lunedì 12 gennaio 2015

SALDI



  No no no.
  No no no!
I calzini cazzo! C’hanno tre buchi belli grossi uno sopra all’altro. E crescono pure… cioè, i buchi, tipo delle cose spaziali. L’ingordo buco nero del calzino…
Maledizione.
Ma-le-di-zio-ne!
  Ahi.
  «E guarda i pantaloni…»
 «Che è?»
  «Tutti rovinati!»
  «Lo vedo Ganesh, ma non so come fare…»
  «Sembri uno straccione».
  «E tu mia madre. Ecco».
Apro l’armadio.
  Ah, quanti ricordi! Ogni indumento ha una storia, pure i pedalini, anni e anni addosso ai miei piedi, chissà quante ne hanno viste, così tante robe da raccontare, chilometri e chilometri di camminate, in giro per i boschi, lungo le fabbriche abbandonate, sulle barricate… ohhh, ma guarda un po’ chi c’è… la bella felpa nera con cappuccio comprata in quinto liceo. Ricordo ancora l’emozione nell’indossarla la prima volta, guardato con ammirazione dalle amiche delle superiori, in piena fase Uomo-Vissuto… che mirabolanti avventure!
  Oh oh
  «Cosa?»
  «Non lo vedi?»
  «È piccolo sì».
  «Ma con un gran cuore!»
Dai (pochi) vestiti non stirati spunta il Tarlo.
  Da anni, nascosto nel Mondo di Sotto, il Tarlo cresceva nutrendosi di poche cose, sgranocchiando il più possibile quel che c’era da sgranocchiare. Chiuso al buio, con poca aria, viveva nell’attesa. Aspettava e intanto mangiava. Aspettava, aspettava e aspettava mentre il suo odio, irrimediabilmente, maturava, come una mela al sole…
TARLO:
IO: ‘Cazzo ha detto?
GANESH: ‘Buongiorno’, ignorante…
IO: Conosci il cinese? Non è possibile…
GANESH: Sono un dio, mica ‘na roba qualunque.
IO: Ma così io non ci capisco niente.
GANESH: E che vuoi da me? La traduzione simultanea? Non c’hai il traduttore di Google? ‘Na app sul cellulare…
IO: Beh, magari, la traduzione dico, se me la fai…
GANESH [tradotto dal cinese]: Buongiorno signor Tarlo, ci mancava solo lei.
IO: Cos’è tutto ‘sto rispetto?
GANESH: Profonda stima per i tarli.
TARLO [tradotto dal cinese]: Vengo in pace e da molto molto lontano.  Mangiaboschi, elucubrando sulla situazione e più volte fantasticando sulla sua figura mi trovo costretto a rimproverarla. Amico mio, me lo lasci dire, non ha un sano guardaroba. Io ci vivo nel suo armadio e credo che, per un signorino a modo come lei, avere solo… un momento che elenco… ecco:
IL BREVE ELENCO DEL GUARDAROBA DI ELIA MANGIABOSCHI GETILMENTE ENUNCIATO DA TARLO
     L’armadio del Mangiaboschi vede la presenza, senza dubbio importante, di:
     - Due paia di mutande, gentilmente regalate dalla Madre (in ordine cronologico, mutande rosse e mutande con i disegnini dei trenini e delle carte da gioco);
      - Tre paia di calzini neri di cui due bucati;
             -   Due paia di blu jeans di cui uno macchiato irrimediabilmente con bomboletta spray rossa;
      - Dieci magliette a maniche corte con dieci disegni ritraenti, in ordine sparso: due sommozzatori annegati, una bicicletta che mangia sette automobili, un mostriciattollo senza senso, una scritta in arabo, una maglietta I ♥ MAJANA, tre casse da cui fuoriesce musica e farfalle, otto omini che escono da una gabbia, una guardia con il manganello bloccato da una mano decisa, un pinguino con una maschera antigas, un geco mutante;
     - Tre magliette a maniche lunghe Oviesse che puzzano dopo esattamente uno virgola due secondi dal loro utilizzo;
      - Due felpe con cappuccio;
      - Una maglione sintetico Quechua verde militare.
  «Finito», [sempre tradotto, da adesso però non la scrivo più, ‘sta cosa della traduzione, che poi appesantisce il racconto, eh].
  «Maddai Tarlo, non è possibile, guardiamo bene. Ecco, cosa sono questi?»
