
«Hum…», risponde lui saltellando sulla ruota, «sei sicuro? E se le borse
fossero aperte? E se nelle borse avessi dimenticato un importantissimo
documento che ti cambierà per sempre la vita? O, cosa ancor più grave, se
avessi scordato la patente (tuo unico documento) e un terrorista mangiabambini
serial killer la prendesse? Pensa, verresti incolpato di tutti i suoi crimini. Controlla
Mangiaboschi, controlla…»
Non
posso dargli torto.
Mi volto, do un’ultima occhiata all’orologio
e mi assicuro che le borse della bici siano ben chiuse.
Certo.
E
se spostando la bici avessi tolto per sbaglio, in una qualche maniera oscura al
genere umano ma non impossibile, la catena, o peggio ancora, le catene?
Mi
chino sulla bici, la rabbia dello stress che comincia a montare e ripeto di
nuovo tutti i controlli. Ad un occhio esterno devo sembrare un ladro.
«Ehm…»
Bicicletta del cazzo.
«Ehm…»
Un’ora per parcheggiare, peggio che in
macchina.
«Ehm».
Mi volto. Due uomini mi stanno
osservando, riflettendo saranno dieci minuti buoni che mi guardano ma io,
impegnato come sono, non gli ho dato mica troppa importanza. Uno è alto e
lungo: il collo è lungo, il busto è lungo, le braccia sono lunghe e le gambe
sono lunghe. Ha un naso aquilino da cui spuntano prodigiosi peli grigi e due
occhi famelici, da iena. L’altro è tozzo e grasso, ricci capelli unti gli contornano il cranio e
lentiggini rosse sono sparse su tutto il viso.
«Salve», dico.
«Salve», ghigna il lungo.
«Cosa sta facendo?», mi domanda l’altro.
«Controllo che la bici sia ben chiusa.»
«Ed è chiusa?»
«Credo di sì…»
Oh
oh.
Mi fissano.
Faccio finta di niente, anche se un’altra
occhiata alla catena vorrei proprio darla.
«E voi?», dico per allentare la tensione.
«Controlliamo anche noi.»
«È
chiusa», confermo.
«Sa», dice il lungo, «di biciclette ne rubano parecchie ultimamente.»
«Già».
«Soprattutto quelle con la catena.», fa l’altro tutto saputello.
Sì, sono guardie. «Siete guardie?»,
meglio accertarsene.
«Poliziotti».
Ecco, lo sapevo, pensano di avermi colto
in fragrante, con le mani nel sacco, in padella; credono, mannaggia, che io sia
un famigerato Ladro di Biciclette.
Il
problema, Amici & Amiche (ma sono sicuro già lo sappiate), è che quando la
polizia ti ferma sembri sempre colpevole. La sudorazione aumenta, il viso si
colora di rosso e la voce comincia a tremare.
«Ah… no, aspettate un attimo, deve esserci un malinteso. Cioè, la
bicicletta è mia eh…», provo a sorridere.
Sembro
un criminale. Come se avessi un etto di fumo in tasca.
«Noi non ne siamo convinti.»
«Ho con me le chiavi della catena».
Maledetta catena.
«Benissimo…»
«Pensate, l’ho parcheggiata qui proprio per stare tranquillo…»
Il cuore tamburella contro il petto.
L’ascella sinistra già suda.
Rido e faccio la faccia dolce. «Nello
zaino», balbetto.
Apro
lo zaino, cerco ovunque, frugo nelle tasche. Cazzo le chiavi.
«E allora?»
«Giuro. È mia. Non ruberei mai una bicicletta davanti alla centrale
della polizia. Non avrebbe… senso».
«Lo avrebbe eccome, nessuno sospetterebbe mai di un ladro che ruba
davanti alla centrale di polizia, o sbaglio?»
«Sbaglia…»
«È
quel che lei sta facendo, ci segua.»
«Devo andare al cinema…»
«Ci segua».
«“X-Men” sta per cominciare. Io non entro mai a film iniziato».
