Salve Cacciatori di incubi, Mangiatori di
scarafaggi e Piromani in provetta, l’altra sera ho fatto un sogno parecchio
strano. Ho sognato anche di avere una donna che si chiama Elena -cioè, il sogno
non è che è strano perché ho sognato di avere una ragazza eh… è strano per
altri motivi insomma- come Elena Roccia, la mia compagna delle elementari (di
cui ero follemente innamorato anche se, al tempo, per orgoglio tipicamente
maschile dicevo, testuale: «Mi fa schifo»).
Ve lo racconto, il sogno dico, così come me
lo ricordo.
Mettetevi comodi.
«È bellissimo, non è vero?»
«Come l’hai scoperto?»
«Conosci il Parco degli Elfi?»
«Sì, mi ci portava sempre papà a giocare a
nascondino».
«Bene, ieri stavo lì tranquilla tranquilla a
fumare una sigaretta quando improvvisamente si avvicina una vecchietta tutta
poverella che mi dà una cartolina dove c’erano le istruzioni per arrivare in
questo posto…»
«E la vecchia? Chi era?»
«E che ne so… mi ha chiesto una sigaretta e
se n’è andata subito via»
Mi guardo
attorno, un perfetto prato all’inglese ottimo per un pic-nic, due carezze e
qualche bacio; soprattutto quando la tua donna è vestita in questo modo così
carino e allora forse comprendi perché ti ha portato in un posto così vuoto.
Vuoto nel senso che non c’è proprio nessuno.
«Che fai», cinguetta lei.
Sorrido malizioso.
Ci rivestiamo in fretta infila la scarpa un
paio di carezze l’immancabile sigaretta in bocca.
«Ti va di fare una passeggiata?»
«Va bene», rispondo guardandola fisso negli
occhi.
Camminiamo lungo
sentieri immaginari, non ci preoccupiamo dei viali verdi e dell’ora tarda.
La precisione
con cui è stata tagliata l’erba del prato è incredibile, ti lascia di stucco
tant’è inglese.
«Si sta facendo tardi», dice Elena, «forse è
ora di tornare».
Ci teniamo
mano per mano e ridiamo -baci & sapore- passeggiamo a lungo cercando di
trovare l’uscita, camminiamo superando alberi e cespugli, un coniglio scappa lesto.
«Ma quanto è grande questo parco?», domanda Elena.
Procediamo
adesso più veloci, un pochino preoccupati.
«Guarda!»
Davanti a noi,
d’improvviso, si erge un bosco fittissimo, nero come la notte più nera.
«Ho paura», sussurra Elena stringendosi a me.
«Non devi, vedrai che adesso troviamo
l’uscita».
Il vento si
alza trascinando via le foglie e i colori cambiano. Il marrone avanza
prepotente e un brivido mi assale.
Un bambino e una bambina si avvicinano a noi.
«E voi due da dove spuntate?», chiedo
spaventato.
I bimbi non
rispondono, ci guardano solo terrorizzati. La ragazzina ha lunghissimi capelli
biondi, pelle bianchissima e degli occhi di un colore incredibile, come se lo
smeraldo di tutto il mondo l’avesse trafitta; è vestita con una camicia da
notte bianca. Mi guarda e sembra, per un solo attimo, scongiurarmi. Poi un
ululato, un ululato dal bosco. I bambini fuggono via.
«Fermi!», urlo.
Ma loro
corrono corrono corrono e scompaiono fra le tenebre scure.
Un grido
disumano si alza forte, dal punto più buio.
«Cosa facciamo?», piange Elena.
«Dobbiamo… dobbiamo raggiungerli, non
possiamo lasciarli soli».
«Vuoi entrare? Vuoi andare nel bosco? Si sta
facendo buio…»
Guardo Elena
un secondo, la voce quasi trema. «Vedrai, non ci succederà niente.»
Ci addentriamo nella selva fitta e lugubre, alberi
alti e spettrali sembrano seguirci. Il corpo è contratto dai singhiozzi e
quando scorgo gli occhi gialli che ci spiano faccio un salto indietro.
