lunedì 26 gennaio 2015

AMNESIA



  Nero.
Muscoli intorpiditi.
  Piano.
Dove mi trovo?
  Fitta.
Un martello.
  Rumori.
  Voci lontane.
  Soffuse.
  Ovattate.
Sinistra.
Destra.
  Buio.
Il cervello.
Pulsa.
  Tempie.
  Un’altra botta.
Per un attimo solo.
Mi domando.
Chi sono?
  Un suono, più vicino.
Mi volto.
  C’è un corpo accanto a me.
Lo tocco.
  Morbido.
Sbuffa.
Sta dormendo.
  Mi giro.
  Okay, sono sdraiato.
Il letto è soffice.
  Odori.
  Sesso.
La testa mi scoppia, mi tocco gli occhi, provo a mettere a fuoco.
  Il nero è ovunque.
Ricapitoliamo.
  Non. Riesco.
Alzarmi, senza far rumore. Non svegliare il corpo che giace accanto al tuo.
  Dove mi trovo?
Ieri. Una festa. No. Non in una casa. Un locale. Luci. Musica elettronica. Un dj. È una donna. Non è italiana, viene da lontano, così dicono. Non puoi mancare Elia.
  Io non manco mai.
Le braccia si alzano. In mille a ballare.
Gambe e occhi e capelli che
                                            danzano al vento.
Odore di sigarette.
Nero.
  Il corpo si gira. Mi guarda. Ha un viso. È una ragazza, sorride, chiude di nuovo gli occhi.
  Qualcosa mi tocca, mi afferra, mi graffia.
Trattengo un urlo, la caccio.
  Un gatto.
Devo alzarmi.
  Le ossa fanno male.
Tocco il corpo.
È nudo.
  Messa a fuoco.
  La vista si abitua all’oscurità.
Una donna. Capelli corti, biondi, rasati da un lato. Un lungo tatuaggio le contorna la schiena, è un drago, di quelli giapponesi. Ha un piercing sul capezzolo. Le guardo il viso, dodici orecchini sull’orecchio sinistro.
  Chi è?
Scosto le coperte, mi muovo piano.
  Sono in piedi.
  Una gamba cede.
La ragazza si volta. Russa un pochino.
  Nudo.
  Cerco i vestiti. Trovo solo le mutande e i calzini.
Che ore sono?
  La porta, inciampo.
Fuori. La luce mi acceca.
  Un corridoio. Devo trovare i pantaloni.
Stanze.
Entro, materassi a terra.
Persone che dormono.
  Freddo.
Il bagno.
  Una faccia da far schifo. Ho il volto disegnato, il tratto è incerto, penso sia un pennarello. C’è un elefante, si tratta di Ganesh.
  I miei pantaloni.
  La felpa.
Mi sciacquo il viso e mi vesto. Il disegno non va via.
  Scendo delle scale a chiocciola.
La cucina, un ragazzo prepara un caffè.
  «Elia», mi saluta, «seratona ieri eh?»
Annuisco.
Chi è?
  Ieri.
  La musica schizza dalle casse.
  Muovermi. Adoro ballare. Adoro tutto, ogni cosa, ogni persona. I  miei amici ridono, danziamo in cerchio. Simone mi guarda, ha gli occhi a palla, stralunati. «Fantastico», mi dice.
  Sotto cassa.
  Alzo le braccia, poi le gambe. Amo la musica. S’insinua.
Non penso a niente.
Penso a tutto.
  I pensieri.
  I pensieri fuggono via e ritornano e mangiano e ruttano e piroettano.
Li seguo. Chiudo gli occhi.
  Bevo.
Un unico essere, mille persone che non si conoscono, uniti dal battito del cuore, dalla techno sparata a tutto volume.
  Non posso fare a meno di questo.
Io. Sono.
  Non serve sapere i passi, conoscere il giusto movimento, l’importante è seguire il ritmo, lasciarsi andare, ipnotizzati dalla musica.
  È un sorriso collettivo.
Mi volto, anche lei sorride, ha gli occhi chiusi e sorride.
  Ballo.
Nero.
  Il tizio versa il caffè e mi offre una tazza.
  «Hai una sigaretta?», gli chiedo.
  «Tabacco», risponde.
La casa è grande, rustica, tipo casolare di campagna. Sui muri sono appese decine di foto di ragazzi e ragazze che lavorano la terra, di ragazzi e ragazze che annusano pomodori, di ragazzi e ragazze che se la ridono davanti ad un falò. Ci sono due bandiere attaccate, una è quella palestinese. Le pareti sono colorate di arancione e su qualcuna è tratteggiato un disegno, un paesaggio, un tram, l’ombra di un uomo. A terra decine di bottiglie di vino muoiono aperte.