  «Guanti».
 «Appunto».
  «Senza dita».
  «Beh, fa grunge».
  «Blasfemo!», urla Kurt Cobain, «Non hai la camicia rossa a scacchi neri!»
  «Come fare?», grido gettandomi sul letto e battendo forte i pugni sul materasso.
  «Su su, non fare così», mi consola Tarlo. «Una soluzione c’è».

  Nell’esistenza di ogni giovane capita, almeno una volta nella vita, di sentire la propria madre proferire queste parole: Aho, sembri un drogato così vestito, pure mezzo barbone, quando esco con te quasi mi vergogno, co’ tutti ‘sti stracci bucati. C’hai trent’anni ormai, okay a diciotto, a venti, ma a trenta… cresci cazzo.
  A quel punto tu, giovane disadattato, ti fai un po’ piccolo, sbuffi e sfoderi il tuo miglior sorriso, per evitare il
TERRIBILE SHOPPING POSTNATALIZIO
  Il TERRIBILE SHOPPING POSTNATALIZIO colpisce tutti, ma proprio tutti. Ogni cosa è calcolata, fior fiore di psicologi del marketing ci hanno studiato su, è tutta ‘na roba di concentrazione, giusta pubblicità e marketing da multinazionale. Sono le réclame piazzate senza sosta sui giornali, i grandi cartelloni poco sopra i nostri occhi, la spazzatura che passano in televisione, il ticchettio delle scarpe sui marciapiedi… ma soprattutto, sopra ogni cosa, è il periodo dei saldi.
  Noooo!
  Ebbene sì.
  Noooo!
  Eddai.
Telefono a mamma Viola.
  «Madre, buongiorno… sì, anche io… no, come al solito… certo, okay. Pere sì… e anche mele. No, mica per questo… eh… maddai! Cristo lasciami parlare!»
  -Per inciso, le litigate in famiglia le capiscono solo i familiari-
  «I saldi… è giunta l’ora… già, solo una felpa… dove? Ma no… o lì o niente? Io quel posto cioè, mica lo tollero… anche papà? Sarà felice… evabbè… dai, tra poco… ciao».
  «Bravo Elia, bravo…», mi dice Tarlo. «Ora vai e stendili…»

FASE UNO: IL TRAFFICO
  L’automobile è stretta, piccola, vecchia. Dentro ci siamo: io (alla guida), mia madre (vicino a me), mio padre (dietro, che bestemmia).  Controllo lo specchietto, mi immergo. Il traffico è immenso, gigante e senza fine. File e file di macchine rimangono incastrate contorcendosi tra loro; la puzza è ovunque, letale e cancerogena. Dall’asfalto s’innalza un fumo denso di morte.
  Borbotto. Urlo un paio di parolacce.
  «Un ciclista come te», mi dice Ganesh, «ridotto a questo!»
Non rispondo, stringo solo il volante.
  Odio il Tarlo.
Guardo mia madre, sorride e abbassa gli occhi.
  Stiamo uscendo da Roma per andare in uno di questi outlet dove costa tutto poco. È tipo un villaggio del consumismo e per la mia famiglia, comunista al punto giusto, non c’è smacco morale peggiore.
  «Gira qua gira qua!», urla mio padre improvvisamente attento.
  «Ma che sei pazzo!»
  «È una scorciatoia!»
Mi volto verso Viola cercando aiuto. «Ascolta tuo padre, lui sa sempre cosa fare».
  Inchiodo e giro.
Due uccellini cantano. Una folata di vento ci fa quasi volare. La strada è deserta, da fine del mondo.
  «Babbo, avevi ragione…», cinguetto già sospettoso.

FASE DUE: IL PARCHEGGIO
  Il traffico ci ha di nuovo inghiottiti. Siamo bloccati tra tre SUV e due Smart, in mezzo ad una fila di acciaio quasi interminabile. Andiamo a passo di lumaca.
  «Io non capisco», dice Lumaca, «perché dovete sempre prendere me come esempio negativo. Non è che il bradipo va tanto veloce eh… o che ne so, il verme o la… la tartaruga ecco. Io mi godo la vita, ecchecazzo. Rispetto per le lumache».
