martedì 26 gennaio 2016

UN PRURITO LANCINANTE



  Ho fame. Una fame incredibile. Un buco allo stomaco.
Mi alzo.
  Brontola; la pancia dico, brontola proprio.
Nella penombra della stanza cerco l’interruttore.
  Niente, la luce è andata.
Sbuffo.
  Inciampo sul comodino, qualcosa cade.
Fuori, in salotto. Le serrande sono abbassate.
  Tiro la cinghia.
Sudo, come se stessi alzando un macigno.
  Mi sento debole, ho bisogno di mangiare.
La luce del crepuscolo filtra timida dalla finestra.
  Di nuovo, la fitta allo stomaco.
Cerco una candela, ne trovo una mezza andata, quasi finita; raccolgo l’accendino e l’accendo. La cera sbrodola sulle dita.
  Ombre.
  Ombre sulle pareti, sul soffitto, sui mobili. Figure deformate, oscure.
In cucina.
  La mensola, mi serve cibo. I biscotti e il pane e la marmellata e le merendine. Nulla.
  Il mobiletto.
Un piatto di pasta.
  Vuoto.
Arranco.
Sudo freddo.
  Suoni improvvisi.
Provengono da su, come se qualcuno, qualcosa, ticchettasse sul soffitto.
  È ovunque.
Devo mangiare.
  Il frigorifero. Il mio vecchio frigorifero giallo.
No.
Non è possibile.
  È grigio.
  Era il frigo dei miei genitori. Di quando ero bambino. Ci congelavo i pupazzi lì dentro.
Lo apro.
  File di scarpe eleganti. Solo scarpe. Scarpe col tacco, scarpe di pelle, scarpe di pelle di coccodrillo, mocassini. Tutte da uomo.
  Sudo.
Il cuore martella.
  Ancora, il suono mi circonda, sembra… sembra che qualcuno sbatta i pugni sulle pareti.
  Le gambe si muovono da sole.
In salotto scruto la libreria.
È vuota. I libri sono scomparsi.
I miei libri, collezionati da anni, da quando ho cominciato a leggere. La meticolosa divisione per genere e per autore. L’odore delle pagine e le copertine impolverate. Non c’è più niente.
  Corro.
Anche il comodino accanto al letto è vuoto, la pila di romanzi e fumetti è svanita, c’è solo la lampadina fulminata e i tappi per le orecchie.
  «Simone!», urlo. «Simone!»
Non risponde. Vado in camera sua.
  Tock tock, busso.
Un suono, come se qualcuno raschiasse.
Spalanco la porta, la stanza è vuota, deserta. Non c’è niente, non ci sono i poster, il tavolo, i disegni, le scritte, il letto, i mobili, le cartacce, i libri.
  Non c’è il mio coinquilino. «Simone!», provo a dire, ma quel che esce è solo un rantolo disperato, un suono fioco, terrorizzato.
  Lacrimo.
Un colpo alla pancia, una stilettata ben assestata. Sto morendo di fame. Mi piego in due.
  Sì, il telefono. I numeri. Dove sono i numeri? Papà, mamma, i miei amici; guardo il display. Solo immagini; eccole, le foto dei miei genitori. Premo. Non c’è linea.
  Devo mangiare.
Ansimo.
  Mi vesto ed esco. Sul pianerottolo mi fermo, qualcuno mi osserva. Mille ombre mi scrutano minacciose.
  Il braccio sinistro formicola.
  Il cuore scoppia.
Fuori, nel buio del tramonto.
  Mi volto ad osservare il palazzo. Non c’è luce e sembra disabitato.
Un momento.
  All’ultimo piano, dalla finestra col panno nero, una luce si accende ad intermittenza. C’è un uomo. È vecchio e la barba cade copiosa, potrebbe farci una corda tant’è lunga. Scorgo le dita ossute che mi indicano. Il vecchio sorride senza denti e si spoglia. Poi prende un fiammifero.
  Mi volto.
  E corro.
  Lungo i vicoli, nelle strade incatramate, sulle vie consumate, tumefatte, grigie, mentre il buio avvolge ogni cosa, un manto nero senza stelle.
  Non me ne rendo subito conto.
  Solo quando riprendo aria.
  Non c’è nessuno. Solo cartacce e assorbenti e siringhe.
La fame mi divora, come se non mangiassi da giorni.
  Mi sento osservato.
Il nero è ovunque, sembra vivo tant’è denso.
  Di nuovo il suono, simile allo stridio delle unghie che graffiano la lavagna.
  Una fitta al petto.
Una luce in fondo alla strada.
È un’edicola.
  «Scusi», domando.
Ma non c’è nessuno e soprattutto non ci sono giornali e riviste e fumetti. Giusto le buste gransorpresa e i film scontati.
  Osservo i muri che mi circondano, muri alti e vertiginosi. Non lo noto subito, solo dopo un po’, quando il mio sguardo si abitua al buio. Sulle pareti non ci sono scritte, non c’è niente. Sono grigie e pulite, non c’è una tag, un graffito, un “Forza Roma”. Nulla.
  Frugo nella tasca della giacca e afferro il taccuino che porto sempre con me, ché mi serve ad appuntarmi le idee che mi frullano nella testa, quelle per i raccontini e per i romanzi mai scritti. Il taccuino da cui non mi separo mai, il mio confidente, il mio amico. Sfoglio le sue pagine, è vuoto e bianco.
  Osservo le insegne dei negozi, al posto delle scritte grandi disegni. Alcuni rappresentano pantaloni, altri cellulari, altri ancora computer.
  Mi fanno male i muscoli.
  Prurito.
  Mi gratto.
Le gambe traballano.
  Un suono in lontananza.
La telecamera si muove e mi fissa.
  Devo pisciare.
Mi sbottono la cerniera.
La pipì è nera e densa.
  Grido.
Non riesco… a parlare.
  C’è una penna a terra, la raccolgo e provo a scrivere sul taccuino. Traccio una linea, poi un’altra. Osservo. Cerco di ricordare l’alfabeto.
  “Cos’è l’alfabeto?”, mi domando.
Scarabocchio segni senza senso.
  Non so scrivere.
  Non so niente.
Serro i denti.
  Un’ondata di calore improvvisa mi colpisce, come se un sole cuocente nascesse all’interno del mio corpo. Mi gratto.
  Zoppico reggendomi al muro.
Poi sono su una grande via.
Dove sono le automobili? Solo tram, decine e decine di tram.
  Un… un momento!
  Sono pieni di gente!
Comincio a ridere. Non sono solo, non sono solo!
  Piango.
Aspetto alla fermata.
  Uno, due, tre, quattro, cinque.
Ecco il tram. Allungo il pollice, si ferma. Salgo.
  È colmo di gente e sono tutti seduti. Guardano fisso un punto vuoto e nessuno parla. Anche il tram sembra silenzioso.
  Non capisco niente.
  La testa gira, ho bisogno di sedermi. Lo stomaco riprende a brontolare. Devo parlare con qualcuno, scambiare due parole.
  Mi accosto ad una donna di mezza età. «Mi scusi», faccio.
Non si volta. Allora la tocco. Lei si gira e mi osserva scocciata, poi torna a guardare il nulla.
  «Mi scusi», ripeto, ma la signora non presta attenzione.
Provo a deglutire.
Raccolgo l’aria e urlo. Tutti si voltano a guardarmi, scrutandomi come se fossi pazzo, uno apre la bocca, fa per dire qualcosa ma poi ci ripensa.
  La vista si appanna. Sto per svenire, devo mangiare.
Scendo.
  La strada è piena di persone, i lampioni illuminano il tutto.
Uomini e donne camminano facendo attenzione a non incrociare gli sguardi.
  Ne spingo uno.
  Poi un altro.
Nulla. Mi scrutano minacciosi, come se li avessi interrotti, anzi no. Come se la cosa apparisse inopportuna.
  Mi sento solo.
Annaspo.
  C’è un locale aperto, dentro ci sono solo maschi, sono seduti composti sulle sedie di legno, tutti in fila; un tavolino davanti ad ogni postazione è posizionato con cura, sul tavolino c’è una piccola ciotola di metallo, dentro la ciotola zampillano pasticche di tutti i colori, gli uomini le ingoiano come fossero caramelle, ogni volta il loro sguardo si fa un po’ più vacuo, fumoso. Osservano, nessuno escluso, il grande televisore appeso al muro; lo schermo trasmette pubblicità ad intermittenza, solo pubblicità. Prodotti di bellezza, detersivi convenienti, donne nude e vecchi in perizoma. Nessuno fa caso a me, tranne un cameriere che mi indica un posto vuoto. Faccio no no con la testa ed esco.
  Il prurito riprende ancora più insistente. Se avessi un coltello mi squarcerei il braccio per farlo smettere.
  Mi sfrego premendo le unghie, entrando fin sotto la carne.
Ho bisogno di aria.
Ho bisogno di cibo.
  Un uomo si ferma. Allunga il braccio verso di me, visibilmente imbarazzato. Apre la bocca e prova a parlare ma emette solo versi sconosciuti, striduli, lancinanti, come quelli di un bambino triste.
  «Ho fame», gemo.
L’uomo annuisce.
Non sa parlare.
Non. Sa. Parlare.
  Mi indica un punto imprecisato in fondo alla via.
  «Grazie», sussurro.
Ora cammino di fretta, il prurito sempre più forte, la strada illuminata a giorno, i negozi aperti, spalancati, vuoti.
  Non ci sono librerie in giro.
  Non so leggere.
  Non so scrivere.
Mi gratto.
Mi gratto forte.
Fino a che non tocco il metallo.
Allora abbasso lo sguardo e osservo lo squarcio nella carne.
  No.
Non c’è sangue.
  No.
Alzo la testa, le lacrime mi tagliano il volto.
  Balbetto.
C’è una lunga fila davanti al benzinaio.
Decine di persone aspettano composte una dietro l’altra. Nessuna si tocca.
  Attendo il mio turno, lo sguardo basso.
Il tempo non ha più senso.
Il braccio penzola nel vuoto.
Filamenti.
  Ecco, ora vedo, quando la fila si dirada e solo due persone si frappongono tra me e il distributore.
  Il benzinaio afferra la pompa, il cliente paga e apre le labbra. Il benzinaio, come un novello cameriere, infila il tubo nella bocca del tizio che beve e beve e beve.
  Ho fame.

