Allora, c’è questo bel bosco tutto pieno di alberi e foglie e animali.
Ci sono i grilli, le farfalle e, se aguzzi bene la vista, pure un paio di
cervi.
Poi ci siamo noi: Anita ed io. Anita come al solito è bellissima,
attraente, semplice e sensuale al tempo stesso. Insomma, tutte le smancerie
mielose a cui vi ho abituato in questi ultimi mesi (che poi riflettendo ormai
sarà un anno che vado appresso a ‘sta tipa).
«Già già, una bella giornata», mi fa Ganesh.
Dimenticavo, come al solito nei momenti
romantici c’è sempre di mezzo lui, il mio simpatico amico immaginario.
«Sì, ottima direi… ‘fatti potresti pure andare a farti una passeggiata
da solo, in solitaria… ad annusare le margherite e a cercare i topi».
«Ma no, lascialo stare con noi, è così simpatico.»
Beh, certo, simpatico è simpatico, visto
che è roba mia, però a me l’intimità la toglie lo stesso. Sono anni che mi
toglie intimità. Come quella volta, in camera della ragazza da poco conosciuta,
ad un simpatico party universitario, ubriaco al punto giusto, con i pantaloni
mezzi slacciati; che mi compare lui no? Con la sua capoccia d’elefante, a darmi
consigli su come indossare il preservativo. Ecco, ogni tanto sarebbe meglio
rimanesse fuori dal giro mio, giusto ogni tanto. Solo…
Un momento…
non è possibile.
«Beh, mo chi ti credi di essere? Non è che sei tu ad aver scelto me eh…
sono io che ti ho selezionato tra tanti. Potevo essere l’amico di Kudjoe
Affutu, noto artista ghanese, o di Sif Aradòttir, bellissima modella islandese,
o di Matt Baker, l’attore americano, o di Mark Daigneault, l’allenatore di
pallacanestro statunitense, o di Giorgia Farina, la sceneggiatrice dico, o di
Oscar Gatto, ciclista come te ma un tantinello più conosciuto, o di Alfred
Aboya, o anche di Damien Bodie, Peter Gadiot, Marcus Sahlman, Mohamed
Zemmamouche, Mateuz Bartel, Lenora Crichlow, Dan Cage, Zoran Erceg, Magda
Culotta, Aura Dione, Sergej Grankin. Tutti più famosi di te, li menziona pure
Wikipedia tra quelli nati nello stesso anno tuo. E invece ho scelto te. Che poi
lo sai bene, se non stai su Wikipedia non sei nessuno.»
«Ora non esagerare», sorride Anita, «Elia è simpatico. E fa ridere.»
Ecco, è proprio questo che non capisco.
«Cioè tu…?»
«Io?»
«Lo… lo senti?»
«Chi?»
«Ganesh…»
«Aho, ah bello. A sentissela
calla così poi t’ammazzi eh.»
«Scusa testa d’elefante, non ce l’ho con te… solo che tu… voglio dire,
cioè, stai nella testa mia… o no?»
«Anita mi vede».
«E lo sento pure».
«Ma lui… tu… non è reale…»
«Ogni tanto sai essere veramente crudele».
Oh
oh.
Qui sto andando fuori di testa. Veramente di brutto. Ganesh l’ho pensato io, è
il mio confidente, l’amico immaginario. Rispetto ad altri manco ci sta da tanto
tempo. Per dire, il Criceto in confronto è un veterano, ché lui mi segue da
decenni ormai. Ganesh me lo sono portato dal Nepal, credo.
Ohmmioddio. Cosa ho fatto?
Ora capisco tutto!
La furia divina si abbatterà su di me!
Tutte le divinità indù mi verranno a cercare! La potente Kali mi ucciderà!
Dovrò scappare per sempre, braccato, costretto ad una vita di segretezza! Sarò obbligato
a cambiare nome e a chiamarmi Marco Rossi! Cristo! Ho rapito il potente Ganesh
e manco me ne sono reso conto! E in Nepal mi so’ pure ammalato! Saranno state
le sanguisughe. Eccome.
«Ho invocato un dio Anita. È meglio che tu fugga. Scappa finché sei in
tempo!»
«Sempre al centro dell’universo eh? Sono io ad averti scelto. Mi mostro
a chi voglio…»
«Ganesh, non è che qualcuno ci ha seguito? Senza offesa, ma tu sei un
po’ la divinità buffona…»
«Bada a come parli misero uomo…»
«Scusa.»
«Ehi, guardate là». Anita indica un punto indefinito del bosco. Seguo il
dito e lo vedo, un piccolo gruppo di uomini sta danzando attorno ad un fuoco.
«Andiamo!»
«No, aspetta…»
Cazzo stavo così bene, okay Ganesh che
si fa vedere dalla ragazza ma addirittura il party della foresta no, altro che
intimità.
Già, che poi com’è che ci sono finito qui dentro?