  Un’altra porta. La apro.
  Il vento gelido mi colpisce il viso.
Guardo la campagna. Il giallo dell’inverno, le montagne innevate, i campi lasciati a morire, distrutti dal ghiaccio.
C’è un buon odore, un misto di legna bruciata e fiori invernali.
  Cammino sull’erba alta, si avvicina un cane bianco, struscia il muso sulla mia gamba, lo accarezzo.
  Come sono finito qui?
  Questa non è Roma.
Più in là delle macchine parcheggiate alla meno peggio si incastrano una con l’altra. Non ne riconosco nessuna.
  C’è una ragazza che dorme in un sacco a pelo.
Il verde mi avvolge, la natura è ovunque, in lontananza nasce un bosco fitto e rigoglioso.
  Brina.
  «I tuoi amici sono tutti andati via. Ti hanno cercato ovunque, ma tu non c’eri», mi dice una donna sulla cinquantina, una di quelle vecchie freak con i capelli tinti e le gonne a fiori.
  «Che posto è questo?»
  «È casa nostra, anche casa tua per oggi. Vuoi aiutarmi con l’orto?»
Annuisco, la donna mi passa una zappa.
  L’orto è grande, immenso, perfettamente geometrico.
  Nell’orto ci sono: barbabietola, broccoli, carciofi, carote, cavolfiore, verza, cicoria, cime di rapa, cipolle, finocchio, lattuga, porro, prezzemolo, puntarelle, radicchio, rape, ravanelli, sedano, spinaci e zucche.
  «È bellissimo», dico.
  «Mangiamo solo quel che coltiviamo… guarda, lì giù ci sono le galline».
  Afferro la zappa e scavo dove mi dice la donna.
Sudo.
  «Dove ci troviamo?»
  «Veramente non ricordi Elia, eppure ieri notte adoravi questo posto. Hai detto che ti saresti trasferito qui, che avresti…»
  “…Abbandonato tutto”, penso.
La terra scivola via.
  Immagini confuse.
  Sono ore che ballo. Le luci sono ovunque, gli amici vanno e vengono. Io giro, mi muovo, rido a tutti. Ogni tanto barcollo ma, lo giuro, non mi fermo mai. Anzi, sono un tutt’uno con la musica.
  Poi la vedo. Ha i capelli corti. Mi guarda ed io ricambio. Mi innamoro in un batter d’occhio. È lei ad avvicinarsi, mi sorride e mi bacia, poi mi prende per mano.
  Non ci capisco niente.
  «L’amaro è finito da un pezzo», dico.
  «Prendiamone un altro».
Al bar ordiniamo da bere.
  «Tutto d’un sorso», mi sfida.
  «L’amaro va gustato», rispondo.
Ci sorridiamo.
  «Ti piace ballare?», mi chiede.
La voce confusa.
  «Sì, a te?»
  «Adoro ballare».
Ora siamo in pista.
  È davanti a me.
La musica è viva, è un drago che ci avvolge tutti, che ci fa danzare come pazzi, adepti ecco. Ci trascina prendendo i nostri corpi, scuotendoli, quasi fossimo burattini. Ed è bellissimo, è una sensazione unica, collettiva, di fratellanza.
  Eppure sono solo. Ma non è la solitudine della tristezza, è una solitudine bella, comune.
  Lei balla. In un secondo i nostri corpi si strusciano, un’ondata di profumo s’insinua tra le narici e scende giù a riempirmi i polmoni.
  Inspiro forte, ne voglio ancora.
Siamo attaccati adesso, solo la stoffa dei vestiti a dividerci, pochi millimetri di jeans.
  La tocco, lei posa le mani dietro, a stringermi i fianchi; io faccio lo stesso con i suoi.
  Inspiro ancora.
Apre la bocca, mi guarda di sfuggita, ha gli occhi scuri, glaciali quasi; accenna un sorriso, le si increspano gli zigomi.
  Inspiro.
La musica ci unisce.
Siamo un corpo, uno solo, fatto di sangue e carne e BPM.
  Ci stringiamo.
Polvere ovunque.
Polvere bianca.
È nell’aria, nei nasi, sui corpi, fin dentro al cervello.
  Infilo la zappa nella zolla fresca.
  «Dovresti venire a vivere qui, in campagna», mi dice la donna.
  «A me piace la città».
  «Troppo caos, troppa frenesia».
  «È viva».