  «Aho».
Spalanco gli occhi.
  «Aho!», mi fa Ganesh, il mio amico immaginario, strattonandomi. «Ti stavi tutto ad agitare, manco fosse la fine del mondo… guarda, sei sudato da far schifo, hai inzuppato le lenzuola. Davvero, senza ritegno».
  «Cazzo Ganesh, era un sogno…»
  «Mi sa di sì, stolto umano…»
  «Pensavo d’essere un cyborg.»
  «È che guardi troppi film di fantascienza. Lo sai che poi fai gli incubi la notte. Te lo dice pure tua mamma».
Mi alzo di corsa. I libri ci sono, afferro il quaderno e scrivo. Daje, l’alfabeto lo so.
  Poi corro da Simone e lo sveglio.
  «Ci sei!», sorrido, «Facciamo una canna per festeggiare!»
  «Ma che ore sono?», sbadiglia il coinquilino.
  «Le quattro del mattino, lo dice l’orologio. Ha i numeri!»
  «Elia, torna a dormire, è tardi…»
  «No, è presto… dove hai messo il fumo?»
  «In salotto, adesso lasciami in pace…»
Corro in salotto. Incubo del cazzo, i libri ci sono tutti, mica no. Che qui la cultura è ‘na cosa seria.
  Mi siedo sul divano, davvero sono tutto sudato. Totalmente bagnato. Domani mi prendo un giorno, mi sa. Tipo che telefono e dico che sto male, tanto l’influenza gira e a me la sinusite m’è appena passata. Tipo.
  Rollo la canna.
  L’accendo.
  Fumo.
Lo stomaco brontola, la fame torna improvvisa e perversa.
Fame di qualcosa di nuovo, di denso.
  Poi, di colpo, il braccio comincia a prudere.