«È solo un topolino», mi dice Elena
stringendomi forte la mano.
Poi qualcosa.
Qualcosa si
muove alle nostre spalle
Mi giro di
scatto.
Un burattino
senza braccia ci osserva penzolando.
«E questo da dove spunta?!?», grida la mia
ragazza quasi strappandomi la carne.
Rimango
immobile, pietrificato. Chiudo gli occhi un secondo sentendo il sangue che
scorre veloce nelle vene.
«Guarda! I due bambini!»
Elena si volta.
«FERMATEVI!», urla.
Mi guarda.
Per un
attimo, uno solo lo giuro, non riconosco quello sguardo. Sono i suoi occhi a
colpirmi, occhi di ghiaccio, occhi che spaventano. Per un secondo soltanto
rimane immobile, come se una lama l’avesse passata da parte a parte, poi,
d’improvviso, lascia la mia mano, molla la presa e corre nell’oscurità.
Odore
di marcio.
«ELENA!», grido con tutte le mie forze. «ELENA,
DOVE VAI?»
La sento
urlare nel buio, grida selvaggia il mio nome gelandomi il sangue.
«Elena!», corro piangendo
Il cuore
batte forte, sembra scoppiare.
La pelle
formicola.
I pensieri galoppano
raggrumandosi.
Mi faccio largo fra le erbacce e la
sterpaglia, mi pungo con una pianta spinosa.
Freddo.
La vegetazione
si fa sempre più fitta, un gufo echeggia in lontananza. I bimbi ridono.
Perché ridete? State zitti MALEDETTI! STATE
ZITTI!
Ma loro
continuano, è un riso malvagio che rimane intrappolato nelle mie orecchie, che
arriva dritto al cervello e mi colpisce spaventandomi a morte.
Stringo forte
gli occhi, devo trovare Elena.
Il vento si erge alto sussurrando il mio nome.
Mi chiama e mi trascina facendomi graffiare.
Elia.
Una casa.
Pareti grigie, tetto scuro, finestre polverose.
«Elia…» sento gridare dalla catapecchia.
Non è un
grido, è più una supplica, una scoraggiata richiesta d’aiuto.
«Elia, vieni da me, non mi abbandonare ti
prego…»
Elena.
Cammino
veloce.
La casa.
Sembra più grande, pare quasi gonfiarsi.
I due bimbi si
parano davanti la porta d’entrata. «Signore», dicono insieme, «signore, non
entrare. È brutto lì dentro. Non entrare…»
Porta rossa e
decrepita, cosa nascondi?
È immensa.
È nera.
«Lasciatemi passare», dico, «chi siete?»
«Non entrare signore, scappa via», dice la
bambina dai capelli biondi.
Ma io non l’ascolto, l’unica
cosa che voglio è ritrovare la mia donna. Spingo via i due ragazzini e spalanco
di colpo la porticina.
Sono dentro.
La stanza è buia,
nera.
Non vedo
niente.
Rimango
fermo, aspettando che la vista si abitui all’oscurità.
«Elia…»
Cammino
piano.
Si gonfia e
si sgonfia.
Il alto.
Scale a chiocciola. Tasto il bordo, ruggine.
Salgo.
Tic
tic tic
Corro, faccio due scalini alla
volta, salto.
Paura.
Freddo.
La milza scoppia.
Una porta.
«Elia».
«Elena!»
La porta è
rossa.
Tiro la maniglia, non si apre.
«Elia».
«Sto arrivando!»
Do una due
tre spallate e la porta viene giù.
Vuota. La stanza è completamente vuota. Solo
il grigio delle pareti e la muffa prepotente e l’odore nauseabondo di putrefazione.
Tic tic
tic
Mi giro di
scatto.
Decine di persone in camicia di forza
camminano meccaniche.
«Chi siete? Cosa volete?»
