martedì 24 giugno 2014

LA STANZA DEI SOGNI




  Salve Cacciatori di incubi, Mangiatori di scarafaggi e Piromani in provetta, l’altra sera ho fatto un sogno parecchio strano. Ho sognato anche di avere una donna che si chiama Elena -cioè, il sogno non è che è strano perché ho sognato di avere una ragazza eh… è strano per altri motivi insomma- come Elena Roccia, la mia compagna delle elementari (di cui ero follemente innamorato anche se, al tempo, per orgoglio tipicamente maschile dicevo, testuale: «Mi fa schifo»).
  Ve lo racconto, il sogno dico, così come me lo ricordo.
Mettetevi comodi.

  «È bellissimo, non è vero?»
  «Come l’hai scoperto?»
  «Conosci il Parco degli Elfi?»
  «Sì, mi ci portava sempre papà a giocare a nascondino».
  «Bene, ieri stavo lì tranquilla tranquilla a fumare una sigaretta quando improvvisamente si avvicina una vecchietta tutta poverella che mi dà una cartolina dove c’erano le istruzioni per arrivare in questo posto…»
  «E la vecchia? Chi era?»
  «E che ne so… mi ha chiesto una sigaretta e se n’è andata subito via»
Mi guardo attorno, un perfetto prato all’inglese ottimo per un pic-nic, due carezze e qualche bacio; soprattutto quando la tua donna è vestita in questo modo così carino e allora forse comprendi perché ti ha portato in un posto così vuoto. Vuoto nel senso che non c’è proprio nessuno.
  «Che fai», cinguetta lei.
Sorrido malizioso.