Il prossimo raccontino esce  martedì 9 febbraio...

martedì 12 gennaio 2016

MUCO



  Non sento
  niente.
Bloccato.
Immobile.
Il viso contratto in una smorfia.
  Il tubo di plastica nelle narici.
La testa è piena, gonfia.
  L’orecchio sinistro è andato.
Qualcuno parla, mi volto.
  Nulla.
Apro la bocca, sussurro. Il suono echeggia nella mia testa, amplificato cento mille volte.
  Rimbomba.
Mi accascio.
  La Macchina è lì.
  E mi osserva.
  «Amici & Amiche, oh voi! Fidi lettori delle storielle del martedì, voi! Che avete sopportato, scusate, supportato Elia Mangiaboschi! È proprio a voi che devo, con profondo dispiacere, comunicarvi il triste evento. Il suddetto sta per intraprendere un lungo viaggio…»
  «G… Ganesh…», lo imploro.
  «Ammiratelo… guardate come prova ad avvicinarsi al sottoscritto. La mano tremante che si allunga sulla mia proboscide».
  «G… Ganesh…»
  «Un viaggio che lo porterà ai confini del tempo, per arrivare là dove nessuno è mai giunto prima…»
GRANDE PUFFO: Signor Spock siamo pronti?
SIGNOR SPOCK: Raggi temporali attivati.
SIGMUND FREUD: Lacrime?
SIGNOR SPOCK: Azionate.
KARL MARX: Battito cardiaco?
SIGNOR SPOCK: Regolare.
GRANDE PUFFO: Dobbiamo sbrigarci, della Stanza dei Bottoni ormai non è rimasto quasi niente. Galleggiamo in questo mare da tanto e la balena è sempre più vicina. Se anche il joypad…
CAPITANO ACHAB: Non lasciatevi intimorire dalle gialle onde… resistiamo!
KARL MARX: E’ la fine compagni. In molti ci hanno già lasciato.
PIERO ANGELA: Come è cominciato tutto questo?
UNA MOSCA: Non potevamo sapere…
GRANDE PUFFO: E’ colpa tua! Solo tua!
JOHN LOCKE (quello di Lost): Moriremo tutti!
SIGMUND FREUD: No, se decidiamo di attivare la Macchina.
GRANDE PUFFO: Okay. Basta che Elia spinga il pulsante. Sarò io a manovrarlo. Il futuro della Stanza dei Bottoni dipende da me… per tutti i puffi! Avrei bisogno di un cicchetto, se solo avessi la forza di bere. Tre, due, uno. Motore a curvatura pronto.
  Muovo il braccio.
  Spingo il pulsante.
  Fssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssss, geme la Macchina.