  «Anche la terra lo è.»
Faccio cadere la zappa, cosa sto facendo?
  Cammino verso il bosco, il vento ulula tra gli alberi, come fosse un concerto di didgeridoo. Affondo sul terreno, otto centimetri di fango tra i calzini. Non ho le scarpe, me ne accorgo solo ora.
  Freddo.
  Domani avrò la febbre.
La vegetazione s’infittisce, un groviglio di rami e foglie.
Alzo lo sguardo in alto per guardare il cielo.
Il sole è scomparso, mangiato dagli alberi.
  In lontananza sento dei versi, le dita dei piedi affondano nell’erba. Cerco di farmi strada con le mani, mani morbide, mani da città. Il suono di un trattore disturba i miei pensieri. Un vecchio contadino mi saluta, il palmo bene aperto. Ha le dita callose e le rughe. Non ha denti. Abbasso lo sguardo.
  «Dovresti tornare a casa», mi dice, «scalzo ti prenderai un bel malanno».
  «Ha una sigaretta?», chiedo.
  «Tabacco».
  «Va bene lo stesso, grazie».
Rollo la cicca in un attimo, lo sguardo del vecchio puntato sulle mie dita. «Ai miei tempi le sigarette le vendevano sfuse».
  La musica mi assorda.
  Elia è ad un tratto da me.
  Seguo il corpo come se non fosse il mio, un centimetro di distanza.
  È sicuro, il corpo, con questa ragazza. La bacia, la tocca, la palpa. Anche lei appare sicura, sa cosa vuole.
  Ogni tanto gli amici mi raggiungono, pacche sulle spalle e grandi abbracci.
  Fa quest’effetto quella roba là. Ci piace.
Quanto tempo è passato?
Ore?
Minuti?
Secondi forse?
  Contiamo
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
  «Se solo potessi capire il concetto stesso del tempo sicuro un pensierino ce lo farei, sul tempo dico. Ma il tempo, in fondo, non esiste. Il passato è il presente e il presente è il futuro. Ora, adesso, in questo preciso istante, noi viviamo già nel passato. Le righe che hai appena letto appartengono ad altro. C’è solo il presente, sempre. O forse, Amico mio, non c’è neanche quello.»
  «Il Nulla è bellissimo».
  «Il Caos è bellissimo».
Io però danzo.
M’innalzo sopra i corpi.
E la amo.
  «Come ti chiami?», le chiedo.
Lei non risponde.
  «E tu?»
Cos’è questo sapore? Il dolce amaro che sa di detersivo?
Non importa Elia, non importa. Accetta tutto, ogni cosa. C’è la musica a proteggerti.
  Seguo gli altri, hanno conosciuto dei tizi, amici della ragazza con cui sto.
  «Abbiamo un casolare», dicono.
Urlo.
  Prima c’è il mare.
  È il mare d’inverno.
Il bosco è ovunque attorno a me, sento freddo ai piedi. Il contadino è già un ricordo lontano. La mente è confusa.
  Torno indietro seguendo le mie orme.
Da lontano il casolare è grande. Pietra dura.
  «Come avete fatto a prenderlo?», chiedo ad un ragazzo della mia età.
  «L’abbiamo occupato, era un vecchio rudere abbandonato, noi l’abbiamo rimesso a posto e ristrutturato. Mi hai fatto la stessa domanda ieri, non ricordi?»
Memoria del cazzo.
  A quanto pare mi conoscono tutti.
Stanno preparando la brace, è quasi ora di pranzo. Ecco una bottiglia di vino.
  «Sei un grande», mi dice un ragazzino comparso dal nulla.
  «Ho la mia età», rispondo.
  «Però ieri sembravi un bambino».
  «Oggi sono una via di mezzo».
  «La vuoi una salsiccia Elia?», domanda una signora con i capelli bianchi.
  «Uh, no grazie. Io… non mangio carne».
  «Stiamo preparando le verdure grigliate…»
  «Bene».
Vorrei solo andare via. Tutta ‘sta fratellanza mi sta turbando. Ho bisogno di intimità.
Vorrei: una doccia calda, la mia camera, il mio letto, un film.
  «Ma tu sei scalzo».
  «…»
  «Tieni, indossa queste».
Prendo delle ciabatte di plastica con i cuoricini disegnati, mi stanno piccole.
  Il mare è immenso, s’ingrossa ad ogni soffio.
  A me sembra un sogno, ogni cosa, ogni azione, ogni momento.
  È il tempo forse.
  Non so.
La sabbia picchia.
Ho il viso marrone e giallo.
  Lei mi tiene per mano.