Ma loro non
rispondono, continuano solo la loro danza macabra; sembrano… sembrano quasi
burattini... sbattono contro le pareti e riprendono a camminare, come automi.
Un uomo si avvicina a me, lo guardo, gli occhi sono morti, spenti, senza vita.
Non capisco.
Poi la vedo,
la vedo sfuggente fra tanti, la vedo e la raggiungo ansimando. «Elena», dico
felice.
Ma lei non reagisce.
«Elena, sono io… Elia… Elena…», dico
scuotendola.
Elena
cammina, sbatte contro il muro grigio, si volta.
Questa
ragazza non è lei. Elena, dove sei?
Esco dalla stanza.
Sento ridere,
un ghigno. Un ghigno.
Guardo in alto e, in cima alle scale, una
vecchia dalla gobba prosperosa mi osserva divertita. «Vieni», dice
stridula, «Non aver paura».
Sembra quasi nonna Concetta, solo più brutta,
molto più brutta.
Corro, poi mi
fermo.
Potrei
sempre.
Potrei sempre
tornare indietro, scappare via. Scappare da questo incubo maledetto…
In cima in cima.
Elena, dove
sei?
Respiro affannato. Una porta, l’ennesima.
Un grido alle
mie spalle, mi volto.
C’è un
bambino.
C’è un
bambino completamente nudo.
C’è un
bambino completamente nudo che piange abbattuto.
«Perché?», piagnucola. «Non entrare», dice
passandomi avanti, «entrerò io al tuo posto». Apre la porta richiudendosela
alle spalle.
«Aspetta!» urlo tirando la maniglia.
Sono dentro.
«Io… voglio solamente ritrovare la mia
ragazza, Elena. Si chiama Elena. Lei, lei stava giù. In quella stanza. Insieme
ad altra gente… ma non mi rispondeva. Non so, non era lei. Se mi dici dov’è ce
ne andiamo subito. Ti giuro, non dirò niente a nessuno…»
Rimango in
silenzio, dov’è finito il bambino?
Mi guardo intorno. Ci sono immense scatole di
vetro blu a forma di bara sparse in tutta la camera, scatole lunghe un metro e
mezzo due metri al massimo.
E dentro le
scatole…
dentro le
scatole corpi umani dormono persi.
Mi volto di
scatto, premo contro la porta.
Strane parole sono dipinte rosse sul muro.
File di manichini senza testa sono appesi al soffitto, ondeggiano, come cullati
dal vento. Ce n’è uno vestito come me, uno vestito come Elena.
Giro per la stanza, attorno alle bare di
vetro.
Elena dorme.
Dormi o sei morta? Elena dorme bellissima. Premo disperato contro la bara di
vetro dove giace il suo corpo. «Elena!», urlo. «ELENA!»
Ma lei non
risponde. Non può sentirmi.
Che posto è questo?
Vecchia, dove
sei? Dove ti nascondi? Avverto la tua
presenza. Mi spii?
Poi vedo una bara vuota e capisco. È per me.
Mi sta aspettando.
Alzo il
coperchio con movimenti meccanici. Mi infilo dentro, mi sdraio. Chiudo il
coperchio. Chiudo gli occhi.
E, dal nulla,
decine di bambini invadono la stanza ridendo. «Mamma», gracchiano. «Mamma, dove
sei?»
Cantano i
ragazzini: «Questa è la stanza del sogno, fai un grande girotondo, non aver paura,
non c’è una cura. La stanza del sogno, sali su, scendi giù, fai un pò come vuoi
tu. Fai un grande girotondo nella stanza del sogno. Se un pochino vuoi giocare
attento devi stare, non ti fare acchiappare quando devi ballare. In paradiso dovresti
andare, non restare!»
Li sento lontani, sempre più
lontani. Il corpo si irrigidisce, come fosse di legno.
Non. Sono.
Ed eccomi nella camera in
camicia di forza insieme agli altri.
Elena mi bacia. «Ben
arrivato», dice.
«Dove siamo?»
«In un sogno. Apri gli occhi».