Quattro giorni prima
   Immobile, osservo i miei colleghi, hanno la faccia strana, opaca quasi. Gli occhi a mezz’asta mi scrutano ogni tanto, ma lo fanno senza un reale interesse, anzi. Più che scrutarmi mi trapassano, come se non esistessi.
  L’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante si volta allungando le braccia in avanti, sbatte contro il compagno e si rialza.
  Sono i piedi a colpirmi, piedi che si trascinano uno dopo l’altro, in un percorso continuo.
  Mi tocca. «Elia…», sbava. «Elia».
Mille gocce di saliva mi raggiungono in un attimo; le vedo, una ad una, trafiggermi il volto, come proiettili in un duello.
CARL GUSTAV JUNG: Oh ma che schifo!
BATMAN: Dai, tanto tutti i portelloni sono stati chiusi. Al joypad ci sta un asso. Cioè, stiamo parlando della Vecchiaia, sai che esperienza ha quella?
MASTRO LINDO: Io comunque una rassettata veloce qui dentro la darei, dovesse attaccarci qualcosa. Chi si offre volontario?
GRANDE PUFFO: Io lo farei pure… ma Superstellino come al solito mica li ha comprati gli stracci eh. E qui noi puliamo solo con roba pulita. Ricordate sì l’ultima volta che abbiamo dato un’ordinata? Prima di capodanno dico.
MASTRO LINDO: Molto prima.
GRANDE PUFFO: Vabbè, fa lo stesso. Sotto al divano dove bivacca la Kundalini non si sa che schifo c’era. I microbi cazzo. Dei mostri grandi quanto la capoccia mia. E tutto per colpa degli stracci sporchi. Pulire con lo straccio sporco è inutile. A ‘sto punto non facciamo niente. Piuttosto, la birra dov’è?
IL MICROBO: Su! Tutti in piedi! Ci siete? E via con la danza! Microbotechnoraveparty!
MASTRO LINDO: Guardate che gira l’influenza ed Elia non ha fatto il vaccino. E quelli ballano, non vorrei dire ma a me sembrano sempre di più.
MICHAIL BAKUNIN: Il ragazzo è cresciuto. È un uomo ormai. Che vaccino e vaccino, a sponsorizzare così le aziende farmaceutiche.
YOGI BHAJAN: L’ho sempre detto io, questa volta ha ragione l’anarchico. Dovremmo cominciare a far curare l’adorato con l’omeopatia. Ora respiriamo tutti insieme.
GRANDE PUFFO: Zuccherini manco zuccherati.
  Respiro.
Guardo l’orologio. Anche oggi è andata.
  Sgattaiolo veloce in bicicletta superando auto e motorini. Poi d’improvviso mi blocco. Una nube di smog si abbassa prepotente sulla metropoli.
  Mi avvolge.
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKI: Ma voi vedete qualcosa?
MASTRO LINDO: Un tubo, c’abbiamo tutti i vetri appannati.
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKI: E se non vediamo niente…
KARL MARX: …Cosa facciamo fare ad Elia?
MATRO LINDO: Basterebbe pulirli. N’è che ci vuole molto, un paio di vecchi giornali, un po’ di alcol e il gioco è fatto. Come dice sempre Anita, più a dirlo che a farlo.
GRANDE PUFFO: Giammai! Che ne sa Anita della vita in città, vive in campagna quella…
  Rimango fermo, tossisco, poi la nebbia si dirada.
E il mondo
ha di nuovo i colori sbiaditi della metropoli.
  Non lo noto subito, solo dopo un po’, quando riprendo a pedalare. C’è qualcosa di diverso che non riesco a mettere a fuoco.
  Cosa sta succedendo?
MASTRO LINDO: Se non gli lacrimassero gli occhi forse vedrebbe.
GRANDE PUFFO: Oh, fate spengere la musica a ‘sti cretini per favore? Già mi stanno dando ai nervi, microbetti da strapazzo…
UNA MOSCA: Ma sono così carini, adorabili…
MASTRO LINDO: Ripeto, a me sembrano sempre di più.
IL MICROBO: Salsa!
  Sono le persone. Le vedo camminare come fossero morti viventi, le braccia tese, lo sguardo perso, la lingua che sguscia dalla bocca e i tre diavoletti del raffreddore che martellano la capoccia, quelli della pubblicità sì. Io non li tollero.
  Mi infettano.
  Ma ancora non lo so.
IGNAZ PHILIPP SEMMELWEIS: Salve, mi presento, sono il dottor Semmelweis, scopritore della principale causa della febbre puerperale. Le cose semplici, ahimè, sono le più complicate da comprendere. Come ora, adesso. Il signor Mangiaboschi non sa ad esempio che, per merito dello smog e delle classiche influenze di stagione, è stato appena contagiato. Tempo mezza giornata e il suo corpo verrà colpito da forte tremolio. Inoltre, cosa ben più grave, il signor Mangiaboschi ha contratto quel che viene comunemente chiamato raffreddore.
GRANDE PUFFO: E come possiamo noi evitare tutto questo? Odiamo l’influenza…
IGNAZ PHILIPP SEMMELWEIS: E’ molto semplice. Non potete. Ormai è fatta. Il signor Mangiaboschi è ammalato. Ma, vi assicuro, la febbre non è niente rispetto a qual che succederà subito dopo.

