«È un tunnel», mi dice Ganesh. «Un tunnel senza fine, bello lungo, tutto
nero, manco ‘na lampadina, ‘na candela, un mozzicone pure… è buio. In fondo,
molto in fondo, la luce la vedi pure eh. Solo che più cammini più si
allontana…»
«A mio avviso il tunnel richiama l’immagine, ben presente in ognuno di
noi, del canale cervicale ed il movimento del feto, cioè, l’uscita no? Avete
presente?», annuisce Sigmund Freud.
«Lascialo stare ‘sto depravato Elia, ‘scolta a me. Si chiama depressione
e non c’entra un cazzo la madre, la famiglia e tutto il resto. È la
disoccupazione, se non c’ha ‘n impiego è depresso. Pare logico no?»
Ah! Compagni & Compagne! Sono
passati quattro mesi da quando il nostro amico Simone ha perso il lavoro! Che
bello vederlo mutare in una larva bioenergetica! Che bella cosa guardarlo
morire ogni giorno di più proprio lì, sul divano dell’appartamento nostro…
Eppure, Mangiatori di Formiche, il buon coinquilino ha provato a
cercarlo un lavoro. Si è dato da fare, almeno all’inizio… ha inviato
curriculum, ha girato, si è presentato ai colloqui… pensate, aveva pure la
camicia. Stirata eh. E stirare, qui a casa, non è una cosa normale. Non è vero
Ganesh? Diglielo tu.
«Ma certo, ricapitolando. Si hanno informazioni su tutto, compreso il
ferro da stiro. Mettetevi comodi bambini, andiamo a cominciare. Tanto tempo fa,
in un paese lontano lontano…»
«Io io!», dice il Criceto.
«Cosa?»
«La so!»
«Ma non abbiamo formulato una domanda…»
«Eddai, falla!»
«Okay. Quando è stato inventato il ferro da stiro?»
«Nel 206 A. C.! E consisteva in un recipiente di bronzo destinato a
contenere le braci incandescenti e provvisto di un manico di legno!»
«Risposta esatta!», urla Mike Buongiorno.
«Veramente Ganesh parlavo di Simone, fai un sunto per gli ignoranti».
«Breve e conciso», bacchetta Maria Montessori.
«Aho!», urlo, «E che è oggi?!? Stiamo quasi ad una pagina Cristo! Mica
possiamo perdere tempo così! Un briciolo di maturità… devo scrivere una roba
seria io, ecchecazzo».
«Scusa Elia. Hai ragione. Un po’ di silenzio prego. Il nostro
coinquilino, ignaro amico di tutti noi, lavorava in una cooperativa. Faceva i
laboratori per i disabili. C’aveva di tutto, dagli psichiatrici agli autistici.
Guadagnava sette euro l’ora, però, lasciatemelo dire, era contento. Poi a
settembre i capi mangiabanane non gli rinnovano il contratto, ché c’è tutta ‘na
storia di carenza di fondi e robe così. Simone rimane senza lavoro, come tanti
del resto. Però, e c’è un però, il Presidente del Consiglio dice che la crisi è
finita e che adesso i giovani ricominciano a lavorare».
«Bisognerebbe festeggiare», dice Margaret Thatcher.
«E questa da dove spunta?»
Simone ha trentatré anni ed è laureato,
ha fatto il DAMS, cinema, e voleva diventare un grande regista. Se da piccolo
il papà gli chiedeva, «Cosa vuoi fare da grande?», la risposta era senza
dubbio, «I film». Simone stravedeva per i film e i genitori ogni sabato sera lo
portavano al cinema. Adorava, il piccoletto, la sala buia, le poltrone scomode
e quello schermo grande, grandissimo, che prendeva vita. Lui mangiava cinema. Anche da grande, se non
va al cinema almeno una volta a settimana sta male. Il buon Simone, Amici &
Amiche, è sempre stato uno scapestrato, però simpatico. All’università si è
divertito tantissimo, con gli amici a far tardi ogni sera, a bere fino allo
stremo e a fumare così tanto che i polmoni, ancora oggi, gemono. Però, c’è da
dire, ha sempre lavorato. Studiava poco ma lavorava tanto. Da quando ha
diciotto anni eh. No, forse pure diciassette. A Simone dipendere dai genitori
non è mai piaciuto, anche se papà e mamma non se la passano male. Il padre è un
professore di matematica, di quelli un po’ fuori di testa, ma con il posto
fisso, che oggi, anche se fa così poco cool,
è cosa abbastanza rara; la madre invece è una fisioterapista e c’ha pure lo
studio da fisioterapista. Ma Simone, a meno che non stia morendo di fame, di
chiedere soldi ai genitori non ne ha voglia. «Mica c’ho sedici anni», dice,
«che mi faccio dare la paghetta?». Comunque lavora e, come tutti i giovani che
lavorano (bisognerà quindi escludere una lunga fila di giovani che non lavorano
quali…)
«La posso fare io la lista? Ti preeego…»,
mi supplica il Criceto.