  Mio padre si scaglia contro i ricchi e la borghesia in generale, con chi ha le macchine grosse e chi ha quelle piccole che costano come quelle grosse. Sputa contro ‘sti stronzetti con la Porche che cercano di fare i furbi, mi obbliga a mettermi di traverso, tra una Mercedes e un’utilitaria da quattro soldi. Ogni tanto urla «Sporco capitalista!» a chi gli capita sotto tiro.
  Vorrei solo scappare. Le uscite con i miei (in macchina) sono una roba assurda, una cosa tipo:
  «Vai di qua!»
  «Piano!»
  «Scala la marcia!»
  «Metti la quarta!»
  «Non correre, ci ammazzerai tutti!»
Io cerco di far finta di niente, come mi ha spiegato il mio amico Simone, applica lo yoga antistress-metropolitano, insegnato nelle montagne indiane, sui picchi innevati, agli automobilisti più nervosi. Prendi un bel respiro. Bene. E ora…
Ommmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmmm
  «Eccolo!», urla mamma indicando un posto mezzo vuoto e interrompendo la mia meditazione.
  Sterzo, spalanco gli occhi -sangue- giro e ci sono.
Cazzo.
  «Che è?», mi chiede Ganesh.
  «Non c’entro».
  «Signora», faccio alla tipa che sta occupando un parcheggio e mezzo, «guardi, se la mette un pochetto più a sinistra entriamo in due…»
La donna mi fulmina con occhi di fuoco. «AH!», urla (e già mi spavento), «AVETE ROTTO! HO UNA BAMBINA IO, UNA PICCOLA DI QUATTRO MESI! COME ESCO, ME LO SPIEGA? COME-ESCO!?! IONONCELAFACCIOPIU’!»
  «Scappa Elia, questa ci uccide», mi suggerisce Ganesh.
  «Non posso, sono bloccato nel traffico».
È troppo tardi, dall’automobile sbuca un energumeno di due metri e mezzo pieno zeppo di muscoli gonfiati e tatuaggi improbabili (tra cui il ritratto di un bambino, il ritratto di un cane, il ritratto di un alieno; ne ha anche uno sul collo con scritto “Bucio de culo”).
  «Oh oh», dice papà.
  «Famiglia, che faccio?»
  «Dialettica vorrebbe che tu scendessi a parlare Elia, ma forse sarebbe meglio fuggire, prima che l’uomo si scagli su di te».
  «Se solo avessi gli occhiali!», dico pensando che quelli con gli occhiali uno mica li mena.
Poi un calore, un fuoco improvviso.
  «Si sta trasformando!», geme Ganesh guardando mia madre.
  «Viola, fermati subito!»
Ma come può una donna come lei fermarsi? È una di borgata, cresciuta alla Magliana, una vita a fare i picchetti antisfratto e a lanciare bottiglie incendiarie contro le guardie, una dura eh, mica cazzi. Quindi eccola, lo spirito comunista che prende il sopravvento. Ammirate Donna Viola come esce dalla macchina fieramente di seconda mano e si avventa sull’uomo pieno di muscoli.
  «Blocchiamola presto!», dice papà sbucando davanti.
  «Incivile!»
  «Educazione!»
  «Macchina dimmerda!»
  «Bella la tua!»
Sono solo alcune delle parole che sento. Poi l’uomo si avventa su di me. Sono morto.
  «Dì che non la conosci!»
  «Zitto Ganesh, è mia madre!»
  «Ha scelto il suo destino. Staccati dal cordone ombelicale, fallo adesso!»
  Per un attimo mi vedo, legato da questa corda di carne, a Viola… il pianto, il mondo osservato per la prima volta, il viso del dottore, dolci passerotti che volano nell’aria, il Criceto, l’esperimento alieno andato a buon fine, l’immacolata concezione, gli omini verdi travestiti da medici…
  «Ehi tu!»
Faccio finta di niente.
  «Ehi dico a te!»
Mi volto, mi indico, «Io?»
  «Sì, tu. È tua madre quella?»
  «Eh. Più o meno sì…»
  «Cazzo c’ha due palle così! Una grande! Davvero… ‘spetta che dico a mia moglie di spostare la macchina, così ci stiamo in due». Bucio de culo si allontana trotterellando, felice & contento, mentre Viola rientra in macchina.

FASE TRE: IL CENTRO COMMERCIALE
  Il centro commerciale si erge come un villaggio turistico per ricchi, uno di quegli agglomerati extraurbani contornati da spesse mura di cemento e fil di ferro, pieno zeppo di telecamere e di guardiani in divise rosa. Uno di quei posti da terzo mondo dove la gente con i soldi vive al di fuori della realtà.