Cazzo.
  «Che?», mi fa Ganesh.
  «Mi sento parecchio giù di tono».
  «Oh oh».
  «Vabbè, ho preso freddo… mi sa. Un’aspirina e torno come nuovo».
  «Dici?»
  «No?»
  «Hmmm. E se fosse… che ne so, febbre gialla? Con la febbre gialla diventi giallo… credo. O, ancora peggio, mucca pazza».
  «Sono vegetariano».
  «Carota pazza, cipolla pazza, mozzarella pazza, mozzarella blu, mozzarella viola, mozzarella verde, cavolfiore pazzo. E che ne sai… mica mangi bio tu».
  «Ma no…»
  «Ma sì! O forse la SARS! Oh Dio Elia! Morirai!»
  «La SARS in Italia mica ci arriva…»
  «E che ne sai? Sporco capitalista da quattro soldi! Casomai il portatore sei tu! Hai visto oggi l’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante? T’ha sputato addosso, ‘stammerda… t’avrà contagiato. Dov’è che è andato in vacanza?»
  «Anzio».
  «Eh. Il mare… si sa.»
  «Dici?»
  «Avoja! Come ti senti? I sintomi ci sono tutti… febbre, tosse…»
  «La tosse non ce l’ho… e manco la febbre, credo».
  «Perché usi quel cazzo di termometro elettrico del cazzo! Stolto umano, avete abolito il mercurio! Dipendete sempre più dalle macchine… c’hai presente Terminator no? O anche il libro che stai leggendo adesso, molto bello, se posso…»
  «Ed io», si intromette Mercurio, «ormai non conto più niente…»
  «La SARS, lo sapevo… è roba tua… come ti senti Elia?»
  «Mi manca un po’ l’aria Ganesh…»
  «Dispnea!»
  «E che è?»
  «Ma che ne so, l’ho letto ora su Wikipedia…»
  «Fame d’aria ignoranti», ci fa il signor Wikipedia.
  «Scusi signor Wikipedia… c’ho una divinità incompetente come amico immaginario… che dice, potrei essere malato?», domando.
  «Potrebbe sì, ma non demorda. Risolveremo il suo caso».
  «Corri sciocco! Vai da Simone, fatti aiutare!»
Il coinquilino è in salotto, sprofondato sul divano, la tuta di due settimane imbiancata di gesso.
  «Ehi, perché sei sporco di gesso?»
  «È una lunga storia… ma… mio Dio Elia, che hai? Sei bianco come un cencio...»
  «Ma poi», dice Cencio, «non è che io sia così bianco. Anzi.»
  «Simone… sono malato. Tutta colpa dell’Uomo-Che-Parla-Con-La-Stampante e di questo inquinamento che uccide.»
  «No eh. Ambientalista no Cristo. Tutto ma non ambientalista. Okay antifascista, okay antirazzista, okay difensore degli ultimi, sabotatore & comunista, paladino dell’Uomo delle Nevi e di Babbo Natale, amico del quarto Re Magio deceduto in circostanze misteriose e di tutti i vermi che popolano di nascosto ‘sto pianeta marcio. Ma ambientalista no. Quasi peggio degli animalisti. No. Vabbè. Come non detto, peggio degli animalisti no. Lo sai che c’è? A te mancano le vitamine della carne, vegetale da strapazzo! L’Omega 3! Te lo dico io! Che sei pure anemico. Andiamo a mangiarci una bella bistecca al sangue dai!»
  «Il lato oscuro della Forza si sveglia in te, mio giovane jedi, combatterlo tu devi», mi sussurra il maestro Yoda.
  «Mai! Guarda la tua mano! È nera! E poi t’ammalerai te prima o poi! Con la mucca pazza! Assassino maledetto mangiacapretti».
GRANDE PUFFO: Elia si sta scaldando.
MASTRO LINDO: Così suda.
GRANDE PUFFO: Uh?
MASTRO LINDO: Dico, così suda!
GRANDE PUFFO: Non sento niente! Fate abbassare la musica a ‘sti microbi! Superstellino fai qualcosa!
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKI: Non posso, sono troppi…
UNA MOSCA: Lasciamoli ballare… uniamoci a loro.
KARL MARX: Compagni, non notate niente di strano?
LA VECCHIAIA: ?
KARL MARX: Le pareti della Stanza dei Bottoni, stanno diventando gialle.
  Ho un mancamento. Crollo a terra. I diavoletti del raffreddore mi circondano, martellando sul cranio.
  «Aho».
  «Aiuto…»
  «Ma che non lo vedi? Sono sul divano, in procinto di accendere la Play. Alzarmi sarebbe un gesto di grandissima amicizia nei tuoi confronti. E noi, ricordalo bene, viviamo insieme, mica siamo amici.»
  Allungo la mano verso Simone. «Un’aranciata», gemo.
  «Guarda che l’aranciata ti fa male a quest’ora. Poi non la digerisci, te lo dico io. Meglio uno spino no?»

Tre giorni prima
  Ho trentotto di febbre. Anita mi ha detto al telefono che a lei è durata un giorno e che poi però la mattina dopo stava bene, un grillo, ha detto. Le ho chiesto di venirmi a trovare ma lei, gentilmente certo, ha declinato l’invito. Ben più premurosa si è dimostrata mia madre. Si è presentata con ottantanove pacchi di Aspirina, tredici scatole di Moment, ventiquattro flaconcini di Benagol, sessantadue bustine di Tachifludec più una siringa bella grossa, del disinfettante e tutte le cose per curare i calcoli. «Che non si sa mai», m’ha fatto. È avanzata bardata dalla testa ai piedi, con una tuta anticontagio di quelle bianche e mi ha obbligato a mettermi al letto (io odio stare al letto) con Simone dietro che trotterellava tutto contento, come un gatto che fa le fusa. Mamma mi ha preparato anche:
- La spremuta d’arancia;
- La minestrina al brodo vegetale;
- Il pesce.
  Il pesce io ho detto che non lo mangio e lei, visibilmente colpita, mi ha risposto: «Ma il pesce mica è carne…»
  Poi, altrettanto velocemente, è andata via. Dopo cinque minuti mi ha telefonato. «Come ti senti?», mi ha chiesto. «Come prima», ho risposto. Le chiamate si sono ripetute ad intervalli di sette minuti e dodici secondi esatti per tutto il giorno.
  «Avercela ‘na mamma così», mi ha sorriso il coinquilino accendendosi una sigaretta e sputando tutto il fumo nella stanza.
  «Non è che fumeresti di là?»
  «Sei pazzo? Hai bisogno di rinforzi, di anticorpi, lo faccio per il tuo bene. Non cambieremo le nostre abitudini, facendoci governare dalla paura. Non ci avranno mai!»
  Ogni tanto credo Simone mi odi.