«Okay».
LA
BREVE LISTA DEI GIOVANI CHE NON LAVORANO FATTA DAL CRICETO:
- I pariolini;
- I figli dei politici
- I figli dei banchieri;
- I figli dei grandi spacciatori
internazionali;
- I figli di Peppa Pig;
- I
Mi-Pesa-Il-Culo-Sono-Comunista-Però-Papà-M’ha-Regalato-Casa-A-Piazza-Navona.
«E così via».
Riprendiamo da più su, dicevamo:
…comunque lavora e, come tutti i giovani
che lavorano, ci mette otto anni a finire il DAMS. Otto anni Cristo. Per finire
il DAMS. Però capitelo, ha una vita, è pieno di donne, esce tutte le sere, va
ai cortei, spesso parte, ogni tanto studia e, appunto, lavora. E poi, oh, vuole fare il regista lui, quindi
gira tantissime cose e scrive pure tantissime cose, fa le sceneggiature e ogni
tanto scarabocchia pure qualche raccontino.
«Mica cazzi», dice Orson Welles.
C’ha il miraggio Simone e di lavorare
con i disabili non ci pensa proprio. Così lo segue ‘sto sogno del cinema e
quando si laurea, non contento, si iscrive al corso di sceneggiatura. Si fa un
mazzo, il poveraccio, la mattina studia e la sera lavora; pensate, accetta
addirittura di andare a fare il cameriere in un pub dalle otto di sera alle
otto del mattino per trenta euro (a notte). Ma il nostro eroe, ta-dan, non demorde.
Guardatelo!
Come corre da una parte all’altra! Senza
fermarsi! Mai stanco!
Una
sera, pensate un po’, va anche a cena con un fratello sfigato di un regista
famoso.
FRATELLO SFIGATO: Vuoi fare cinema.
SIMONE: Eh.
FRATELLO SFIGATO: Me lo porti
l’ombrello?
SIMONE: Mica piove.
FRATELLO SFIGATO: Non ora, ma se ho
caldo e se ti prendo come aiuto dell’aiuto dell’aiuto regista. Mi copri dal
sole. Non lo sopporto. E mi porti pure un caffè. E mi pulisci il culo, solo
ogni tanto però.
Il problema di Simone sono gli ideali. È un idealista, crede nel mondo
uguale, nel mondo diverso, nell’altro mondo e in tutte quelle storie dei mondi
possibili. Andiamo d’accordo su questo, solo che lui picchia. Non con le mani
eh, macché, con le parole, t’atterra con le lettere, l’amico mio.
«Ma questa cosa, ahimè, non sempre gioca a suo favore», dice Ganesh.
E infatti. Simone non sa abbassarsi, non
accetta le cose e si crogiola su questo. È infantile forse e al compromesso non
ci arriva. E poi gli pesa il culo. Ah! Diciamocelo! In questo periodo ad
esempio, con la scusa della depressione, non fa niente ed io devo sempre andare
a fare la spesa. Comunque. Il ragazzo non accetta i compromessi e intanto
cresce. Finisce a lavorare con i disabili quasi per caso e, nell’arco di
pochissimo tempo, tutto il suo mondo cambia. Ebbene sì, Signori & Signore,
ha trovato il suo lavoro. È felice. Dopo anni passati a fare i mestieri più
disparati finalmente ha scoperto una cosa che gli piace veramente. Adora i
pazzi, tutto qui. Ci sta bene, gli piace quel che dicono, quel che fanno, come lo fanno. A Simone, Fratelli &
Sorelle, gli piace l’anarchia e gli psichiatrici sono il top del top
dell’anarchia. Lui, letteralmente, si diverte. Anche se a volte torna a casa
con i lividi o con i tagli o anche con i brutti pensieri il suo lavoro lo ama.