Mi volto, gli amici si stringono tra loro.
Siamo tanti.
  A riva combattiamo con le onde. Qualcuno si bagna.
La testa va in frantumi.
  «Cos’è quella?», biascico.
  «Grappa».
  «UN BRINDISI ALLA GRAPPA!»
Non sono io, ma non mi importa. Preferisco essere davanti a tutti, un passo più in là. Come se dovessi comandare.
Questo posto, cos’è?
  Mi stringe la mano.
Un brivido.
  Accendiamo un fuoco, è piccolo e pieno di cartacce, si spengerà subito.
  Il viso di Simone cambia illuminato dalle fiamme.
Qualcuno mi stringe. È Antonio.
Ci siete tutti amici miei.
  «Cosa fate?», urla il guardiano.
Lo affronto. Gli sputo la mia rabbia in faccia senza che ce ne sia bisogno, lo insulto. Qualcuno mi blocca. «È una festa», mi dicono, «non rovinarla».
  Le automobili rombano nel silenzio della notte.
  Un serpente?
  Un drago?
  Una carovana di metallo e plastica?
  «Dove andiamo?», chiedo al guidatore. «Ci conosciamo?»
  «Elia, sono io. Fabrizio. Ti ricordi di me?»
Rimango in silenzio, certo che mi ricordo.
  Abbasso il finestrino, adoro l’aria.
Mangio una bruschetta al pomodoro, poi un’altra. Siamo tutti in cerchio, seduti su vecchie coperte sgualcite, il sole a riscaldarci.
  Ahhh
Mi sento meglio. Devo solo trovare il modo di tornare a casa.
  «Veramente mi hanno lasciato qui?»
  «Sì, non ti trovavano…»
  «Come si fa a tornare a Roma?»
  «C’è il treno».
  «Dove siamo?»
  «In campagna, dopo la città».
  «È reale?»
  «Cosa?»
  «Niente, scusa…»
Dalla finestra più alta si affaccia lei. Mi saluta velocemente. È diversa da come la ricordavo. È più cicciottella ed è bianca cadaverica. Forse ieri notte era truccata, forse ero io ad essere completamente fuori. Mi guardo, sono sporco e pieno di fango. Mi puzza l’alito, devo aver vomitato, o forse no. Però non voglio vederla, in fondo non so chi sia.
  Mi alzo. Qualcuno mi guarda, una bambina mi indica. «L’elefante!», dice. Cammino facendo finta di niente. Se riesco a trovare le mie cose è fatta. Lì giù, le mie scarpe.
  Parcheggiamo le automobili alla meno peggio.
  «È questo il casale?», chiedo indicando il buio.
  «Sì, ora guarda in alto», mi risponde la ragazza.
Alzo gli occhi al cielo, miliardi di stelle mi assalgono.
  «È un quadro».
La luna sorride.
  Corriamo tra la natura, nella notte più profonda, lungo paesaggi non nostri.
  Qualcuno mette la musica, due casse e il gioco è fatto.
Balliamo di nuovo tutti quanti insieme, i miei amici e ‘sta gente che manco conosciamo.
  Io sono davanti a tutti. Mi agito come fossi posseduto, come se la tarantola stessa mi avesse morso, inondando il mio corpo di veleno.
  Rido con tutti, scherzo con tutti.
Beviamo dalla stessa bottiglia, fumiamo le stesse cose.
  Facciamo un totem con gli scolapasta e i resti di un arpia cibernetica. Fili elettrici & cavi metallici. È un mostro e ci piace. Lo veneriamo. Gli danziamo attorno. Ogni tanto il tipo che mette la musica cambia pezzo per farci andare ancora più veloce.
  Ruzzolo a terra.
  Un uomo mi disegna il volto. «Un elefante», dice.
La ragazza mi raccoglie, come fossi un foglio caduto per sbaglio. «Guarda cosa ti hanno fatto. Prendi questa».
  Ingoio senza pensarci.
I colori sono nitidi, puri, sinceri.
La natura mi avvolge.
Il verde è smeraldo.
La luna è avorio.
Le stelle sono oro.
  A tutti.
Simone mi abbraccia.
  In piedi.
Ci sono.
Sono.
Io.
  «Testa d’elefante», mi dice.
Amici, dove siete?
  Mano per mano.
Scale a chiocciola.
  «Camera mia», indica la ragazza.
Mi guardo, sono già nudo. Ho solo i calzini e le mutande addosso.