Due giorni prima
  Simone ha sigillato la mia stanza con il nastro rosso e bianco della municipale. Ha messo un bel cartello giallo con scritto “QUARANTENA” sulla porta. Si presenta da me completamente coperto e con una maschera antigas in testa. Non parla più, mi porta solo il rancio riscaldato e un’aranciata con due cucchiaini di zucchero, nonostante a me piaccia naturale, senza zucchero insomma.
  La stanza è ridotta un cesso, ci sono cartacce in ogni angolo, fazzoletti sbracati di muco e macchie gialle alle pareti.
  Mi affaccio alla finestra.
Una macchina nera è ferma sulla strada da ieri sera, un uomo e una donna (giacca & cravatta lui, tailleur nero lei) ogni tanto escono e guardano verso la mia finestra, indicandola.
  «È l’FBI», mi fa Ganesh. «Americani. Mulder e Scully secondo me. Ti stanno controllando, ti spiano. Sicuro sei un soggetto interessante. Ad Anita la febbre è passata in un giorno, a te peggiora. Prova a tirare su con il naso. Bravo. Vedi? È impossibile, tutto otturato. Guarda a terra, fazzoletti ovunque. I diavoletti del raffreddore stanno facendo un casino. Sei pieno di moccio. Sei contagiato ormai. Perso. Una nuova malattia, un virus creato in laboratorio, probabile nell’Area 51, che mica si trova negli Stati Uniti, quello solo gli sciocchi lo pensano. No. È qui in Italia, a Centocelle. Ti stai trasformando in una mosca. O in uno zombie, fai tu».
UNA MOSCA: Sarà bellissimo! Tipo che gli cascano le unghie come nel film, che si riempie di occhi e gli vengono pure le ali!
GRANDE PUFFO: Eh?
UNA MOSCA: LE ALI!
GRANDE PUFFO: Oh, io non sento più un cazzo.
KARL MARX: Un cornetto è quello che fa per te.
GRANDE PUFFO:Come?
KARL MARX: UN CORNETTO!
GRANDE PUFFO: Non ho voglia di gelato, ho freddo.
KARL MARX: Un cornetto per le orecchie, mica un gelato. Quello per sentire insomma…
GRANDE PUFFO: E’ ‘sta musica! E i microbi che ballano! Sono miliardi ormai! Guarda! Ovunque!
KARL MARX: Sono piccoletti ‘sti bastardi. Difficile stanarli…
GRANDE PUFFO: Stanno rosicchiando tutti il quartier generale…
KARL MARX: Che?
GRANDE PUFFO: Eh?
SIGMUND FREUD: Tutti sordi qui dentro…
MATRO LINDO: Osservate le pareti, sono giallo muco…
YOGI BHAJAN: La Stanza dei Bottoni sta mutando…
BATMAN: Non la sentite la puzza?
CARL GUSTAV JUNG: Affacciamoci, nei profondi abissi dell’Io…
YOGI BHAJAN: No… qui è tutto attorno… non viene da sotto…
GIACOMO LEOPARDI (che ha sempre la faccia di Elio Germano): E’ anche difficile manovrare Elia… vorrei farlo arrivare al fazzoletto, ha il naso pieno di moccio.
  Mi muovo, le ossa doloranti. Raccolgo il fazzoletto da terra e mi soffio il naso.
  Poi, improvvisamente, si crea la Bolla.

LA BOLLA
[Una bolla venne creata dalle divinità del male, una bolla di muco e schifo… e da molti venne chiamata la BOLLA]
  PIERO ANGELA: Buongiorno. Nell’episodio di oggi vi narreremo le gesta del buon Mangiaboschi, nostro diletto, e del suo corpo. Assisteremo quindi ad un incredibile viaggio ai confini del muco, materiale di cui è composta la Bolla, creata…
ROBERTO GIACOBBO: Lascia fare a me. Ci addentreremo insieme attraverso questo incredibile materiale che grazie ad un permesso speciale dato dalla direzione siamo riusciti ad ottenere, il permesso dico. Di girare. Nella Bolla. Siete pronti? Il viaggio sta per cominciare…
  La Bolla mi avvolge. Cammino piano, totalmente pieno. Non sento niente, non capisco niente. Arriva Simone, parla.
  «Scusa?», domando.
La mia voce.
Rimbomba.
GRANDE PUFFO: Dobbiamo far qualcosa!
IL CRICETO: Portiamolo in farmacia.
  Decido di uscire, devo andare in farmacia.
Cammino in strada, la Bolla gialla, sempre più densa e solida, mi avvolge nel suo abbraccio mortale.
  Mi sento come…
  lo spazio sì.
Io
nuoto
nel
 muco.
  Entro. Ad accogliermi il farmacista, un uomo in camice bianco e la parlantina facile, con i capelli tirati e impregnati di gel e la riga da una parte (a sinistra); mi osserva un attimo, analizzandomi con i suoi occhialetti tondi, squadrati, spessi.
  «Lei non sta bene.»
  «Eh?»
  «Lei non sta bene…»
  «Eh?»
  «LEI-NON-STA-BENE!»
  «No… sono tutto otturato! Non sento niente!», urlo.
  «Sintomi?»
  «Non ho capito…»
  «SINTOMI!»
  «Ah… ho un dolore forte che parte dal naso e arriva all’orecchio, e mi fa pure male la bocca, mi tirano i denti. E anche la guancia. Cioè, mi tira la guancia. Mi tira. La guancia dico. Non sa quanto mi t5ra.»
  «T5ra?»
  «Errore di battitura, mi scusi. Volevo dire “tira”».
  «Lei ha un tubo ostruito. Dobbiamo operare!»
  «Come?»
  «O-PE-RA-RE! Le infileremo una sonda biomeccanica nell’orecchio e asporteremo via tutto! Altrimenti il muco si impadronirà di lei!»
GRANDE PUFFO: Diventeremo schiavi del muco!
JOHN LOCKE (quello di Lost): Moriremo tutti!
I MICROBI (tutti insieme): Mu-co! Mu-co!
  «È pericoloso?»
  «Potrebbe perdere l’udito. E la vista. Se il dottore sbagliasse, Dio ce ne scampi, rischia la paralisi totale.»
  «Scusi?»
  «LA PARALISI TOTALE!»
  «Io non sento niente! Ma non voglio morire!»
  «Mette in dubbio la mia parola?»
Il vento si alza improvviso nella farmacia, i clienti di colpo si bloccano, l’aria si fa densa, come il burro ancora da spalmare.
  Stringo gli occhi. Il farmacista non mi avrà.
Il camice bianco si leva nell’aria.
Da dietro la capoccia dell’uomo i diavoletti del raffreddore spuntano malvagi.
  «Non ti fidare umano», mi dice Ganesh. «Lo controllano, vedi? Si sono impadroniti di lui.»
  «Ascolta il tuo amico immaginario, potrebbero anche essere alieni. Potrebbero. Guarda la pelle del farmacista. È un Visitors! Scappa finché sei in tempo. Fuggi!», urla Giacobbo.
  Corro via, mentre tutti, con dita esperte, cominciano a strapparsi la pelle dalle guance.