Corro anche io, seguendo l’(ex) amico
immaginario e Anita. Poi mi blocco di colpo e sbarro gli occhi. Per un secondo
il cuore cessa di battere. Trattengo il respiro. La gente che balla fa
impressione. Danzano attorno al fuoco solo uomini gobbi, vecchi e con i vestiti
a brandelli. Ridono senza denti e allungano le dita ossute verso il cielo. La
fiamma piroetta nell’aria creando strane forme innaturali.
Ogni cosa muta.
Il buio cala improvviso, come fossimo in
un cartone animato per bambini. Anita si blocca, Ganesh fa lo stesso. I vecchi
non fanno caso a noi, continuano a urlare al cielo come pazzi. Qualcuno trema,
qualcun altro cade a terra sfinito. Un vento sottile si leva nell’aria, creando
uno strano suono, un ululato lugubre. Gli uomini alzano e abbassano le braccia,
strappandosi di dosso i pochi stracci che ancora li coprono. Mostrano corpi
scheletrici, tisici, scavati.
Cazzo
sicuro sono venuti a prendere Ganesh. «Fatti indietro testa d’elefante, ci
penso io», dico già leggendario (più per far colpo su Anita che per vero
coraggio). Lei mi osserva. Sicuro penserà di avere accanto un eroe dotato di
molta immaginazione. Un buon padre per una futura prole, un brav’uomo.
No, un brav’uomo no.
I vecchi però non ci degnano di uno
sguardo, continuano solo la loro danza macabra, come se non esistessimo, come
se fossimo invisibili.
«Guarda i loro occhi», mi fa Anita.
Buchi. Fosse lugubri. Nere. Senza niente
dentro, solo carne scavata.
Sorridono e ad ogni sorriso cadono denti. Solo ora noto che a terra una
massa di denti marci fa da pavimento. Denti di tutte le forme e le dimensioni.
Canini, incisivi, molari.
Alzano le braccia, allungano le dita. Cosa tengono in mano?
Sono… rospi.
Ogni vecchio stringe un rospo con forza, fin quasi a stritolarlo.
«Forse sarebbe meglio andare…», dice Ganesh.
Ma è troppo tardi. All’unisono si voltano
verso di noi. «Siete arrivati», gracchiano. «Mangiate». Ci porgono gli animali
ancora vivi. «Mangiate, è per voi». Alle loro spalle scorgo adesso strane
figure, manichini impiccati, pupazzi di legno e… gli abitanti della Stanza dei
Bottoni: Grande Puffo, Karl Marx, Sigmund Freud, Superstellino, Yogi Bhajan, il
Criceto, Mastro Lindo. Sono tutti lì, immobili, bloccati da una lunga ragnatela
aggrovigliata. Bakunin allunga la mano verso di me. «Mangia», geme. Dall’albero
più alto scende l’immenso ragno.
La Stanza dei Bottoni non c’è più.
Mi sento…
perdere.
Il vecchio mi porge il rospo.
«Sono vegetariano…»
«Saziati», sibila la Kundalini dal ramo scheletrico. «Succhia…»
Anita mi osserva.
«È il frutto proibito», dice un tizio dai capelli bianchi cavalcando un
delfino con zampe di cavallo. «Assaggialo».
Non posso, io la carne non la mangio.
Una vecchia compare dal nulla, ha capelli grigi che le cadono lunghi
sulle schiena toccando terra. È nuda e il seno le scende giù, fin quasi
l’ombelico; è così magra che pare quasi di poter vedere le ossa. La pelle è
scomparsa, sembra trasparente. Le unghie dei piedi raschiano a terra spezzate,
sbattendo contro il pavimento di denti. Mi dà un coltello con una strana
incisione sul manico. «Sbuccia».
Lo afferro e spello il rospo, togliendo la pelle soffice come la buccia
di una mala. La vecchia afferra quella che, in questo momento, mi sembra
proprio una mala. «Ora succhia», dice spremendola.
Avvicino le labbra al rospo.
Avvicino le labbra alla mela.
E succhio.
Il liquido nero cola dalla bocca e
scende giù, lungo il torace.
Mi volto. Anita e Ganesh sono scomparsi. I vecchi urlano a squarciagola
mangiando gli animali e sbavando sangue nero.
Chiudo gli occhi.
Sono sdraiato in un letto.
Non posso muovermi.
Non posso parlare.
Non posso respirare.
Le mani sono posate al centro del petto.
Ho un vestito nero.
Cristo.
Cristo sono morto.
Decine
di persone indossano abiti lunghi e bianchi, le teste avvolte da spessi
turbanti.
Né suoni.
Né odori.
Anita mi guarda.
Sono vivo! Sono vivo!
Ma non può sentirmi.
No.
Non lasciatemi.
Sono vivo!
Ci sono i miei genitori, mia nonna, i colleghi, i compagni di sbronze,
gli amici di sempre, i vicini di casa.