  Mangio un altro po’. Altre verdure grigliate per riprendermi. È tutto più chiaro adesso, confuso ma chiaro. Mi sento depresso, tipico down da giorno dopo, una scimmia bastarda che ti si attacca alla capoccia. Era tanto che non mi capitava di stare così. Altri tempi, altre storie. Saluto tutti.
  «Dove vai Elia?»
  «Torno a casa».
  «Se aspetti ti diamo un passaggio fino alla stazione».
  «No grazie, ho bisogno di camminare. Posso arrivarci a piedi?»
  «Sì, la strada è sempre dritta. Ma è lunga, ti ci vorrà un bel po’… una mezzoretta minimo…»
  «Meglio, così smaltisco…»
  «Torna a trovarci».
Un ultimo sguardo alla finestra più in alto, lei è lì e mi guarda. Le sorrido, cercando di accennare un saluto malriuscito. Non ricambia. Ha ragione.
  La camera è buia, la testa gira, la vista si sdoppia.
  «Ti amo», le dico.
  «Shhh», risponde posandomi un dito sulle labbra.
Si spoglia, la guardo. È un drago. Ha la pelle verde.
  La bacio piano, scostandole le mutandine. La cerco con la lingua insinuandomi tra le grandi labbra. Bevo. È bagnata. Poi premo, entrando con delicatezza. Voglio trovarla, adoro baciare.
  Nel sole che già tramonta mi allontano via, come uno di quegli eroi un po’ sfigati che si leggono nei libri. Mi volto un’ultima volta, quasi sperando che lei mi stia seguendo, che chiami «ELIA ELIA!», ‘na roba da film insomma. Ma sono solo, dietro di me non c’è nessuno, solo l’ultimo sprazzo di luce a illuminare i miei passi.

lunedì 19 gennaio 2015

ODIO



  «È un tunnel», mi dice Ganesh. «Un tunnel senza fine, bello lungo, tutto nero, manco ‘na lampadina, ‘na candela, un mozzicone pure… è buio. In fondo, molto in fondo, la luce la vedi pure eh. Solo che più cammini più si allontana…»
  «A mio avviso il tunnel richiama l’immagine, ben presente in ognuno di noi, del canale cervicale ed il movimento del feto, cioè, l’uscita no? Avete presente?», annuisce Sigmund Freud.
  «Lascialo stare ‘sto depravato Elia, ‘scolta a me. Si chiama depressione e non c’entra un cazzo la madre, la famiglia e tutto il resto. È la disoccupazione, se non c’ha ‘n impiego è depresso. Pare logico no?»
  Ah! Compagni & Compagne! Sono passati quattro mesi da quando il nostro amico Simone ha perso il lavoro! Che bello vederlo mutare in una larva bioenergetica! Che bella cosa guardarlo morire ogni giorno di più proprio lì, sul divano dell’appartamento nostro…
  Eppure, Mangiatori di Formiche, il buon coinquilino ha provato a cercarlo un lavoro. Si è dato da fare, almeno all’inizio… ha inviato curriculum, ha girato, si è presentato ai colloqui… pensate, aveva pure la camicia. Stirata eh. E stirare, qui a casa, non è una cosa normale. Non è vero Ganesh? Diglielo tu.
  «Ma certo, ricapitolando. Si hanno informazioni su tutto, compreso il ferro da stiro. Mettetevi comodi bambini, andiamo a cominciare. Tanto tempo fa, in un paese lontano lontano…»
  «Io io!», dice il Criceto.
  «Cosa?»
  «La so!»
  «Ma non abbiamo formulato una domanda…»
  «Eddai, falla!»
  «Okay. Quando è stato inventato il ferro da stiro?»
  «Nel 206 A. C.! E consisteva in un recipiente di bronzo destinato a contenere le braci incandescenti e provvisto di un manico di legno!»
  «Risposta esatta!», urla Mike Buongiorno.
  «Veramente Ganesh parlavo di Simone, fai un sunto per gli ignoranti».
  «Breve e conciso», bacchetta Maria Montessori.
  «Aho!», urlo, «E che è oggi?!? Stiamo quasi ad una pagina Cristo! Mica possiamo perdere tempo così! Un briciolo di maturità… devo scrivere una roba seria io, ecchecazzo».
  «Scusa Elia. Hai ragione. Un po’ di silenzio prego. Il nostro coinquilino, ignaro amico di tutti noi, lavorava in una cooperativa. Faceva i laboratori per i disabili. C’aveva di tutto, dagli psichiatrici agli autistici. Guadagnava sette euro l’ora, però, lasciatemelo dire, era contento. Poi a settembre i capi mangiabanane non gli rinnovano il contratto, ché c’è tutta ‘na storia di carenza di fondi e robe così. Simone rimane senza lavoro, come tanti del resto. Però, e c’è un però, il Presidente del Consiglio dice che la crisi è finita e che adesso i giovani ricominciano a lavorare».