BATMAN: Osservate le pareti, sono viscide…
GRANDE PUFFO: Mi puffa ammetterlo ma dobbiamo far qualcosa. Non ho manco più voglia di bere.
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKI: Cosa?
KARL MARX: L’unica speranza è distruggere la Bolla.
MASTRO LINDO: Ma come?
I MICROBI (tutti insieme): Abbiamo noi la soluzione! Vi aiuteremo…
IL CRICETO: In che modo?
I MICROBI (tutti insieme): Aspirate. Aspirate la Bolla e tutto vi apparirà finalmente chiaro.
IL CRICETO: Che dite, ci fidiamo?
OSHO RAJNEESH: Ciò che deve accadere accadrà e tu hai una scelta: andarci insieme o andarci contro.
UNA MOSCA: Ma certo… fidiamoci, sono adorabili…
  Okay. Prima soffio, poi tiro su con il naso.
  Tiro forte.
UNA MOSCA: Di più!
  Ancora.
La Bolla implode.
L’aspiro dall’interno, entra tutta nella narice sinistra, una grande pippata di muco.
  Ora è in me.
  Vive.

Un giorno prima
  Non sento.
Il mio cervello è avvolto dal moccio.
  Completamente.
La Bolla che circondava il mio corpo è qui, dentro, e avvolge le pareti.
CAPITANO ACHAB: Le pareti della Stanza dei Bottoni sono andate!
PETER PAN: Siamo perduti! È un mare in tempesta quello che ci circonda!
GRANDE PUFFO: Superstellino… Superstellino dove sei?
SIGNOR SPOCK: Alcuni non hanno resistito, ma non si preoccupi. Superstellino ha il tubo.
UNA MOSCA: Guardate che onde… sono altissime!
MASTRO LINDO: E fanno pure parecchio schifo, così tutte gialle e viscose...
PETER PAN: Appiccicose.
KARL MARX: Dobbiamo metterci in salvo…
SERGENTE HARTMAN: Forza smidollati! Non demordete! Capitano Achab, la barca è pronta?
CAPITANO ACHAB: Definirla barca mi sembra un po’ azzardato sergente… ma sì, è pronta…
SERGENTE HATMAN: Veloci allora! Tutti a bordo prima di morire affogati… di corsa palle di lardo!
KARL MARX: Il joypad, non scordate il joypad!
  Sono otturato. Vorrei avere uno sturacesso, metterlo nell’orecchio e tirare.
  «Così di te non rimarrebbe più niente. Un mio amico l’ha fatto e certo, il moccio l’ha pure tirato via, ma assieme c’era pure il cervello e le ossa e tutte schifezze che galleggiavano. Cioè, una roba assurda. Si è autosucchiato. Invece tu te ne resti qui al letto a guardare i film muti. Tanto ti piacciono no?»
  «Ma Cristo Ganesh, guarda!», dico aprendo il fazzoletto pieno di materiale giallo, alieno.
  «Ohhh, cosa sono quelli?»
  «E che ne so, vengono da dentro».
  «Guarda… sembrano vivi, vedi come fanno ciao ciao con la manina?»
  «Dici che mi devo preoccupare?»
  «Ad avere forme di vita nella tua testa, estranee a te? Ma no! Sai quanti parassiti ci sono che manco te ne accorgi? Va tutto bene Elia, rilassati…»
  «Forse sarebbe il caso di chiamare la dottoressa. È gratis».
  «Mai fidarsi dei dottori! Chiedi a Simone piuttosto!»
Raccolgo la campana con cui chiamo il coinquilino.
  Dlin dlin
[per gli ignoranti, dlin dlin è il suono della campana]
  Simone si presenta vestito da palombaro cyberpunk, ‘sta tuta gliel’ho già vista addosso, mi domando dove la nasconda. Respira a fatica, poi prende il cellulare e mi invia un messaggio: “D qui dntr nn pss parlare”, c’è scritto, nel tipico linguaggio da SMS, “ke vuoi? Sn mlt impegnato. ☺”
  «Aiutami… sto morendo. Chiamo la dottoressa?»
  “La dtt? 6 mtt! T cr io!”
Poi va di là, torna cinque minuti dopo con un bibitone rosso.
  «Che è?»
  “Sc d pmdr”.
Lo bevo, poi chiamo la dottoressa.

GRANDE PUFFO: Navighiamo a vista!
KARL MARX: Guardate laggiù, cos’è?
CAPITANO ACHAB: Sono i microbi, si sono uniti tutti insieme… sembra… oh mio Dio, è una balena! Ci divorerà!
JOHN LOCKE (quello di Lost): Moriremo tutti!
PIERO ANGELA: Presto presto!
SERGENTE HATMAN: Senza paura, incontro alla morte!
UNA MOSCA: E’ troppo grande!
GRANDE PUFFO: Fai silenzio! È tutta colpa tua! Adorabili i microbi eh? Guardali ora!
CAPITANO ACHAB: Come una tigre feroce che smaniando nella giungla schiaccia i propri cuccioli, così il mare scaraventa contro gli scogli persino le balene più possenti e lì le abbandona fianco a fianco coi relitti frantumati delle navi.
GRANDE PUFFO: E quindi?
CAPITANO ACHAB: L’oceano senza padrone invade il globo.

