martedì 31 marzo 2015

MISTER X



  Sembrava un gioco all’inizio, uno spiacevole gioco, troppo tardi ci rendemmo conto che non era così.
  Eravamo giovani allora, giovani e inesperti. Come potevamo sapere che il caos ci avrebbe inglobato a tal punto?
  Ora, Amici & Amiche, mettetevi comodi, afferrate una sedia e sedetevi. Ma restate vigili mi raccomando, la storia sta per cominciare.
  Andiamo con ordine:
Ci troviamo a Trigoria, allegro quartiere dell’estrema periferia di Roma. Negli ambienti più rinomati Trigoria è conosciuta soprattutto per gli allenamenti della Roma (che qui viene più semplicemente chiamata ‘a Magggica). A Trigoria, Fratelli & Sorelle, i laziali non possono mettere piede e i bar, tutti i bar, hanno almeno una foto di Totti. Oltre che per via della Roma Trigoria è famosa per il Campus Bio-Medico dove tutte le mattine volenterosi studenti si recano per seguire le lezioni e bighellonare un poco in giro. Alcuni palazzinari dall’aspetto inquietante hanno visto lungo e, in poco tempo, hanno messo su una serie di palazzi di cartapesta adatti alle esigenze dei ragazzi, delle famiglie novelle e di chi non può permettersi un affitto salato. In uno di questi palazzi (che in verità è un po’ più vecchio degli altri, avrà forse quindici anni) ci vivo io (il vostro affezionato Elia Mangiaboschi) e il mio coinquilino (Simone). Il mio è un palazzo come tanti, a più piani, pieno di gente e pieno di anziani (che non si sa perché debbano stare proprio nel palazzo mio). Credo infatti che tutti i vecchi del quartiere vivano qui, rinchiusi tra queste quattro mura. Le pareti delle case sono così sottili che, ahimè, si sente ogni cosa, anche il più piccolo rumore. Gli amorevoli nipotini della vecchia al piano di sopra sono ad esempio uno spiacevole incubo ricorrente.
  Ogni mese a riscuotere l’affitto arriva Il Vecchio, il nonno del proprietario del palazzo, un uomo di trentaquattro anni -quindi quasi coetaneo mio- (il nipote, non il nonno) che ha fatto fortuna nel mattone e che oggi, mentre gli altri trentenni muoiono di fame, può permettersi la Porsche giusto per fare il coatto con le ragazze di periferia. Il giorno in cui Il Vecchio viene a riscuotere l’affitto è per noi (come certo capirete) un incubo. L’incubo comincia alle dieci del mattino quando, ormai svegli, il coinquilino ed io racimoliamo gli ultimi spicci. Dopo aver distrutto l’ennesimo salvadanaio (un mese di risparmi da cinque centesimi ogni due giorni) cominciamo a fare avanti e indietro per la cucina. Quando finalmente il campanello suona il primo che apre trova puntuale Il Vecchio, leggermente gobbo, che ci guarda male. Ma non questo mese. Questo mese, per la gioia di noi tutti, ad affacciarsi al nostro misero appartamento è niente poco di meno che il nipote, il palazzinaro che tutto può. L’uomo, di cui per volere ignoro il nome, ha, lo ripeto, trentaquattro anni. È un bel ragazzo, con i capelli rasati sotto e lunghi sopra e con il ciuffo alla Little Tony (come vanno di moda adesso). Il viso leggermente a punta contrasta di poco con il fisico palestrato e ben scolpito e gli occhi, di un azzurro intenso, sembrano indagare ogni momento, come se potessero addirittura penetrare fin dentro l’anima del sottoposto. Ha la barba il palazzinaro, di quelle belle e molto curate, di un biondo acceso, fine, delicato quasi. Indossa una camicia scura, una cravatta stirata e dei pantaloni che, nonostante non si veda, sicuro sono di marca. Il ricco, Amici & Amiche, non ha bisogno di mostrare la scritta Dolce & Gabbana. Quando entra allunga il braccio, come fossimo amici, per una stretta vigorosa che ricambio, cercando di premere come meglio posso. Poi si guarda intorno, leggermente disgustato dall’arredamento e si siede in cucina, senza chiedere il permesso a nessuno.