  «Bisognerebbe festeggiare», dice Margaret Thatcher.
  «E questa da dove spunta?»
Simone ha trentatré anni ed è laureato, ha fatto il DAMS, cinema, e voleva diventare un grande regista. Se da piccolo il papà gli chiedeva, «Cosa vuoi fare da grande?», la risposta era senza dubbio, «I film». Simone stravedeva per i film e i genitori ogni sabato sera lo portavano al cinema. Adorava, il piccoletto, la sala buia, le poltrone scomode e quello schermo grande, grandissimo, che prendeva vita. Lui mangiava cinema. Anche da grande, se non va al cinema almeno una volta a settimana sta male. Il buon Simone, Amici & Amiche, è sempre stato uno scapestrato, però simpatico. All’università si è divertito tantissimo, con gli amici a far tardi ogni sera, a bere fino allo stremo e a fumare così tanto che i polmoni, ancora oggi, gemono. Però, c’è da dire, ha sempre lavorato. Studiava poco ma lavorava tanto. Da quando ha diciotto anni eh. No, forse pure diciassette. A Simone dipendere dai genitori non è mai piaciuto, anche se papà e mamma non se la passano male. Il padre è un professore di matematica, di quelli un po’ fuori di testa, ma con il posto fisso, che oggi, anche se fa così poco cool, è cosa abbastanza rara; la madre invece è una fisioterapista e c’ha pure lo studio da fisioterapista. Ma Simone, a meno che non stia morendo di fame, di chiedere soldi ai genitori non ne ha voglia. «Mica c’ho sedici anni», dice, «che mi faccio dare la paghetta?». Comunque lavora e, come tutti i giovani che lavorano (bisognerà quindi escludere una lunga fila di giovani che non lavorano quali…)
  «La posso fare io la lista? Ti preeego…», mi supplica il Criceto.
  «Okay».
LA BREVE LISTA DEI GIOVANI CHE NON LAVORANO FATTA DAL CRICETO:
- I pariolini;
- I figli dei politici
- I figli dei banchieri;
- I figli dei grandi spacciatori internazionali;
- I figli di Peppa Pig;
- I Mi-Pesa-Il-Culo-Sono-Comunista-Però-Papà-M’ha-Regalato-Casa-A-Piazza-Navona.
  «E così via».
Riprendiamo da più su, dicevamo:
…comunque lavora e, come tutti i giovani che lavorano, ci mette otto anni a finire il DAMS. Otto anni Cristo. Per finire il DAMS. Però capitelo, ha una vita, è pieno di donne, esce tutte le sere, va ai cortei, spesso parte, ogni tanto studia e, appunto, lavora. E poi, oh, vuole fare il regista lui, quindi gira tantissime cose e scrive pure tantissime cose, fa le sceneggiature e ogni tanto scarabocchia pure qualche raccontino.
  «Mica cazzi», dice Orson Welles.
C’ha il miraggio Simone e di lavorare con i disabili non ci pensa proprio. Così lo segue ‘sto sogno del cinema e quando si laurea, non contento, si iscrive al corso di sceneggiatura. Si fa un mazzo, il poveraccio, la mattina studia e la sera lavora; pensate, accetta addirittura di andare a fare il cameriere in un pub dalle otto di sera alle otto del mattino per trenta euro (a notte). Ma il nostro eroe, ta-dan, non demorde.
  Guardatelo!
Come corre da una parte all’altra! Senza fermarsi! Mai stanco!
  Una sera, pensate un po’, va anche a cena con un fratello sfigato di un regista famoso.
FRATELLO SFIGATO: Vuoi fare cinema.
SIMONE: Eh.
FRATELLO SFIGATO: Me lo porti l’ombrello?
SIMONE: Mica piove.
FRATELLO SFIGATO: Non ora, ma se ho caldo e se ti prendo come aiuto dell’aiuto dell’aiuto regista. Mi copri dal sole. Non lo sopporto. E mi porti pure un caffè. E mi pulisci il culo, solo ogni tanto però.
  Il problema di Simone sono gli ideali. È un idealista, crede nel mondo uguale, nel mondo diverso, nell’altro mondo e in tutte quelle storie dei mondi possibili. Andiamo d’accordo su questo, solo che lui picchia. Non con le mani eh, macché, con le parole, t’atterra con le lettere, l’amico mio.
