martedì 22 aprile 2014

CICATRICI



  Quel che mi è successo un paio di giorni fa.
  Quel che mi è successo un paio di giorni fa ha, lo giuro, dell’incredibile. Quindi, Amici & Amiche, ve lo racconto. Ché ultimamente succedono tutte a me.
  Okay, ecco la storia.
Cammino tranquillo per le vie del centro, precisamente Piazza Bologna, che qualcuno dirà che non è centro centro ma vi assicuro che, per uno che abita a Trigoria, è centro centro. ‘Nsomma, cammino, un passo dietro l’altro, un pochino a papera -i piedi dico- e guardo le vetrine e guardo pure le persone. Mi piace guardare le persone, gli uomini dal passo spedito, la ventiquattrore in mano; le donne attempate, un pochino rugose; i bambini pancioni con il gelato vaniglia e caramello che sgocciola sul cemento. Mi piace esaminare, osservare, studiare. Mi piace la puzza di smog, l’odore superstite della primavera, i profumi del forno. Adoro girare insomma, con la sigaretta in bocca e gli occhiali da sole. Così non mi vedono che li guardo. Oh sì, perché io osservo tutti, io osservo tutto. Per questo prendo la metro. Per osservare. Ma quel che sto per raccontarvi non avviene nel vagone puzzolente della metropolitana, no. Avviene in strada. È la più bella giornata di sole dal cambio di stagione, i pappagalli romani volano nell’aria e i piccioni aspettano la mollica di pane, non c’è uno sprazzo di nuvola e il cielo è di un blu che ti lascia allibito. Cammino e i pensieri vagano assieme ai neuroni. Cammino e guardo e nessuno fa caso a me. Nessuno tranne Lui. Lui mi scruta, come io scruto loro. Lui mi segue, di nascosto, appollaiato tra i muri incatramati. Lui mi fissa, lo sguardo perso. È una presenza oscura che si annida lungo le automobili parcheggiate. Si nasconde guardingo senza essere visto. Potrebbe essere invisibile. Potrebbe non avere denti, occhi, viso, braccia e gambe. Potrebbe. Lui mi spia. Forse qualcosa nella mia testa frulla, ma è più al livello, come dire, inconscio.
  È il vento a cambiare la mia percezione, a farmi spengere la sigaretta. È come se di colpo ogni cosa rallentasse, come quando fai un incidente e tutto, tutto, scorre più lento. Dura un attimo certo, ma in quell’attimo io so che qualcosa di strano sta per succedere.
  Attraverso la strada.
Mi volto.
Lui è lì.
  Lo guardo.
  Mi guarda.
Affretto il passo.
Affretta il passo.
Il cuore è il primo ad accelerare.
  “Stupido”, penso.
Però la paura la sento. Irrazionale, ma la sento.
  Ancora di più.
I piedi adesso atterrano veloci.
  Imbocco la via laterale, quella vicino al parco.
È dietro di me.
  Corro.
  E lui corre.
Entro al bar, mi volto. Aspetto. Dieci minuti forse. Mi faccio coraggio ed esco. Lui è ancora lì, davanti ai negozi. Ha un impermeabile scuro e una cravatta rossa. Il viso è magro, asciutto e gli occhi sono neri come la notte; ha dita lunghe e affusolate, scheletriche. Trema un pochino. Mi mostra i denti e corre.
  Una passo indietro.
Mi è addosso, più veloce della luce.
  «Prendimi la mano», dice con voce rotta.
Mi morde sul braccio. Stringe i denti e affonda.
  Urlo. Un grido forte, sovraumano.
Li sento.
Li sento i canini che s’immergono sulla carne viva, nuda. Li sento scendere in profondità e continuare continuare continuare.
  Non si toglie. Morde e stringe gli occhi. Calcio. Il dolore è forte e il sangue comincia a sgorgare dalla pelle.
  «LASCIAMI!», provo a urlare.
Niente.
Lui affonda.
  «STACCATI PEZZO DIMMERDA!»
Lo colpisco una volta con un cazzotto ben assestato. Ma non sono forte. Non io. Non io che non ho mai fatto a botte.
  «Smettila ti prego ti prego ti prego».
  Ancora.
  Più giù.
Attorno le persone guardano allibite, una bambina sorride.
  Ogni cosa. È lenta.
Il dolore mi assale, una fitta che parte dal braccio destro, si protrae su tutto il corpo e sale lungo il cervello, divaricandosi in mille arterie luminose.
  Aiuto.
Lo guardo negli occhi, due enormi cavità nere, impenetrabili.
  Devo togliermelo di dosso. Lo devo staccare, quest’uomo che sembra un cane, no, non un cane, un lupo. Una Bestia feroce che vuole mangiarmi.
  Con la mano sinistra afferro la sua fronte e la tiro indietro, con il braccio destro premo verso di me. Sento la carne strapparsi, i denti scivolare sulla pelle fresca.
  Prova a saltarmi addosso di nuovo, ma viene bloccato da quattro passanti. Scalcia e urla, urla e scalcia.
  Cado indietro, un tonfo orribile. Mi guardo il braccio, la ferita aperta, gonfia, il segno perfetto della dentatura, le chiazze rosse e nere, violacee.
Ogni cosa è lenta, immobile.
Il braccio pulsa.
Gli occhi si riempiono di lacrime.
  La polizia in divisa ferma l’uomo, l’ambulanza a sirene spianate accorre in ritardo.
  Lui mi osserva e sorride. «Guardati le spalle, sempre», balbetta.
Poi viene portato via, legato per bene, i denti aperti, il ringhio perfetto.
  Mi chiedono se ho bisogno di cure.
  Io non parlo.
La paranoia di essermi beccato qualcosa sempre più forte.
Mi rassicurano. Mi portano via.
  Ho un braccio tumefatto.



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