Mi racconta le storie dei ragazzi, di quello che si masturba in camera
schizzando sperma su tutte le pareti come una fontana aperta, di quell’altro
che urla dentro l’autobus e tutti scappano, o di quello che ti lancia baci che
ti sciolgono. Si diverte sì e vuole bene. Anche a lui gliene vogliono, perché è
bravo. Simone non è al di sopra degli altri, agli utenti non li tratta mica da
pazzi. «Hanno solo un modo di ragionare diverso», dice. Sa ascoltarli. Fa le
gare con le carrozzine il coinquilino (se abitate a Roma e, a San Lorenzo,
avete visto uno che correva trascinando una ragazza sulla sedia a rotelle
mentre un gruppo di scoppiati dietro sgattaiolavano ululando, beh, quello è
l’amico mio). Ascolta le storie delle famiglie, delle nonne lasciate da sole ad
educare un ragazzo autistico che morde tutti, del padre che ha adottato la
figlia in Russia e che, crescendo, ha scoperto essere disabile (la ragazzina,
non il papà), della ragazza madre che mantiene il bimbetto down e fa tre lavori.
Ascolta sì. Ogni tanto la sera, tornato dal lavoro, piange. Oh, lui non piange mai eh, non dite che
ve l’ho detto, però ‘sto mestiere ti fa così. Ti porti appresso le storie, ti
corrodono dentro. Lo sai che non c’è nessuno, che sei solo. Per la cooperativa l’importante
è il denaro, non un progetto fatto bene, non un sostegno ai suoi lavoratori.
Gli operatori tutti vengono mandati allo sbaraglio.
«Fuori uno! Fuori due! Fuori tre!», urlano i marines del sociale.
L’importante, per il Presidente e per i
suoi fidi scagnozzi, è mangiare bio. Se mangi bio stai bene, se mangi bio sei
di sinistra.
Gli operatori vengono lasciati soli e vivono il lavoro in solitudine. La
ragazzina affidata ai servizi sociali non è un problema della cooperativa ma
dell’operatore. L’autistica che si butta a terra e sbrana tutti quanti non è un
problema della cooperativa ma dell’operatore.
Sono tipo degli eroi. E prendono sette euro l’ora. Ma a nessuno gliene
frega niente. Non importa ai municipi, ai comuni, allo Stato, alle cooperative;
sono solo carne da macello. Come per la maggior parte dei lavori. Siamo tutti carne da macello. Simone è
laureato in cinema e non lavora. Io sono laureato in scienze politiche e faccio
l’impiegato. Diciamoci la verità, siamo una massa di laureati senza impiego.
Siamo un paese di colti coglioni senza speranze. Abbiamo fatto le migliori
scuole, letto i libri più belli e a cosa è servito? Siamo nulla e nulla
rimaniamo; noi non viviamo, sopravviviamo.
Le nostre lauree non vanno mai bene. Serve una laurea per ogni cosa.
«Sì ma quella che avete è sempre sbagliata», ride Ganesh.
Simone oggi non può lavorare perché non
ha un titolo adeguato. Ha fatto cinema quando doveva fare scienze
dell’educazione. Ha preferito sognare ancora un po’, ché c’aveva diciotto anni,
mica lo sapeva che il mondo gira storto e i sogni è difficile si realizzino.
Dovrebbero dircelo cazzo, dovrebbero mettere un bel cartello giallo con una
scritta nera: queste sono le facoltà che un pochino (ino ino) ti serviranno,
queste quelle con cui non ci farai niente. E invece ti fanno sperare, ‘sti
stronzi. Ti fanno credere. Poi cresci e i sogni mica li hai realizzati; così
accetti tutto, ogni cosa, anche di fare l’impiegato timbra-pacchi come me.