I due uomini mi scortano dentro la
caserma. In dieci mi guardano appena varcata la soglia. La paura mi aggredisce
balorda. Vengo condotto in una piccola stanza spoglia. La stanza ha tre sedie e
un tavolo. Puzza di fumo. «Si accomodi», mi ordina il grasso.
«Devo aver dimenticato le chiavi a casa, non sono chi credete che io sia,
cioè, per farla breve, lo sospetto ecco, insomma, un ladro…»
«E lei pensa di farla franca? I giovani, ne sanno una più del diavolo.
Adorate rubare biciclette, specialmente quelle legate, pensate di poterla
scampare, ogni volta. Ma non oggi. Non. Oggi.»
«Non avete rispetto per niente e per nessuno, non avete rispetto per la
divisa.»
No, infatti. «Sì, io ne ho».
«Lei? Crede di essere spiritoso. Agnellini nella vita leoni ai cortei… a
lanciar sassi e molotov contro gli agenti alla prima occasione. Ma oggi no. Lei
oggi è solo. I suoi compagni l’hanno
abbandonata. È nelle nostre mani».
Ecco, ufficialmente me la sto facendo sotto,
e scusate il francesismo.
La
prima volta che mi hanno picchiato le guardie è stata al G8 di Genova, mica per
colpa mia, macché, ero andato al bagno io e quando sono tornato in strada
dodici poliziotti hanno alzato i manganelli. Poi ci hanno riprovato ad un rave,
ma sono riuscito a scappare nel bosco (dove però sono caduto in un cespuglio di
ortiche). Un’altra volta ad un corteo qui a Roma, un’altra ancora quasi per
caso, quando sono finito a sbattere contro la volante. Insomma, non mi danno
proprio sicurezza gli sbirri.
«Ladro».
Io ho sempre creduto nella spesa
proletaria. Come no, anni fa nei supermercati rubavo di tutto, dalla pasta ai videogiochi
fino a che non mi hanno beccato pure là -in questo caso una guardia privata che
però poi ha chiamato le guardie vere-. Ho smesso e non ho rubato più niente
(tranne i pacchetti di caramelle). Oggi sono pulito al cento per cento. Mastro
Lindo me l’ha insegnato.
«Troppi controlli!», mi dice il Criceto.
Zitto, stai zitto. È tutta colpa tua.
«Allora? Come si chiama?», domanda il poliziotto indicandomi.
«Elia. Elia Mangiaboschi. Ma vi giuro c’è un grosso errore. La bicicletta
è mia. Non ruberei mai una bicicletta».
«Documenti».
«Ho la patente».
«Mangiaboschi. Lei sa cos’è la giustizia, non è vero? E saprà di certo
chi amministra la giustizia. Noi siamo la mano, i servi dello Stato. L’ordine è
la nostra casa, la nostra filosofia. Di certo, e ne sono certo, lei non sa
neanche cos’è l’ordine. Sono sicuro
sia il caos a popolare la sua vita. Caos nella casa in cui vive, caos nel
lavoro, se lavora, caos nei rapporti amorosi. Lei è il caos, signor
Mangiaboschi, e noi siamo l’ordine.»
Annuisco, effettivamente casa mia è un
bel casino.
«L’ordine e il caos non possono convivere, uno deve distruggere l’altro.
Ma vede, un mondo popolato dal caos sarebbe un mondo senza leggi, una realtà
impossibile, l’anarchia. E noi non vogliamo l’anarchia, non è vero?»
«No». Dio se sto sudando.
«Il caos è un cancro. O forse è il
cancro. Ma purtroppo voi giovani avete scordato cos’è il rispetto, avete
dimenticato l’essenza stessa dell’ordine. L’ordine ha bisogno di leggi per
esistere. Ed eccola qui la legge, proprio davanti a lei signor Mangiaboschi. Per
questo la odiamo. L’odio è l’unica arma che abbiamo. Vi detestiamo, vi
disprezziamo, vi disapproviamo. Lei disapprova i nostri metodi?»