Oggi
  Molti di voi, Lettori & Lettrici, conoscono la Macchina. Alcuni sicuramente l’avranno usata da bambini, quando ancora c’erano papà e mamma a pensare alla vostra incolumità, altri l’avranno scoperta più in là, nella solitudine della camera da letto, al buio, ascoltando il suo lamento monotono e ripetitivo.
  Certo ricorderete la lentezza incredibile, lo scorrere del tempo che pare infinito, le lancette dell’orologio, il lungo tik tak, eterno e assordante.
  In molti, ne sono sicuro, avranno rinunciato alle sue cure, terrorizzati dalla lentezza della Macchina.
  I più intraprendenti e i più malati avranno però ceduto, scegliendo così di intraprendere il lungo viaggio nel tempo.
  La Macchina può infatti portarvi più in là, avanti di dieci venti cento anni. La Macchina può tutto, basta inserire i giusti ingredienti.
  Si dice sia stata inventata da uno scienziato rapito dagli alieni (sempre loro) e riportato sulla Terra solo per poter diffondere la Macchina. In molti hanno provato a distruggerla e durante la Guerra Fredda si pensa sia stata usata come mezzo di tortura dai servizi segreti americani. Chi ne parla purtroppo non è mai più tornato.
  Si dice anche che la Macchina possa far viaggiare nel tempo, ma solo in avanti.
  È bianca.
  Negli anni è andata a rimpicciolirsi.
I casi di suicidio documentati sono molti, il tempo infatti perde di senso una volta collegati e tanti uomini sono impazziti.
  Ma è l’unica soluzione.
La Morte mi scruta minacciosa proprio accanto al letto.
KARL MARX: E la balena è sempre più grande.
  Guardo la Macchina e il suo tubo trasparente, lungo come la coda di un mostro futuristico.
  Preparo gli ingredienti, studiando bene il flaconcino alla luce della lampada elettrica.
  Sono io, Signori & Signore, solo io. Il pazzo, il folle, l’uomo di scienza, l’erudito, il chimico. Colui che può.
  Non ho più paura.
Se così deve essere.
Così sia.
  Sono pronto per il viaggio nel tempo.
Clenil (mezza fiala), Fluimucil (una fiala), Narhinel (quindici gocce).
  L’odore di zolfo si leva nell’aria, i diavoletti del raffreddore fanno un passo indietro.
Mastico la gomma alla fragola, come mi ha consigliato la dottoressa.
  Muovo il braccio.
  Spingo il pulsante.
  Fssssssssssssssssssssssssssssssssssssssssss, geme la Macchina.
Un colpo, poi un altro.
GRANDE PUFFO: Guardate! Cosa succede?
KARL MARX: Sembra di stare alle terme…
CAPITANO ACHAB: La balena! Si sta rimpicciolendo! I microbi cadono in mare!
UNA MOSCA: E anche il muco… guardate come scende, come se fosse risucchiato da un vortice.
  Il tempo.
  Il tempo scorre attorno a me. Minuti, giorni, mesi, anni.
Attaccato alla Macchina osservo i miei cari morire e le loro ossa farsi polvere. Immobile, seduto sul divano, l’intero pianeta cambia fisionomia. Vedo le automobili mutare e le ruote scomparire. Scopro nuove architetture, nuovi palazzi, tecnotorri più alte del cielo, zoo popolati da animali robot, uomini fermi sempre più grassi, orti verticali, mutanti, androidi e cyborg. Ancora, unito alla Macchina dal tubo di plastica, scorgo un mondo incredibile. Poi vedo la fine del genere umano e rimango solo in mezzo alla natura. In pochissimo tempo le piscine diventano stagni, le radici degli alberi spuntano dal cemento e le zanzare prendono il sopravvento; le centrali atomiche esplodono e la vita, così come la conosciamo, cessa. Ancora più avanti, la Macchina lenta e il suo moto continuo, perpetuo; il futuro mi appare radioso e nuovi esseri nascono, incredibili e bellissimi, il…
GRANDE PUFFO: Vabbè, mo basta. Elia si è addormentato. ‘Sto cazzo di aerosol è lento che è una cosa incredibile. E il muco mica se n’è andato tutto eh.
PIERO ANGELA: La dottoressa l’ha detto però, è una sinusite bella forte, ci vorrà un mesetto per farla passare. Bisogna armarsi di santa pazienza.
GRANDE PUFFO: Ma quanto dobbiamo tenerla accesa la Macchina?
PIERO ANGELA: Lo sai, l’aerosol è eterno, la storia dei viaggi temporali non è del tutto errata.
GRANDE PUFFO: Guarda là, il sergente Hatman li sta fucilando tutti, uno ad uno, ‘sti microbi dimmerda. Forse però dovremmo fermarlo, non siamo pacifisti noialtri?
UNA MOSCA: Dopo quello che hanno fatto? Ci stavano distruggendo tutti! Dai un’occhiata, osserva la Kundalini svaccata sul divano, è piena di muco…
GRANDE PUFFO: E mica si muove. Incredibile.
MASTRO LINDO: Forza, bando alle ciance. La Stanza dei Bottoni fa schifo. ‘Sta botta la puliamo tutti insieme, ecco le scope.
BATMAN: Io sono già pronto!
SIGMUND FREUD: Nel frattempo però facciamo svegliare l’adorato, ha il naso che gli sta andando a fuoco.
  Mi sveglio, la Macchina ancora attiva, tolgo il tubicino dal naso, non ce la faccio più, aerosol del cazzo. Poi mi alzo, alla ricerca del coinquilino. Vago per casa. «Simone», chiamo. «Simone!»
  Niente.
Camera sua è vuota.
  In vestaglia (da quando ho una vestaglia?) spalanco la porta dell’appartamento.
  E
  al posto del pianerottolo
un’immensa balena di microbi neri governata dai diavoletti del raffreddore mangia i palazzi ormai distrutti dell’umanità estinta.