  Le fauci ci inghiottono in un secondo, scardinando nella famiglia intera il concetto stesso di uguaglianza. Ci osservano in mille; bambini pancioni con gelato alla mano; uomini di mezza età obesi; bei ragazzi con occhiali da sole nonostante il brutto tempo; donne siliconate in minigonna e jeans aderenti, le labbra gonfie, carnose, immobili; casalinghe frustrate piene di pacchi pacchetti pacchettini; cani rognosi; peluche giganti; commesse bellissime incartate sull’uscio della porta, il rossetto tinto e il naso incipriato; signori in giacca e cravatta, lo sguardo di chi ce l’ha fatta; hipster con il pantaloncino poco sopra la caviglia e il capello mezzo rasato; tredicenni in uscita forzata; bengalesi che fanno lo struscio e mocciosi ancora da svezzare. Ci guardano tutti, i nuovi arrivati, e ammiccano stridono urlano.
  «Una grande famiglia», canticchio già in trance.
  «Siamo tutti amici», dice una nonnina stringendo la mano ad una ragazza di quindici anni.
Un rapido stacco musicale con tutti che ballano in cerchio.
  «Prego, di qua…», ci invoglia una signorina davanti al grande negozio di pantaloni paghi due prendi uno.
  «Entriamo», mi dice Ganesh, «guarda che bel sorriso che ha…»
È un’ipnosi collettiva, file di manichini si susseguono da una vetrina all’altra, indicando il prodotto più riuscito, quello cucito meglio, il più elaborato. “MADE IN ITALY”, gemono le insegne scalfite.
  Odore di vaniglia sprizzato nell’aria.
Nel tempio del consumo ci perdiamo anche noi, seguendo ordinati la fila indiana perfetta, le indicazioni che tutto possono, il neon prepotente sparato in faccia.
  La musica è ovunque, è nelle casse, sopra le nostre teste, in cima alle scale mobili, sulle rampe, fin dentro il cervello. La pubblicità invoglia, tra un pezzo e l’altro, a comprare il maglione migliore, quello cucito in Cina ma fabbricato in Italia, il piumino d’oca, la maglietta da trecento euro.
  Il concetto stesso di tempo viene annullato, non c’è un orologio in tutto il centro. «Sei a casa», recita la voce registrata, «non sprecare tempo, approfitta dei saldi».
  Ogni cosa è lucida, perfetta, levigata.
Dal negozio Calvin Klein la fila appare interminabile, schiere di ragazzi sono bloccati, uno davanti all’altro, nell’attesa. Mio padre li guarda, un po’ sconfitto un po’ disperato.
  Una ragazza mi sorride. «Abbiamo tutto quel che vuoi», sussurra, «scarpe con doppia suola, magliette impermeabili, pantaloni refrigeranti, calzini profumati, maglioni autostiranti, camicie splendenti. Sono qui per te, Cliente, ogni tuo desiderio è un ordine. Provami, provaci. Entra e vedrai…»
  Sono circondato.
  «Pantaloni», biascico. «Ho bisogno di pantaloni».
  «Vieni figliolo», mi trascina via Viola.
Papà ci segue lobotomizzato.
È un incubo. Siamo finiti in un incubo.
  «Dobbiamo resistere», dicono i miei. «E’ una sfida contro il consumismo».
Ma abbiamo già perso e lo sappiamo tutti e tre.
  «Quello», annuisce mamma, «mi sembra più vuoto degli altri. Entriamo».
Siamo dentro.
Divani ovunque.
Persone sedute.
Persone in piedi.
Persone perse.
  Un bimbo piange, la madre è scomparsa, risucchiata dal camerino. È una bocca, il camerino. «Vieni a me!», dice, «VIENI A ME!»
  «Elia presto!», mi strattona Ganesh, «Guarda quei pantaloni là! Sono i tuoi!»
I miei.
  Corro verso i jeans alla velocità della luce, ci sono…
I miei.
  Perso.
  Li. voglio.
Un uomo li afferra.
Faccio lo stesso.
  «Non mollare umano, vedrai, il malvagio cederà!»
  «Giammai Ganesh, sono miei!»
Tiro.
  «Li ho visti prima io!»
