sabato 19 aprile 2014

IL DENTISTA



  C’è una stanza. Nella stanza c’è un comodino con due riviste, una sedia rossa, delle pareti verde ospedale, un tappeto e tre luci troppo forti.
  Aspetto.
Il dolore è forte, acuto, cattivo. Parte dal dente e si protrae su tutta la bocca. Scende giù, lungo la gola, e risale pulsando.
  È una carie. Una maledetta carie nera.
La sento  -ti sento!- muoversi di notte, quando bevo il sorso d’acqua gelata, la sento -ti sento!- gioire mentre addento il panino, la sento -ti sento!- pulsare infame ogni volta che lecco un gelato.
È lei, è la carie.
Ti odio.
La Signorina della reception mi guarda un attimo. È magra e ha una tutina verde, aderente, che le evidenzia un po’ le forme. Un po’, non troppo.
Apro la rivista di Moda & Casa. Va di moda il minimalismo minimale. Sfoglio. Aspetto.
  «Prego, Signor Mangiaboschi. Mi segua».
Mi alzo facendo scricchiolare la sedia rossa. Non sorrido a nessuno, non c’è nessuno.
  Musica da camera.
Supero stanze.
Tre porte.
Passi lenti.
Sbircio.
C’è un uomo sdraiato, la bocca spalancata da due molle, gli occhi rossi, disperati. Mugugna. Il dentista lo guarda un attimo, poi si china, la lama affilata sulla gengiva malandata.
  Odore di disinfettante.
Tremo.
Odio venire qui ma c’ho ‘na malattia del cazzo e ogni tanto mi tocca starci. Cioè, venirci.
  «Arrivati».
Mi sdraio. Il lettino è bianco, puro, candido. Provo a rilassarmi.
  Inspira-Espira
  Inspira-Espira.
Bravo.
Una
Due
Tre
Quattro
Cinque
Una due tre quattro cinque dita. Contrai la mano. Stringi.
  La luce si accende e mi punta. Non vedo niente. Il cuore martella contro il petto, si fa largo sbattendo tra la carne.
  Eccolo, il dentista, l’allegro chirurgo della bocca. Il cinico strappa denti. Inforca gli occhiali di plastica, mette la mascherina nera e mi scruta, in silenzio.
  «Lei», comincia, «non si lava i denti».
L’assistente annuisce.
  «Li lavo», provo a protestare.
  «Signor Mangiaboschi vede, la bocca è tutto. la bocca è e-ssen-zia-le. Me lo lasci dire, la sua fa schifo. Apra.»
Guardo gli attrezzi del mestiere posizionati davanti ai miei occhi. Il sadismo dei dentisti, farti vedere gli attrezzi che usano. Apro la bocca.
  «Divaricatore. Signor mangia boschi, mi deprime. Dovrebbe presentarsi ogni tre mesi. Dovrei vederla, lei dovrebbe… correre. E invece. Ecco qua, il risultato della sua, come dire, negligenza. Una carie. I suoi denti fanno schifo. Siringa.»
  Un infarto. La milza scoppia. Il braccio sinistro comincia a formicolare. Cazzo qui dentro ci muoio.
  Al dente malato vengono applicati due cerchietti di ferro. L’assistente passa gli attrezzi.
  «Guardi, le faccio vedere. Osservi».
Il mio dente compare nel maxischermo.
  «Morto. O quasi».
Lacrimo.
IL DENTE E’ MORTO! LUNGA VITA AL DENTE!
  «Possiamo salvarlo, forse. Ma lei Mangiaboschi non usa il filo interdentale! Ah, voi giovani, pensate che tutto vi sia dovuto, credete nell’immortalità. Ma vede, l’essere umano è come il dente, prima o poi cade. Trapano.»
E lo fa. Nel silenzio della sala l’unica cosa che si avverte è il suono del trapano sul mio dente, il fischio prepotente, la dentatura intera che vibra, le gengive che lacrimano sangue.
  «Beva», ordina l’assistente.
Odore di bruciato.
  Bevo.
Di nuovo. Il dentista mi osserva in silenzio. Trapana. Trapana trapana trapana.
  Io non sento più niente, non avverto più niente. vado via, in un mondo tutto mio. Mi rifugio nel suono, conforto nella monotonia. Io sono Nulla. Seguo i colori del cielo, spio dalla finestra, dai vetri sporchi, il pappagallo che vola nell’aria.
  Sapore di sangue.
  Chiudo gli occhi.
Sento ridere.
Ridono tutti.
Rido anche io.
Vorrei
parlare.
Ma non posso muovermi.
Bloccato dalla testa ai piedi.
  «Tocchi», mi incita il dentista, «tocchi con la lingua».
Eseguo senza riflettere, la punta della lingua a tastare il buco nero, profondo, senza fine. Se spingessi ancora un poco potrei sfiorare la gengiva, la carne viva. Sarei libero di vagare per le vie della bocca, alla ricerca della perfezione. E invece… invece il dentista ha fretta di richiudere il buco.
  Nidi di scarafaggi. Case di smalto. Microbi d’ovatta.
A me l’anestesia mi fa.
Schifo.
A chi la vuoi dare a bere. Adori l’anestesia.
  Hmmm.
  «Che colore preferisce?»
Posso scegliere tra mille tonalità di bianco. Bianco ovatta, bianco sporco, bianco neve.
  Cerco di immaginare il mio dente con il nuovo colore. Scelgo.
Vengo aggiustato, piano piano, e il sangue imbratta il pavimento, impuzzolentisce i camici, divide i corpi.
  Cristo che male.
  Volevo l’anestesia.
Mi alzo.
Zoppico.
Non dovrei zoppicare.
Stringo la mano al dottore. Guanti in lattice. Saluto tutti. Pago. Mi volto un attimo, a guardare il bambino con gli occhi sbarrati e le mani strette attorno a quelle del padre. Sorrido. E dalla bocca sgorgano litri di bava.

1 commento:

  1. Questa cosa mi fa ridere, rabbrividire e mi viene voglia di farti *pat pat* sulla spalla: mi ricorda i 2 mesi infernali passati ad apprendere il lavoro di "segretaria & assistente alla poltrona"... l'inferno... ^_^

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