  «Ma questa cosa, ahimè, non sempre gioca a suo favore», dice Ganesh.
E infatti. Simone non sa abbassarsi, non accetta le cose e si crogiola su questo. È infantile forse e al compromesso non ci arriva. E poi gli pesa il culo. Ah! Diciamocelo! In questo periodo ad esempio, con la scusa della depressione, non fa niente ed io devo sempre andare a fare la spesa. Comunque. Il ragazzo non accetta i compromessi e intanto cresce. Finisce a lavorare con i disabili quasi per caso e, nell’arco di pochissimo tempo, tutto il suo mondo cambia. Ebbene sì, Signori & Signore, ha trovato il suo lavoro. È felice. Dopo anni passati a fare i mestieri più disparati finalmente ha scoperto una cosa che gli piace veramente. Adora i pazzi, tutto qui. Ci sta bene, gli piace quel che dicono, quel che fanno, come lo fanno. A Simone, Fratelli & Sorelle, gli piace l’anarchia e gli psichiatrici sono il top del top dell’anarchia. Lui, letteralmente, si diverte. Anche se a volte torna a casa con i lividi o con i tagli o anche con i brutti pensieri il suo lavoro lo ama. Mi racconta le storie dei ragazzi, di quello che si masturba in camera schizzando sperma su tutte le pareti come una fontana aperta, di quell’altro che urla dentro l’autobus e tutti scappano, o di quello che ti lancia baci che ti sciolgono. Si diverte sì e vuole bene. Anche a lui gliene vogliono, perché è bravo. Simone non è al di sopra degli altri, agli utenti non li tratta mica da pazzi. «Hanno solo un modo di ragionare diverso», dice. Sa ascoltarli. Fa le gare con le carrozzine il coinquilino (se abitate a Roma e, a San Lorenzo, avete visto uno che correva trascinando una ragazza sulla sedia a rotelle mentre un gruppo di scoppiati dietro sgattaiolavano ululando, beh, quello è l’amico mio). Ascolta le storie delle famiglie, delle nonne lasciate da sole ad educare un ragazzo autistico che morde tutti, del padre che ha adottato la figlia in Russia e che, crescendo, ha scoperto essere disabile (la ragazzina, non il papà), della ragazza madre che mantiene il bimbetto down e fa tre lavori. Ascolta sì. Ogni tanto la sera, tornato dal lavoro, piange. Oh, lui non piange mai eh, non dite che ve l’ho detto, però ‘sto mestiere ti fa così. Ti porti appresso le storie, ti corrodono dentro. Lo sai che non c’è nessuno, che sei solo. Per la cooperativa l’importante è il denaro, non un progetto fatto bene, non un sostegno ai suoi lavoratori. Gli operatori tutti vengono mandati allo sbaraglio.
  «Fuori uno! Fuori due! Fuori tre!», urlano i marines del sociale.
L’importante, per il Presidente e per i suoi fidi scagnozzi, è mangiare bio. Se mangi bio stai bene, se mangi bio sei di sinistra.
  Gli operatori vengono lasciati soli e vivono il lavoro in solitudine. La ragazzina affidata ai servizi sociali non è un problema della cooperativa ma dell’operatore. L’autistica che si butta a terra e sbrana tutti quanti non è un problema della cooperativa ma dell’operatore.
  Sono tipo degli eroi. E prendono sette euro l’ora. Ma a nessuno gliene frega niente. Non importa ai municipi, ai comuni, allo Stato, alle cooperative; sono solo carne da macello. Come per la maggior parte dei lavori. Siamo tutti carne da macello. Simone è laureato in cinema e non lavora. Io sono laureato in scienze politiche e faccio l’impiegato. Diciamoci la verità, siamo una massa di laureati senza impiego. Siamo un paese di colti coglioni senza speranze. Abbiamo fatto le migliori scuole, letto i libri più belli e a cosa è servito? Siamo nulla e nulla rimaniamo; noi non viviamo, sopravviviamo. Le nostre lauree non vanno mai bene. Serve una laurea per ogni cosa.
  «Sì ma quella che avete è sempre sbagliata», ride Ganesh.