  «Non credo proprio, li guardavo da ore…»
L’uomo è forte, il viso diventa rosso, paonazzo. Non cederò mai, sono giovane io, me li merito cazzo.
  «Bravo Elia, bravo! Sicuro questo è un direttore di banca, lo vedi com’è vestito sì? Uno squalo, ecco cos’è. Se cedi i pantaloni sarà la fine. Oggi i jeans, domani il mondo», dice Ganesh.
IO ------------------------------ L’UOMO
  «Non mollare! Ti hanno sfruttato per anni e ora vogliono approfittarne dei saldi! Sono i ricchi! I ricchi come sono?»
  «Pulciari!»
  «Ebbravo Elia, per questo vengono a fare la spesa qui! Innalzati al di sopra della massa, erigiti a nuovo paladino della giustizia! Su, spingi!»
Tiro più forte, guardo l’uomo negli occhi. Quanti anni avrà? Lo vedo, per un attimo, curvo davanti alla televisione, bloccato sul divano, il figlio che gioca al videogioco e la moglie che stira, i piedi puzzolenti spaparanzati sul tappeto, bloccato per sempre in una storia un tempo sua. Lo immagino domandarsi “Chi sono?”. Chiedersi tra un intervallo e un altro, “Come sono arrivato qui?” e poi spegnersi, nell’attesa che l’arbitro fischi il calcio di inizio.
  Cedo.
L’uomo ride. «Coglione», dice correndo dalla moglie bellissima. «Sono un direttore di banca io, mica uno sfigato come te… ah ah».
  «Te li sei fatti scappare, prova questi altri», mi consiglia mia mamma.
  Fila ovunque.
  C’è addirittura la fila per lo spogliatoio. Rimango ore fermo, ad osservare il vuoto, guardando la bocca che tutto mangia. Poi, finalmente, è il mio turno. Schiere di angeli intonano l’alleluia, vorrei essere uno di loro.
  «Ma tu puoi», mi dice San Pietro. «Basta volerlo».
  «Non ora amico, devo provare ‘sti pantaloni».
Entro. Il caldo mi uccide, mi spoglio, indosso i pantaloni, da fuori sbattono alla porta una due tre volte. Quasi la sfondano. Bussano. Urlano.
  «Un attimo», dico.
  «Sono ore che aspettiamo!»
Cerco di far più veloce possibile, inciampo più volte.
  «Presto Elia, fai in fretta, ci uccideranno! Hai presente ‘Gli uccisori’, tipo quello… rischiamo la vita qui dentro…»
  Non lo ascolto, il Dio malefico che mi rimprovera sempre.
  Fai finta di niente.
  Bene, ti stanno.
Esco di corsa e mi metto in coda, questa volta per pagare.
  All’aperto quasi urlo.
  «È l’una. Mangiamo qualcosa».
Il bar ha così tante persone da riempire un transatlantico. Stipati su tavolini 2x1 gli uomini si pigiano minacciosi.
  Faccio l’ennesima fila.
  Odio le file.
Compare un uomo dietro di me. «Vorrei un panino con la cotoletta!», urla.
  «C’è la fila», dice il cameriere.
  «Si metta in coda», gli fanno eco in molti.
L’uomo bofonchia qualcosa. Poi ci riprova. Lo guardo male.
  «STRONZITESTEDICAZZO!», grida improvvisamente, «IO L’AVEVO DETTO A MIA MOGLIE DI NON PORTARMI IN QUESTO POSTO DI MERDA! L’AVEVO DETTO CRISTO! MA ADESSO MI SENTE EH… E VOI… OH, MA CHE VI GUARDATE!? SIETE TUTTI DEGLI SCHIFOSI! TUTTI! SOPRATTUTTO QUELLI CHE LAVORANO IN QUESTO BAR! MI-FATE-SCHIFO! PUZZA CAZZO, ‘STO BAR DI FETENTI!»
Poi si sente male, ha un attacco di cuore o qualcosa del genere. Di corsa arrivano delle infermiere bellissime tipo serie televisiva con tutine bianche aderenti che mettono in evidenza tutte le forme. «Per servirvi!», cantano. «Il cliente ha sempre ragione. E la prossima volta che visiterà il nostro centro commerciale per lei, in omaggio, una confezione da due di patatine fritte e maionese!»
  Mi volto e ordino un panino vegetariano, per mio padre una carbonara scotta e per mia mamma un’insalata non condita.