  «Prego», dico non riuscendo a trattenermi.
Il ragazzo (come possiamo essere diversi noi ragazzi! Due mondi lontani e separati, uniti solo da un odio viscerale uno nei confronti dell’altro!) osserva bene la cucina e sentenzia, con voce sicura: «Va rifatta.»
  «Cosa?»
  «La cucina. È marcia».
  «Non è vero, è solo un po’ di polvere.»
  «Guardi là, le pare polvere?»
Sono culture differenti, luoghi differenti, esperienze differenti. Due universi che non possono unirsi, incompatibili ecco. Lo sappiamo tutti e tre: Simone, io e il proprietario dell’appartamento. Lui è solo, non gioca in casa, ma ha il potere, il coltello dalla parte del manico. Può permettersi, non senza un certo gusto sadico, di decidere cosa fare della nostra casa e noi, povero me, dobbiamo ringraziare.
  «C’è giusto un po’ di muffa. Vede?», dice il coinquilino allungandosi verso la maniglia che, una settimana fa, avevamo incollato con la colla (la maniglia che ora va via, strattonata da Simone).
  «Ops».
  «Ecco. Dobbiamo rifare la cucina. La maniglia ovviamente sarà a carico vostro».
La verità è che saremo sempre e comunque ospiti, non ci apparterrà mai niente. Non che io creda nella proprietà privata eh, ma non credo neanche in quella degli altri. E invece ci sono persone che hanno tutto e che posseggono pure le cose degli altri e persone che, in fin dei conti, in mano hanno solo un po’ di buffi e qualche illusione. È così che il proprietario del palazzo può decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato; può scegliere l’arredamento stesso della nostra casa. È con lui che la mia generazione dovrebbe prendersela, con lui e con i suoi simili: una razza bastarda di teste di cazzo. Questa razza, Compagni & Compagne, non ha età, c’è sempre stata e da sempre sceglie le cose sulle nostre teste, giocando a bowling con i sentimenti. Il problema è che molti di noi (che siamo la maggior parte) invece che ribellarsi se la prendono con chi sta peggio, eseguendo effettivamente il volere del padrone, sia esso politico, palazzinaro o datore di lavoro. È così, funziona sempre così, da sempre.
  In quattro e quattr’otto il giovane, stringendo bene il nodo della cravatta, sceglie e decide che, da qui ad un paio di settimane, vivremo in mezzo ai calcinacci. «Non lo faccio per voi», sorride uscendo (e dopo aver riscosso l’affitto), «ma per chi verrà dopo di voi». Annuiamo a testa bassa, consapevoli della sconfitta. Abbiamo belle parole Simone ed io, siamo bravi affabulatori ma poi la verità è che, come tutti, siamo dei perdenti. Perché non andarcene, non mandarlo a quel paese e non toglierci finalmente più di un sassolino dalla scarpa? Semplicemente: non possiamo. Qui l’affitto è basso e la vita costa meno, non possiamo permetterci altro. La verità è che non c’abbiamo un euro. Fanno ridere a me i tizi in televisione che parlano ancora di generazione mille euro. Oggi la generazione mille euro sta messa bene, è tipo media borghesia, noi stiamo sotto (e di molto). E visto che stiamo sotto accettiamo ogni cosa. Così poi, quando senti la vecchietta in metropolitana che parla dei giovani che non hanno voglia di far niente devi stare zitto, rimanere muto perché manco più la forza di mandarla ‘affanculo c’hai.

  Per risparmiare il nostro affitta-casa ha scelto di comprare robe Ikea, ma a pezzi, non tutto insieme, ché a pezzi costa ancora meno. Nella scelta, ovviamente, non ci ha consultato e così, nell’arco di mezza giornata, ci troviamo casa piena zeppa di operai che decidono al posto nostro. Simone ogni tanto prova ad intervenire, io no. Io rimango fermo, immobile, a guardare. Io, che adoro acchittare sistemare arredare mi trovo così, espropriato da casa mia, mentre il giovane palazzinaro indica i muri e le pareti. Semplicemente, non sono interpellato. Guarda il mio coinquilino, tra poco si stuferà; lo ammiro quasi nella sua caparbietà, come cerca di mettersi in mostra, di scegliere. È inutile, a breve ti stancherai e verrai a sederti accanto a me.