Simone oggi non può lavorare perché non ha un titolo adeguato. Ha fatto cinema quando doveva fare scienze dell’educazione. Ha preferito sognare ancora un po’, ché c’aveva diciotto anni, mica lo sapeva che il mondo gira storto e i sogni è difficile si realizzino. Dovrebbero dircelo cazzo, dovrebbero mettere un bel cartello giallo con una scritta nera: queste sono le facoltà che un pochino (ino ino) ti serviranno, queste quelle con cui non ci farai niente. E invece ti fanno sperare, ‘sti stronzi. Ti fanno credere. Poi cresci e i sogni mica li hai realizzati; così accetti tutto, ogni cosa, anche di fare l’impiegato timbra-pacchi come me. Oppure -magia- trovi il tuo mondo, assieme agli sciroccati della terra, gli vuoi bene a ‘sta marmaglia di fusi, ti piacciono gli spaccati e gli schizofrenici, stravedi per loro. Accetti di pulire il sedere alle persone e di sporcarti la mano di merda. Accetti tutto, ogni cosa. E presenti i progetti per la cooperativa. Simone l’anno scorso ha scritto una cosa su un laboratorio di orto da fare con i disabili, è andato al Municipio, ha parlato con l’assessore e il progetto è passato. Trenta euro per la cooperativa, sette per Simone. Ma non importa, va bene così. Non c’è problema, basta che mi fanno lavorare. Oggi Simone è senza soldi e quelli continuano a prendere il denaro con il progetto che ha scritto. È fantastico. Viviamo in un mondo all’incontrario. Siamo governati da una banda di stronzi e di sotto-stronzi. È tipo ‘na scala no? E prima di arrivare a noi, che stiamo nel gradino più basso, c’è tutta gente che se ne approfitta.
  La sera torniamo a casa, stanchi.
  E non abbiamo un lavoro.
  E non abbiamo speranze.
  E non abbiamo neanche grinta.
Perché se avessimo grinta, ‘sto sistema di sfruttamento, lo avremmo già sabotato. Invece rimaniamo fermi.
  La nostra è la generazione dell’attesa.
  Noi siamo bravissimi ad aspettare.
Intanto il mio coinquilino lo buttano sempre più giù. Gli tagliano le vene ogni volta, ogni giorno; lo umiliano con i sorrisi patinati, con le facce da ebeti, con le automobili di lusso. Lo umiliano e lo deridono. Simone accetta, accetta e cova rabbia. Abbassa la testa, perché noi abbassiamo sempre la testa, e si fa picchiare. Lo colpiscono ovunque ma soprattutto sul cranio, fin dentro al cervello. Gli spappolano le tempie, gli infilano le dita negli occhi, lo soffocano fino a che non rimane senza aria. Allora si accascia e stringe le gambe contro il torace. Ma a loro non importa, si accaniscono ancora. Ridono, quando invia il curriculum ,e dopo aver riso glielo accartocciano tutto, tutta ‘st’esperienza inutile, e glielo lanciano contro una due tre quattro cinque volte. A ripetizione. Senza pietà.
  Sì.
  Siete senza pietà cazzo.
  Dico proprio a voi, non c’avete cuore. Siete dei parassiti schifosi. Vi attaccate ai nostri corpi e ci succhiate anche l’anima. Ci svuotate. E poi, una volta che vi siete ben abbuffati, ci buttate via, come fossimo degli stracci. Ci volete infelici, lobotomizzati, ubbidienti. Ci date ordini, ci usate senza ritegno, stipulate contratti senza senso, ci licenziate e poi ci analizzate. Precarizzate le nostre vite, sempre sull’orlo del baratro, in bilico sulla fune.
  Ma fate attenzione.
Voi,
che vi ingozzate nei ristorantini di lusso,
che navigate in mare con lo yacht,
che parlate senza conoscere,
che mandate i vostri figli nelle scuole private,
che adottate i bambini a distanza e poi sfruttate il vostro dipendente,
che fate leggi sul lavoro,
che amministrate il denaro,
che vivete nei quartieri ricchi,
che spendete ventimila euro per la festa di compleanno,
che non avete senso del pudore,
fate attenzione.
Perché ad una certa la gente si stufa.
Simone si stufa, io mi stufo, noi tutti ci stufiamo.
  La rabbia è tanta, ce l’avete fatta crescere; coviamo rancore e odio e risentimento. Tutti quanti. Abbiamo quindici, venti, trenta, quaranta anni. Oggi accettiamo ma la corda si sta spezzando. Noi siamo gli sfruttati, i poveri, i precari, i disoccupati, i marginali. E siamo molti più di voi.
  Siete quattro gatti, noi siamo milioni.
Fate attenzione quindi, copritevi bene, nascondetevi sotto le coperte, correte da NaturaSì a far la spesa per l’ultima volta perché presto, io lo spero, verremo a togliervi tutto.
  Un po’ di tempo ancora.
  E vi prenderemo anche le scarpe.

  Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: ‘Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene’. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”.
L’odio