  
  Dopo tre ore e quarantasei minuti scappiamo dal centro commerciale, mi giro un’ultima volta ad osservare il Covo del Male, dove continuano ad entrare famiglie su famiglie, come il miglior girone infernale. Dante fa ciao ciao con la manina.
  Mi asciugo il sudore.
  I miei camminano piano, quasi immobili, inebetiti da tanto chiasso.
  «Ah!», dice Ganesh, «I sani principi di una volta, dove andremo a finire? Oh mondo crudele, generazioni perdute a causa di questo consumismo becero, senza possibilità di rivalsa! E da oggi anche tu ne fai parte, giovane Mangiaboschi. Sei colpevole quanto loro…»
  Guardo i miei pacchi, un paio di pantaloni e una felpa, Tarlo sarà contento.

FASE QUATTRO: A CASA
  «Però, che figurino», mi dico guardandomi allo specchio.
Tarlo annuisce.
  «Che dici? Come sto?»
Continua ad annuire. Io ‘sti tarli non li capisco proprio, che poi cosa mangiano, il legno o i vestiti?
  «Oh, Tarlo, cosa mangiate voialtri?»
Annuisce. Non capisce un cazzo; mannaggia, Ganesh quando serve non c’è mai.
  Comunque, i pantaloni mi stanno una bomba e anche il felpone due misure più largo mi dona non poco. In fin dei conti sì, sono contento, pure che ho ammazzato i miei alla fine ora per dieci anni sto apposto, con i vestiti dico. Quasi quasi c’ho da festeggiare.
  Anche se però mica mi fido a lasciare le cose nuove nell’armadio con Tarlo. Ma che si mangerà poi?
  «Eddai Ganesh, chiediglielo te, che poi secondo me c’ha una crisi ‘sto tarlo, ché continua ad annuire».
  «Huff, va bene…», sbadiglia Ganesh.
  «Ma che, dormivi?»
  «Ti pare che un dio dorme, mica ne ho bisogno io… comunque, traduco». Ganesh si concentra, poi dice, in cinese, «Che mangiate voi tarli?»
Tarlo si fa serio e smette di annuire, mi guarda severo, «Il Mangiaboschi non si fida di me? Io, che ho protetto il suo armadio dalle peggiori insidie? È così che ricambia il mio amore?»
  «Eh…», annuisce Ganesh, «malfidato».
  «E così sia. Appartengo alla nobile famiglia dei Lictidi, sono un insetto xilofago. Da sempre, da generazioni, dalla notte dei tempi, ben prima della sua nascita, noi coleotteri viviamo nei manufatti lignei nutrendoci di polimeri compressi. Legno! Cellulosa! Emicellulose! Osservi il suo armadio, vedrà le possenti gallerie che, con meticolosa cura, ho creato. Un labirinto di cunicoli dove solo io, unico e raro, posso zampettare. Mai mangerei i suoi inutili vestiti!»
Rimango basito. «Scusa Tarlo, non volevo mancarti di rispetto».
Ma Tarlo alza la testa e si volta.
Ganesh mi guarda male.
  «Come fare?»
  «Fidati! L’amore vince sempre sull’odio!»
Prendo i miei nuovi vestiti, apro l’armadio e li poso sopra gli altri. «Ecco Tarlo. Mi fido di te», dico solenne.
  Ché in fondo l’armadio è vecchio, prima o poi dovrò pur buttarlo.
Tarlo mi sorride ed entra.

FASE CINQUE: NELL’ARMADIO
  Coperto dalle tenebre, completamente al buio, Tarlo ridacchia maligno. Poi scava senza sosta nuove gallerie. Entra, esce, morde, s’impegna.  «Figli miei»¸ sussurra. «Figli miei».
Dal nero più assoluto mille occhi spuntano improvvisi. Piccole ali si spiegano, i corpi marroni, scuri, sporchi. Decine di antenne si muovono all’unisono. Dai cunicoli e dalle arterie gli insetti stridono le piccole mandibole
  «L’imbroglio», dice Tarlo innalzandosi sopra le masse, «è stato compiuto. L’umano ha abboccato».
  Urla di acclamazione.
  «Il cibo è pronto!»
Tarlo guarda i suoi figli adottivi, le fameliche tarme, avventarsi sui vestiti nuovi, pronte a sgranocchiare fino all’ultimo filo di stoffa.

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