Simone, il mio coinquilino, si avvicina e mi accarezza. «Non sei reale»,
mi sussurra all’orecchio. «Non sei reale».
«Ora inspirate», dice Anita, «ed espirate…»
La Kundalini, il sacro serpente, esce
dalle bocche degli invitati e mi mangia.
Sono dentro, nel ventre.
Annaspo nel viscido.
Succhi gastrici.
Cammino a quattro zampe, il vestito buono, quello del mio funerale,
macchiato di strani liquidi verdi. In lontananza c’è una casa, è una piccola
casetta in mezzo al bosco e del fumo esce dal camino. Attorno è tutto nero.
Busso tre volte, poi due, poi tre.
Di nuovo.
Screeek, cigola.
La casa è immensa, molto più grande di
quel che pensassi. Una lunga scala a chiocciola sale all’infinito, piani e
piani e piani.
Salgo.
«C’è nessuno?» urlo.
Sono solo.
Una porta scricchiola.
Sbircio.
C’è un uomo. È seduto davanti ad un computer, la schiena curva e il
mento tirato in avanti. Batte i tasti, li pigia con forza. Ha una cravatta
logora. Lavora incessantemente, da buon impiegato. Timbra scartoffie e compila
ricevute. Sul tavolo una fila immensa di fogli da riempire si fa beffe di lui.
Non si gira mai ma ad ogni foglio la sua schiena si piega un po’ di più. Piange.
Si volta. Sono… sono io.
Esco di corsa.
Ancora, un’altra porta.
Alle medie. I bambini urlano e ridono, additando un bambino più piccolo,
quello che fa i fumetti. Qualcuno mi sputa sopra.
Ne apro un’altra.
C’è una macchina da scrivere immensa e
un ragazzo che prova in tutti i modi ad usarla. Ma è troppo grande e lui non ce
la fa. Non ci riesce, non può.
«Lo sai», mi fa Ganesh, «che devi stare tranquillo sì?»
Le scale a chioccola non finiscono mai.
Solo ora mi rendo conto che sui muri sono spillati con graffette arrugginite
decine e decine di rospi.
«Forse dovresti svegliarti, che ne pensi?»
«Non… non ci riesco amico mio. Non posso. Ho bisogno di bere.»
Dalla bocca sgorga il liquido nero,
denso.
Ecco Anda la portinaia venirmi incontro. «Li senti Elia?»
Sì, i tacchi della vecchia del piano di
sopra. Battono a qualunque ora del giorno e della notte.
Ticchettano.
«Anda, ho bisogno d’acqua», gemo.
«Chiedi al Vecchio, colui che riscuote l’affitto.»
La porta oscura.
La apro.
«Salve…»
«Dovresti pagare», dice una voce nel buio.
«Prometto che pagherò. Non ho soldi adesso, solo i buoni pasto.»
«Mi ricordi Lui. Ma Lui non c’è più».
Note di pianoforte.
«Acqua, la prego…»
«C’è un tubo.»
Le pareti si allargano e si stringono.
Mi comprimono.
Questa casa… è immensa.
«Voi giovani. Senza futuro, senza speranze, buoni solo a succhiar
rospi».
Decine di serpenti nascono dalle pareti. Mi parlano. «Mangiabosssssssschi… Mangiabosssssssssssssssssssssssschi… Mangiabosssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssschi».
«Io… vi ho salvato…»
«Bevi», mi fa Il Vecchio.
Artemio, l’amico bastardo di Anita, mi
passa il tubo verde, di plastica.
Lo metto tra le labbra. Le mie mani si muovono da sole e continuano ad
infilare il tubo. Artemio gira la manopola. Tracanno.
Spalanco la bocca, il serpente schizza via. Sputo. Dalle labbra spuntano
rospi e zampe di scarafaggi.
«Svegliati… è troppo per te. Apri gli occhi», bisbiglia Anita
all’orecchio.
Spalanco gli occhi.
Sono sveglio.
Mi guardo attorno. È tutto in ordine. Il
letto, la stanza, la scrivania.
Allungo la mano alla ricerca dell’acqua. Stringo lo sguardo osservando
il braccio.
Poi lo sento, il prurito.
La schiena contratta.
Mi tocco le zampe, il corpo viscido, squamoso.
Allungo gli arti e faccio un grande
salto in avanti.
I pensieri volano via.
Guardo in alto. Un giovane con la bocca
viola mi osserva disgustato, ha in mano una forchetta e un coltello con una
strana incisione.
Lo osservo meglio. I capelli scuri, il
corpo magro… quello… sono io!
«Sono vegetariano», balbetta.
«Mangiaboschi», dice Il Vecchio al ragazzo, «mangia la rana».
Elia allunga la forchetta verso di me.
E mi mangia.
La prossima storiella esce martedì 31 maggio...
Ciao, anch'io alle volte ho degli incubi reali...per fortuna c è qualcuno che mi sveglia...ma il domani non è più lo stesso...
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