«No, non credo… io vorrei andare al cinema…»
«Lei ci detesta invece, solo che non ha il coraggio di dirlo. E sa
perché? Perché noi abbiamo il coltello dalla parte del manico. Al nostro posto,
se fosse il caos a regnare, il suo atteggiamento sarebbe identico al nostro. Ma
purtroppo per lei è l’ordine a far da padrone. Ora lei balbetta, bofonchia,
suda. Quindi è colpevole. Colpevole di aver rubato, o meglio, di aver provato a rubare.»
«La bicicletta è mia».
«La smetta Mangiaboschi, la prego, non si renda ancora più ridicolo. Abbia
almeno un po’ di dignità, di amor proprio. Ogni volta che vi vedo vi disprezzo.
Il vostro modo di vestire, i capelli che avete, gli orecchini…»
«Non ho orecchini…»
«Non faccia lo spiritoso con me. Signor Mangiaboschi, lei appartiene a
quella categoria di giovani che noi non tolleriamo. Siete il male della
società. Un virus. Vi sparpagliate ai cortei come macchie d’olio, urlate contro
tutti e tutto, rubate le biciclette, sgraffignate cibi nei supermercati,
scrivete di tutto su internet, occupate le case, vi vestite da barboni. Ma noi
lo sappiamo chi siete, lo sappiamo benissimo. I vostri genitori vi hanno pagato
le migliori università, i vostri vestiti sono di marca, passate ore e ore in palestra
a fare yoga, leggete i libri al mare mentre gli altri lavorano, vi credete
superiori a noi. Ma noi abbiamo questo», il poliziotto indica il manganello
appeso al muro. «E voi non avete un cazzo.»
Qui
qualcosa si sblocca e la paura fugge via. Non ho mai avuto vestiti di marca e
ho lavorato fin da ragazzo, i miei abitano a Magliana e la bicicletta me la
sono comprata con il mio stipendio. Faccio un lavoro di merda (diciamolo) e non
arrivo a fine mese. E adesso ‘sto stronzo con la parlantina bella mi deve fare
la ramanzina per un furto che non ho mai commesso? Cazzo, la bici è mia.
«Cosa fa Mangiaboschi?»
«Me ne vado».
«Lei è un ladro.»
La mente si chiude, il criceto torna a
dormire. Per un attimo ogni cosa si annulla e il cervello va in pappa,
lasciandosi travolgere dal caos. È il caos a guidarmi a ritroso nel tempo, a
farmi tornare/pedalare indietro lungo la pista ciclabile, a farmi caricare la
bici e a mostrarmi dove ho messo le chiavi.
«Nella tasca nascosta dello zaino!», urlo. «Le ho messe lì per
sicurezza, per non perderle!»
Mi volto, gli sbirri bofonchiano qualcosa.
Apro lo zaino, la tasca nascosta è sotto
a tutto, cucita da un’amica ingegnosa per contenuti poco raccomandabili. La apro.
Le chiavi squillano, il pollice e l’indice stringono il metallo.
«Eccole!», le passo sotto il naso del lungo. «Usciamo, vi dimostrerò che
la bicicletta è mia.»
Senza aspettare risposta sono fuori,
seguito dai due aguzzini. Un colpo deciso e la prima catena è aperta, un altro
e anche la seconda è andata.
I
due mi guardano visibilmente dispiaciuti, starnutiscono qualcosa di
incomprensibile e fanno per girarsi. Ma io no, voglio almeno salutarli; così,
preso da nuovo coraggio e voglia di rivalsa, do una pacca sulla spalla al più
grasso. «Ottimo lavoro ragazzi!», quasi strillo, «la giustizia, anche questa
volta, ha trionfato!»
bisognerebbe fare qualcosa per questi criceti!... a me un giorno di questi mi scambieranno per un ladro d'appartamenti
RispondiEliminaeh... quanto hai ragione!
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