  Mi accendo una sigaretta.
  «Scusi», mi dice il ragazzo (che chiameremo Mister X d’ora in poi per maggior praticità), «il fumo uccide. Può spengerla?»
  Ed io, Cugini & Cugine, la spengo.
Gli operai nel frattempo tagliano piastrelle, incassano mobili, preparano forni.
  La nube di polvere mi assale.
  Rimango seduto e non mi muovo.
Dentro, nel profondo, sale la rabbia.
È forte ed è indirizzata tutta su Mister X. Cosa vuole a casa mia?
Simone nel frattempo cerca di solidarizzare con i lavoratori.
  “Dovremmo prenderlo a picconate”, mi viene da pensare.
Eccoci qui.
  Operai, elettricisti, idraulici, impiegati e disoccupati. Tutti quanti, tutti insieme, lavoriamo per lui. Lui dirige i lavori, pulitissimo nonostante lo strato di polvere non indifferente. Si posa ovunque la polvere, sulle posate, sulle mensole, sui piatti e sulle scodelle. Ci circonda. Ma lui, il nostro Mister X, non ne viene colpito. Qui dentro è tutto suo, ogni cosa. Non ci interpella, nonostante i vani tentativi di Simone, non ci considera. Ce l’ha fatta, è uno di quelli che ci è riuscito, perfettamente inglobato in questo sistema eppure così felice. Ammirate la sua pelle, liscia e profumata, osservategli le sopracciglia tagliate al punto giusto e poi sorridete, contemplando il torace che si intravede dalla camicia attillata. Mister X ce l’ha a morte con gli zingari, con gli immigrati, con i poveracci e con quelli come noi, che mandano in  malora l’Italia. Mister X è uno di quelli che puoi vedere seduto ai banchi del Parlamento, uno che dice che i giovani sono un branco di sfigati mammoni e che anche lui è giovane (e ama la mamma) ma che, facendosi un mazzo così, c’è riuscito. Lo puoi osservare al volante della sua auto sportiva, quando in un giorno di pioggia inzuppa la vecchietta con le buste della spesa in mano; lo puoi vedere seduto nei ristoranti da ottanta euro al piatto (una cagatina francese che manco ti sfama) mentre parla con gente come lui, o meglio con gente sotto di lui. Perché diciamocelo, chi non vorrebbe essere come Mister X, con un fisico da star del porno e i soldi che gli escono dal culo? È proprio questo il problema, l’ammirazione. Noi, la fascia povera della società, aspiriamo a diventare come Mister X, non cerchiamo la rivolta, l’uguaglianza, il sacrificio. Noi bramiamo la ricchezza. Ci piacciono le auto di lusso e  i cibi costosi, vogliamo mille donne e tanto denaro. Siamo tutti aspiranti Mister X. Per questo ce la prendiamo con chi sta peggio, come potremmo fare altrimenti? Abbiamo avuto per anni un Presidente del Consiglio miliardario, adesso ne abbiamo uno schiavo delle banche, servo dei poteri forti, che sta ulteriormente precarizzando le nostre vite, eppure ci piace. Eccome se ci piace. Mister X e il Presidente del Consiglio andrebbero molto d’accordo.
  Guardatelo adesso, il giovane che ci è riuscito:
lui comanda.
E noi osserviamo.
  Anche Simone si è stufato e si siede accanto a me.
Siamo coperti di polvere entrambi, bianchi da far schifo e con le mani che sembrano di farina. Starnutiamo un attimo, un secondo soltanto e poi ci guardiamo.
  Noi siamo sporchi. Lui è pulito.
È questa la differenza.