Oppure -magia- trovi il tuo mondo, assieme agli sciroccati della terra, gli
vuoi bene a ‘sta marmaglia di fusi, ti piacciono gli spaccati e gli schizofrenici,
stravedi per loro. Accetti di pulire il sedere alle persone e di sporcarti la
mano di merda. Accetti tutto, ogni cosa. E presenti i progetti per la
cooperativa. Simone l’anno scorso ha scritto una cosa su un laboratorio di orto
da fare con i disabili, è andato al Municipio, ha parlato con l’assessore e il
progetto è passato. Trenta euro per la cooperativa, sette per Simone. Ma non
importa, va bene così. Non c’è problema, basta che mi fanno lavorare. Oggi
Simone è senza soldi e quelli continuano a prendere il denaro con il progetto
che ha scritto. È fantastico. Viviamo in un mondo all’incontrario. Siamo
governati da una banda di stronzi e di sotto-stronzi. È tipo ‘na scala no? E
prima di arrivare a noi, che stiamo nel gradino più basso, c’è tutta gente che
se ne approfitta.
La sera torniamo a casa, stanchi.
E
non abbiamo un lavoro.
E
non abbiamo speranze.
E
non abbiamo neanche grinta.
Perché se avessimo grinta, ‘sto sistema
di sfruttamento, lo avremmo già sabotato. Invece rimaniamo fermi.
La nostra è la generazione dell’attesa.
Noi siamo bravissimi ad aspettare.
Intanto il mio coinquilino lo buttano
sempre più giù. Gli tagliano le vene ogni volta, ogni giorno; lo umiliano con i
sorrisi patinati, con le facce da ebeti, con le automobili di lusso. Lo umiliano
e lo deridono. Simone accetta, accetta e cova rabbia. Abbassa la testa, perché
noi abbassiamo sempre la testa, e si fa picchiare. Lo colpiscono ovunque ma
soprattutto sul cranio, fin dentro al cervello. Gli spappolano le tempie, gli
infilano le dita negli occhi, lo soffocano fino a che non rimane senza aria.
Allora si accascia e stringe le gambe contro il torace. Ma a loro non importa,
si accaniscono ancora. Ridono, quando invia il curriculum ,e dopo aver riso
glielo accartocciano tutto, tutta ‘st’esperienza inutile, e glielo lanciano
contro una due tre quattro cinque volte. A ripetizione. Senza pietà.
Sì.
Siete senza pietà cazzo.
Dico proprio a voi, non c’avete cuore. Siete dei parassiti schifosi. Vi
attaccate ai nostri corpi e ci succhiate anche l’anima. Ci svuotate. E poi, una
volta che vi siete ben abbuffati, ci buttate via, come fossimo degli stracci.
Ci volete infelici, lobotomizzati, ubbidienti. Ci date ordini, ci usate senza
ritegno, stipulate contratti senza senso, ci licenziate e poi ci analizzate.
Precarizzate le nostre vite, sempre sull’orlo del baratro, in bilico sulla
fune.
Ma fate attenzione.
Voi,
che vi ingozzate nei ristorantini di
lusso,
che navigate in mare con lo yacht,
che parlate senza conoscere,
che mandate i vostri figli nelle scuole
private,
che adottate i bambini a distanza e poi
sfruttate il vostro dipendente,
che fate leggi sul lavoro,
che amministrate il denaro,
che vivete nei quartieri ricchi,
che spendete ventimila euro per la festa
di compleanno,
che non avete senso del pudore,
fate attenzione.
Perché ad una certa la gente si stufa.
Simone si stufa, io mi stufo, noi tutti
ci stufiamo.
La
rabbia è tanta, ce l’avete fatta crescere; coviamo rancore e odio e
risentimento. Tutti quanti. Abbiamo quindici, venti, trenta, quaranta anni.
Oggi accettiamo ma la corda si sta spezzando. Noi siamo gli sfruttati, i
poveri, i precari, i disoccupati, i marginali. E siamo molti più di voi.
Siete
quattro gatti, noi siamo milioni.
Fate attenzione quindi, copritevi bene,
nascondetevi sotto le coperte, correte da NaturaSì a far la spesa per l’ultima
volta perché presto, io lo spero, verremo a togliervi tutto.
Un po’ di tempo ancora.
E vi prenderemo anche le scarpe.
“Questa è la storia di un uomo che
cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un
piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: ‘Fino a qui tutto bene,
fino a qui tutto bene’. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”.
L’odio
Espressivo
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