  Ci rivestiamo in fretta infila la scarpa un paio di carezze l’immancabile sigaretta in bocca.
  «Ti va di fare una passeggiata?»
  «Va bene», rispondo guardandola fisso negli occhi.
Camminiamo lungo sentieri immaginari, non ci preoccupiamo dei viali verdi e dell’ora tarda.
La precisione con cui è stata tagliata l’erba del prato è incredibile, ti lascia di stucco tant’è inglese.
  «Si sta facendo tardi», dice Elena, «forse è ora di tornare».
Ci teniamo mano per mano e ridiamo -baci & sapore- passeggiamo a lungo cercando di trovare l’uscita, camminiamo superando alberi e cespugli, un coniglio scappa lesto.
  «Ma quanto è grande questo parco?», domanda Elena.
Procediamo adesso più veloci, un pochino preoccupati.
  «Guarda!»
Davanti a noi, d’improvviso, si erge un bosco fittissimo, nero come la notte più nera.
  «Ho paura», sussurra Elena stringendosi a me.
  «Non devi, vedrai che adesso troviamo l’uscita».
Il vento si alza trascinando via le foglie e i colori cambiano. Il marrone avanza prepotente e un brivido mi assale.
  Un bambino e una bambina si avvicinano a noi.
  «E voi due da dove spuntate?», chiedo spaventato.
I bimbi non rispondono, ci guardano solo terrorizzati. La ragazzina ha lunghissimi capelli biondi, pelle bianchissima e degli occhi di un colore incredibile, come se lo smeraldo di tutto il mondo l’avesse trafitta; è vestita con una camicia da notte bianca. Mi guarda e sembra, per un solo attimo, scongiurarmi. Poi un ululato, un ululato dal bosco. I bambini fuggono via.
  «Fermi!», urlo.
Ma loro corrono corrono corrono e scompaiono fra le tenebre scure.
Un grido disumano si alza forte, dal punto più buio.
  «Cosa facciamo?», piange Elena.
  «Dobbiamo… dobbiamo raggiungerli, non possiamo lasciarli soli».
  «Vuoi entrare? Vuoi andare nel bosco? Si sta facendo buio…»
Guardo Elena un secondo, la voce quasi trema. «Vedrai, non ci succederà niente.»
  Ci addentriamo nella selva fitta e lugubre, alberi alti e spettrali sembrano seguirci. Il corpo è contratto dai singhiozzi e quando scorgo gli occhi gialli che ci spiano faccio un salto indietro.
  «È solo un topolino», mi dice Elena stringendomi forte la mano.
Poi qualcosa.
Qualcosa si muove alle nostre spalle
Mi giro di scatto.
Un burattino senza braccia ci osserva penzolando.
  «E questo da dove spunta?!?», grida la mia ragazza quasi strappandomi la carne.
Rimango immobile, pietrificato. Chiudo gli occhi un secondo sentendo il sangue che scorre veloce nelle vene.
  «Guarda! I due bambini!»
Elena si volta. «FERMATEVI!», urla.
Mi guarda.
Per un attimo, uno solo lo giuro, non riconosco quello sguardo. Sono i suoi occhi a colpirmi, occhi di ghiaccio, occhi che spaventano. Per un secondo soltanto rimane immobile, come se una lama l’avesse passata da parte a parte, poi, d’improvviso, lascia la mia mano, molla la presa e corre nell’oscurità.
Odore di marcio.
  «ELENA!», grido con tutte le mie forze. «ELENA, DOVE VAI?»
La sento urlare nel buio, grida selvaggia il mio nome gelandomi il sangue. 
  «Elena!», corro piangendo
Il cuore batte forte, sembra scoppiare.
La pelle formicola.
I pensieri galoppano raggrumandosi.
  Mi faccio largo fra le erbacce e la sterpaglia, mi pungo con una pianta spinosa.
  Freddo.
La vegetazione si fa sempre più fitta, un gufo echeggia in lontananza. I bimbi ridono.
  Perché ridete? State zitti MALEDETTI! STATE ZITTI!
Ma loro continuano, è un riso malvagio che rimane intrappolato nelle mie orecchie, che arriva dritto al cervello e mi colpisce spaventandomi a morte.
Stringo forte gli occhi, devo trovare Elena.
  Il vento si erge alto sussurrando il mio nome. Mi chiama e mi trascina facendomi graffiare.
   Elia.
Una casa. Pareti grigie, tetto scuro, finestre polverose.
  «Elia…» sento gridare dalla catapecchia.
Non è un grido, è più una supplica, una scoraggiata richiesta d’aiuto.
  «Elia, vieni da me, non mi abbandonare ti prego…»
Elena.
Cammino veloce.
La casa. Sembra più grande, pare quasi gonfiarsi.
I due bimbi si parano davanti la porta d’entrata. «Signore», dicono insieme, «signore, non entrare. È brutto lì dentro. Non entrare…»
Porta rossa e decrepita, cosa nascondi?
  È immensa.
  È nera.
  «Lasciatemi passare», dico, «chi siete?»
  «Non entrare signore, scappa via», dice la bambina dai capelli biondi.