Però è fuori, è la pelle, l’esterno, il corpo. Dentro non è così. Dentro c’abbiamo diamanti al posto del cuore, siamo puliti da far schifo ed è il rispetto, sempre e comunque, a muoverci. Dentro siamo oro, luccichiamo. Diffidiamo da chi ha la giacca e la cravatta. Ci fanno paura quelli così, la gente in giacca e cravatta fa le cose peggiori, commette i crimini più orrendi, ruba al livello internazionale. Quindi in fondo a guardarci bene siamo bellissimi. Veniamo dalle borgate e abbiamo tantissimi amici, conosciamo tutto il mondo, ogni singolo centimetro, c’abbiamo la metropoli come patria. I nostri amici sono filippini bengalesi rumeni rom sinti indiani peruviani marocchini brasiliani. Camminiamo sicuri per strade che tu non calpesterai mai. Ci facciamo dare il prezzemolo dalla vecchia della frutteria e ci scambiamo otto parole, con la vecchia, sempre con il sorriso sulle labbra. Frequentiamo spazi luoghi posti che tu, Mister X, non vedrai in tutta la vita. In pratica la tua percezione sarà limitata per sempre, perché non conoscerai il mondo, non ne annuserai l’odore, il sudore; non farai le quattro del mattino in un centro sociale assieme alla ragazza che ami, dopo aver passato la sera nei posti più attivi della città, quelli che brulicano di vita. Non camminerai mai nei casermoni di periferia ad assaporare le storie di chi non c’ha niente. Non condividerai il sacco a pelo dentro una tenda sgualcita, coperto solo da un manto di stelle. Non leggerai un libro sdraiato sull’amaca, il sole in faccia e il vento tra i capelli. Non girerai in bicicletta, sgattaiolando tra le automobili come la tua, godendo nel semplice atto della pedalata. Non seguirai il fiume umano di un grande corteo che si ingrossa come un’onda che tutto può; non sentirai la vicinanza di quelli come te, una vicinanza vera e senza doppi fini, solo il gusto di stare insieme e di avere un ideale comune. Non sarai felice con poco, con niente, vorrai sempre tutto tutto tutto e alla fine morirai così, senza aver capito che non serve molto, che basta un nulla per farsi una risata.
  In fondo chi sei? Dove vai? La tua è una vita di paranoia, tutto qui. Hai il garage pieno zeppo di antifurti, la tua automobile ha una telecamera nascosta e un rilevatore satellitare, la villa dove abiti è isolata, lontano da tutti. Ti piace l’arredamento minimalista, minimalista cazzo. Non hai amici, ma solo leccaculo. Anche tu sei un leccaculo. Passi le giornate ad ammaliare chi è più forte di te, chi ha più di te. E per cosa? Per denaro, sempre e comunque per denaro. C’hai il pensiero fisso tu. Vivi per quello, per nient’altro. Manco sorridi. Ti vedo io. C’hai un sorriso finto da iena, da paraculo navigato. Però da ridere non ti viene mai. ‘Na bella risata forte, fragorosa, senza mano davanti alla bocca, da quant’è che non te la fai? A forza di bere vino buono in buone bottiglie hai scordato la bellezza della bettola di periferia, del pub di quartiere, dei beveraggi con gli amici fino a notte fonda. Ti droghi forse, un paio di botte di cocaina per stare su. Ma manco quella ti fa. Tu non sai cosa significa sporcarti le mani, lavorare come operaio e conoscere i tuoi compagni che non vogliono sopraffarti, che non stanno in competizione no, che sono solo compagni tuoi, tutto qui. Sei circondato da bestie feroci. Io lo so che il tuo pianeta è così. Vivi in un’eterna competizione. Quindi lo sai che ti dico? In fondo sì, mica ti invidio. Tra i due il fortunato sono io. Anzi. Rifammi pure la cucina che in fondo la muffa ce l’aveva, divertiti a poter scegliere e a sentirti un borioso-testa-di-cazzo. A me ‘sta storia qua non interessa. Io c’ho la vita mia che è incasinata e caotica ma è piena. Oh, io non dico che i soldi non servano eh. Dico che servono il giusto, quel che basta. Il troppo strozza. E ti fa diventare come Mister X, uno che poteva fare l’attore porno ma che è finito a sistemare cucine per gli altri. Quindi sì, Amici & Amiche, ché alla fine dei giochi, quando ogni cosa finirà, sono sicuro che potremo voltarci indietro e fare un bel sorriso, perché il cuore a noi ci ha sempre battuto.
  Tu tum
  Tu tum.

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