Ma io non l’ascolto, l’unica cosa che voglio è ritrovare la mia donna. Spingo via i due ragazzini e spalanco di colpo la porticina.
  Sono dentro.
La stanza è buia, nera.
Non vedo niente.
Rimango fermo, aspettando che la vista si abitui all’oscurità.
  «Elia…»
Cammino piano.
Si gonfia e si sgonfia.
Il alto. Scale a chiocciola. Tasto il bordo, ruggine.
Salgo.
  Tic tic tic
Corro, faccio due scalini alla volta, salto.
  Paura.
  Freddo.
  La milza scoppia.
Una porta.
  «Elia».
  «Elena!»
La porta è rossa.
  Tiro la maniglia, non si apre.
  «Elia».
  «Sto arrivando!»
Do una due tre spallate e la porta viene giù.
  Vuota. La stanza è completamente vuota. Solo il grigio delle pareti e la muffa prepotente e l’odore nauseabondo di putrefazione.
  Tic tic tic
Mi giro di scatto.
 Decine di persone in camicia di forza camminano meccaniche.
  «Chi siete? Cosa volete?»
Ma loro non rispondono, continuano solo la loro danza macabra; sembrano… sembrano quasi burattini... sbattono contro le pareti e riprendono a camminare, come automi. Un uomo si avvicina a me, lo guardo, gli occhi sono morti, spenti, senza vita.
  Non capisco.
Poi la vedo, la vedo sfuggente fra tanti, la vedo e la raggiungo ansimando. «Elena», dico felice.
Ma lei non reagisce.
  «Elena, sono io… Elia… Elena…», dico scuotendola.
Elena cammina, sbatte contro il muro grigio, si volta.
Questa ragazza non è lei. Elena, dove sei?
  Esco dalla stanza.
Sento ridere, un ghigno. Un ghigno.
  Guardo in alto e, in cima alle scale, una vecchia dalla gobba   prosperosa mi osserva divertita. «Vieni», dice stridula, «Non aver paura».
  Sembra quasi nonna Concetta, solo più brutta, molto più brutta.
Corro, poi mi fermo.
Potrei sempre.
Potrei sempre tornare indietro, scappare via. Scappare da questo incubo maledetto…
  In cima in cima.
Elena, dove sei?
  Respiro affannato. Una porta, l’ennesima.
Un grido alle mie spalle, mi volto.
C’è un bambino.
C’è un bambino completamente nudo.
C’è un bambino completamente nudo che piange abbattuto.
  «Perché?», piagnucola. «Non entrare», dice passandomi avanti, «entrerò io al tuo posto». Apre la porta richiudendosela alle spalle.
  «Aspetta!» urlo tirando la maniglia.
Sono dentro.
  «Io… voglio solamente ritrovare la mia ragazza, Elena. Si chiama Elena. Lei, lei stava giù. In quella stanza. Insieme ad altra gente… ma non mi rispondeva. Non so, non era lei. Se mi dici dov’è ce ne andiamo subito. Ti giuro, non dirò niente a nessuno…»
Rimango in silenzio, dov’è finito il bambino?
  Mi guardo intorno. Ci sono immense scatole di vetro blu a forma di bara sparse in tutta la camera, scatole lunghe un metro e mezzo due metri al massimo.
E dentro le scatole…
dentro le scatole corpi umani dormono persi.
Mi volto di scatto, premo contro la porta.
  Strane parole sono dipinte rosse sul muro. File di manichini senza testa sono appesi al soffitto, ondeggiano, come cullati dal vento. Ce n’è uno vestito come me, uno vestito come Elena.
  Giro per la stanza, attorno alle bare di vetro.
Elena dorme. Dormi o sei morta? Elena dorme bellissima. Premo disperato contro la bara di vetro dove giace il suo corpo. «Elena!», urlo. «ELENA!»
Ma lei non risponde. Non può sentirmi.
  Che posto è questo?
Vecchia, dove sei? Dove ti nascondi? Avverto la tua presenza. Mi spii?
  Poi vedo una bara vuota e capisco. È per me. Mi sta aspettando.
Alzo il coperchio con movimenti meccanici. Mi infilo dentro, mi sdraio. Chiudo il coperchio. Chiudo gli occhi.
E, dal nulla, decine di bambini invadono la stanza ridendo. «Mamma», gracchiano. «Mamma, dove sei?»
Cantano i ragazzini: «Questa è la stanza del sogno, fai un grande girotondo, non aver paura, non c’è una cura. La stanza del sogno, sali su, scendi giù, fai un pò come vuoi tu. Fai un grande girotondo nella stanza del sogno. Se un pochino vuoi giocare attento devi stare, non ti fare acchiappare quando devi ballare. In paradiso dovresti andare, non restare!»
Li sento lontani, sempre più lontani. Il corpo si irrigidisce, come fosse di legno.
  Non. Sono. 
Ed eccomi nella camera in camicia di forza insieme agli altri.
Elena mi bacia. «Ben arrivato», dice.
  «Dove siamo?»
  «In un sogno. Apri gli occhi». 

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